L'amore che torna: romanzo - 12

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— Insomma, per esser breve, il pittore non voleva lasciarla partire, il
tutore la insidiava, io, ve lo confesso, mi affaticavo a tutt’uomo per
guidare l’acqua verso il mio mulino... e questa era una cosa naturale,
non vi sembra?
— Ecco: nel caso vostro, penso che avrei fatto come voi.
— Non ne dubito un istante. Ma bisognava lottare contro una resistenza
troppo lunga e troppo ardua per un uomo della mia specie, che
nell’amore, come negli affari, cerca sempre la via più breve. Così avevo
quasi rinunziato a lei, quando una sera, dopo il pranzo, me la vedo
capitare all’albergo, bella come non mi era sembrata mai. «Quando andate
a Parigi?» — mi dice. — «Dopodomani» — «E se venissi con voi?» — «Ah,
vivaddio, vi siete decisa finalmente!» — «Ecco se voi mi assicurate di
farmi recitare entro un anno, la mia decisione è presa». — «Qua la
mano!» — io le dico. Ed il patto è concluso. Più tardi, che so io,
qualche frase allegra, un po’ di fiori sul tavolino della cena, un
bicchiere di Sciampagna... insomma, come càpita sempre, mi lasciò
fare...
Io spinsi la crudeltà contro me stesso fino ad esclamare in tono di
burla:
— Ebbene, amico mio, non vi sarete annoiato! Che donna è come amante?
E dentro, fin nell’intima, rabbrividivo.
— Una ungherese, caro conte; crudele e triste, lasciva ed ingenua...
Quel sangue magiaro insomma, pieno di contraddizioni e di ardori.
— E poi?...
— Mah... quella notte fu la prima e l’ultima. Quando venne il giorno di
partire mi scrisse invece una lettera in cui diceva di aver mutato
parere; ch’io partissi pur solo, e forse più tardi mi avrebbe raggiunto
a Parigi. Le donne, signor mio, piacciono appunto perchè non hanno
logica e passano come le farfalle. Io, da un lato, quando fui partito,
non me ne dolsi; perchè quelle son donne che innamorano, e secondo me,
per essere felici, nell’amore non bisogna amare; bisogna semplicemente
chiedersi un po’ di gioia. Non siete del mio parere anche voi?
— Certo. Ma non sempre si può...
— Bisogna potere; a meno di volersi proprio guastar la vita, che in
fondo è una cosa gaia. Io sto sui palcoscenici, ossia fra le donne e fra
coloro che amano le donne; ho visto amare in ogni modo, ridendo e
piangendo, i ricchi ed i poveri, i giovini ed i vecchi... Ebbene, ho
concluso che nell’amore c’è sempre una vittima necessaria: bisogna
cercare di non esser quella.
Così dicendo fece fermar la vettura, e stringendomi la mano scese d’un
balzo, andò via frettoloso, dileguandosi tra la folla.
Io pure discesi. Per qualche tempo mi trovai come sperduto nella fiumana
di gente che ondeggiava per l’immenso dedalo parigino, e saliva o
scendeva la grande corsìa, trascinandomi seco nel suo tumulto, nel suo
frastuono, come uno sperso viandante che più non vedesse la strada.
E nelle orecchie mi suonavano confusamente le parole dell’ironico
amante:
— Nell’amore non bisogna amare, bisogna semplicemente chiedersi un po’
di gioia...
E chiara, terribile, alta su tutte, la narrazione indolente:
— Più tardi, che so io, qualche frase allegra, un po’ di fiori sul
tavolino della cena, un bicchiere di Sciampagna... insomma, come càpita
sempre, mi lasciò fare...
Poi quella sua definizione:
— Una ungherese, caro conte, crudele e triste, lasciva ed ingenua...
Quel sangue magiaro, insomma, pieno di contraddizioni e di ardori...


II

Finalmente lo stupore cessò. Guardai l’orologio; eran passate le cinque,
l’ora in cui per solito andavo incontro ad Elena, reduce dalla scuola.
Che avrei fatto nel rivederla? Cosa potevo risolvere in preda com’ero
d’un orribile turbamento?
Frattanto mi avvinse un altro pensiero, al quale non avevo dapprima
riflettuto.
Se per caso il Duvally m’incontrasse con Elena? Quale non sarebbe in tal
frangente la mia ridicola confusione? Bah!... in questo caso — pensai, —
gli dirò d’averla incontrata solo pochi giorni prima, o forse gli
confesserò con brio, con spigliatezza, il mio piccolo sotterfugio. Da
quell’uomo ch’egli era, certo ne avrebbe riso. D’altronde Parigi è
grande, com’egli aveva detto, e non ci s’incontra quasi mai.
Ora un solo desiderio dominava il mio spirito: quello di apparecchiarmi
una sottile vendetta, mostrandole che non m’ero del tutto lasciato
ingannare dalle sue menzogne.
E per la prima volta conoscevo nell’amore questo acerbo sentimento che
si chiama la gelosia del passato, più terribile perchè distante, non
precisa, piena d’immaginazioni a cui nulla può dar pace. Non andai a
prender Elena quella sera e camminai per le strade a lungo, elaborando
il mio disegno. Tornai, senz’averne costrutto alcuno, ma solamente
deciso a farla soffrire.
Quando rincasai, ella stava seduta nella sala da pranzo vicino alla
finestra, e leggeva. Su lei, sul libro cadeva una luce rosea da un
paralume di trine.
Udendomi entrare, si alzò, mi corse incontro festosa.
— Perchè non sei venuto a prendermi? — domandò, serrandomi le braccia
intorno al collo. Spargeva intorno a sè un profumo fragrante, che pareva
sbocciasse dalla sua persona come da nascosti fiori.
— È trascorsa l’ora senza che me ne avvedessi. Perdonami, — le risposi.
— È la prima volta, sai! — fece con un rimprovero sorridente.
— Ero con altri, con l’Alessi, e mi premeva di stabilire finalmente con
lui qualcosa di concreto.
Forse la mia voce, forse l’alterazione del mio volto la sorpresero.
— Che hai dunque? Mi sembri così concitato... — ella osservò.
— Io? Nulla. Credo che t’inganni, Elena!
— Eppure.... Mòstrati alla luce.
— Ho avuto mal di capo tutto il giorno: ora è passato.
Mi teneva sempre le braccia intorno al collo, appoggiava la sua guancia
fresca su la mia, poi mi passava la mano su la fronte come per blandirne
il dolore.
— Non hai proprio nulla?
— Ma no....
— Allora sei triste... un poco triste... Dimmi il perchè?
— Non vedi che rido?
— Sì, ridi, ma non come gli altri giorni. Forse hai qualche fastidio?
— Eh no! via! Perchè mi torturi così? Sono allegrissimo, ti assicuro!
— Oh, come sei brusco! — ella esclamò, sciogliendomi le braccia dal
collo.
— Via, non irritarti, — la pregai con dolcezza.
— No, affatto. Solo mi pareva di darti noia... — E soggiunse: —
Pranzeremo in casa?
— Come preferisci.
Ella se ne andò per dare qualche ordine alla domestica, io mi diressi
verso la mia camera per mutar d’abiti. Poco dopo l’intesi picchiare alla
porta.
— Entra, Elena.
— Ah, ti vesti? Esci anche stasera?
— Non lo so per certo, ma è probabile che il d’Hermòs mi venga a
prendere.
— Il d’Hermòs ti conduce sempre via. Scommetto che sei stato con lui
anche oggi.
— No: ti ho detto che sono stato con l’Alessi.
— Hai concluso nulla?
— Nulla per ora, perchè non ho voluto ancora prendere un impegno. Però
mi ha fatto proposte che ritengo assai vantaggiose.
Mentre così discorrevamo, ell’andava disponendo i miei abiti sul letto e
mi versava ora nei catini qualche goccia d’Acqua di Lavanda. Vi tuffai
la faccia, poi, nello specchio che avevo di fronte, stetti a considerare
ogni suo movimento. Era seduta presso il letto, intenta a mettere i
bottoni gemelli nei polsini d’una camicia di bucato. Su lo sparato
lucido i suoi capelli facevano cadere una vasta ombra.
— Che brava donnina sei! — -le dissi gaiamente.
— Perchè?
— Vedo che prepari le mie cose con una cura tutta particolare.
— Non lo faccio dunque ogni giorno?
— Sì: ma questa sera ti osservo con maggior tenerezza. Non tutti hanno
per valletto una personcina come te!
— Guarda, — ella fece, mostrandomi una piccola sfilacciatura del
polsino, — questa lavandaia ti rovina tutta la biancheria. Dovrò
cercarne un’altra.
— È vero; le mie camìce sono tutte sciupate.
— Bene, la settimana ventura manderò la biancheria da Charvet. Sta
lontano, ma saremo serviti meglio. Solamente Charvet è così caro!
— Non bisogna essere avari nelle piccole spese.
— Ma, vedi, noi spendiamo già molto, anzi moltissimo per i nostri averi.
Mi sono accorta per esempio che anche la domestica non fa i conti
esatti.
— E non le hai detto nulla?
— Sì, le ho detto che d’ora innanzi andrò a fare le provviste io stessa.
— Tu? Ma ti pare! Cambiamo la domestica.
— Perchè? Ruba un pochino, come fanno tutte, ma del rimanente è una
brava donna.
— Tu non sarai capace di fare le compere.
— Io? Perchè no?
— Non mi sembri adatta a far da massaia, a tenere una casa, tu che sei
sempre stata un po’ zingara....
— Bene, vedrai.
— Forse ne avresti già fatta la prova?
— Non ancora, ma sono certa che riuscirò.
— Invece io non ti vedo sotto le spoglie di una piccola borghese, che
vada al mercato a comprar cipolle, o si bisticci con il pizzicagnolo per
un etto di burro!... Sai per esempio cosa costa un pollo?
— E tu lo sai?
— Io sì.
— Dillo dunque.
— No, dillo tu.
— Oh, Dio!... due e cinquanta, tre lire, secondo le stagioni, — disse
ridendo.
— E lo zucchero al chilo?
— Lo zucchero è caro; costa due e quaranta.
— E le uova? Scommetto che non sai quanto costano le uova, la dozzina.
— Bene, le uova, in questi mesi, non costano più di tre soldi l’uno.
— Per bacco! Ma tu mi sorprendi!... — E mutando voce: — Non credevo che
avessi potuto imparar tante cose in pochi mesi di matrimonio!
E detti in uno scoppio di riso, come per uno scherzo innocentissimo.
Ella, che stava seduta presso il letto, con i due gomiti su la coltre,
il mento raccolto nel palmo delle mani, fu presa da un tremito e
impallidì. Gli occhi suoi, che mi fissavano, parvero smisuratamente
grandi nella faccia imbiancata!
— Che vuoi dire? — balbettò, dopo un silenzio.
Invece di rispondere, continuai:
— È vero che nella casa d’un pastore le cure domestiche s’imparano assai
bene!
E risi ancora, con più ironica freddezza.
— Allora tu sai... — ella osò profferire, guardandomi esterrefatta.
Diedi una scrollata di spalle e mi posi davanti allo specchio per fare
il nodo della cravatta. Nello specchio la potevo guardare senz’aver
l’aria d’interessarmi a lei. Si era levata in piedi, e con le mani
contratte, rigida, muta, mi fissava. Su la sua faccia era di nuovo scesa
quella fredda e crudele maschera che la faceva parer simile ad un’erma.
Poi, d’un tratto, mordendosi con l’orlo dei denti le labbra pallide:
— Ecco! per la prima volta ti odio! — inveì con asprezza.
Io, non volendo venir meno a quella ironica indifferenza che mi ero
prefissa, la guardai con un sorriso leggero, e dissi:
— Almeno, tu, che sei tanto falsa nell’amore, sarai sincera nell’odio! —
E soggiunsi: — Che ne dite, signora Miller?
Ella barcollò un poco, serrando le labbra, quasi avesse una rabida
voglia di buttarmisi contro, ma si contenne e rispose:
— Tutto questo non ti riguarda! È affar mio. Non ho conti da rendere a
te.
In quel momento cercavo un fazzoletto bianco, da sera, in una scatola
trapunta con ricami verdi e fiori d’oro, — una memoria di Edoarda, che
avevo conservata per abitudine. Scelsi un fazzoletto e l’inumidii con
alcune gocce di profumo; trassi di tasca l’astuccio delle sigarette, lo
riempii. Facevo queste cose lentamente, ostentatamente, per darmi
un’apparenza tranquilla. Stetti a pensare qualche attimo, poi dissi:
— Allora, se non hai conti da rendermi, lasciamo andare, non parliamone
più!
— Chi ti ha raccontato questo? — ella domandò bruscamente, dopo una
pausa.
— Oh, mia cara... ecco, a mia volta, un particolare che non ti riguarda!
— Bene: qualsiasi cosa tu abbia fatto per saperlo, debbo dirti che non
fu certo un’azione da gentiluomo!
— Mah!... qualchevolta bisogna pur combattere ad armi uguali, non ti
pare? — esclamai con sarcasmo. — Occhio per occhio, dente per dente...
— Questa è una grossolanità.
— Non faccio che risponderti. Poi, vediamo: il fatto è vero o non è
vero?
— Verissimo! — ella confermò con forza.
— Dunque, perchè dovevo ignorare io quello che altri sanno? Per sembrar
ridicolo? No, via, non mi piace!
— Ma chi te lo ha detto infine?
— Non domandarlo, Elena, perchè sarebbe inutile. Tu hai voluto che fra
noi rimanesse un malinteso, un ostacolo perpetuo, e sia. Cerchiamo
solamente di non darci noia; rimani tranquilla... Vedi come sono
tranquillo io?
— Tu simuli! Tu mi vuoi esasperare con la tua indifferenza.
— Oh, no! Ci tenevo a dirtelo, te l’ho detto, basta. La sola cosa che
rimpiango è di averti lasciato credere, anche per un giorno solo, che le
tue menzogne mi avessero convinto.
Ora sceglievo attentamente un paio di guanti bianchi e ne scomponevo un
gran mazzo, non trovando quelli che mi andassero bene.
— Quali menzogne? — ella interrogò.
— Quali? Ma tutte, mia cara! Tutte, dalla prima all’ultima, senza una
parola di verità!
Ella si fece ancor più pallida: forse nella sua mente aveva già
immaginato un ripiego, ed ora questi miei avvertimenti ne dimostravano
l’inutilità.
— Ma non devi credermi uno sciocco per questo, — continuai. — Forse ho
avuto un torto solo: quello di volerti collocar più in alto che non lo
permettesse la tua anima di avventuriera.
— È troppo facile insultare una donna, — ella osservò freddamente.
— Insultare? Ma no, Elena, mi comprendi male! Voglio dire che tu hai
bisogno di mentire, d’ingannare, anche senza uno scopo, così, per
trastullo, forse per difesa, perchè hai nel sangue la paura del dominio
altrui. Ma, guarda... — e mi volsi allo specchio per ravviarmi i baffi,
— guarda: se anche a Roma tu avevi un amante!...
— A Roma?
— Sì, quel certo Duval... Duval... come si chiamava? Duvally, ecco! So
benissimo che sei stata l’amante sua, in un camerino da cena, per un
bicchiere di «Champagne!»
— Non è vero! È tutto falso! È tutto falso! — gridò con rabbia.
— Non affaticarti a negare. Smetti questa commedia inutile!
— Chi te lo ha detto? Lui stesso?
— Macchè lui! Non lo conosco nemmeno.
— Il d’Hermòs, allora?
— Cosa vuoi che ne sappia il d’Hermòs? Lascialo in pace.
— Allora che pensi di me? — domandò repentinamente, fissandomi con gli
occhi pieni di un’ira contenuta e splendente.
— Che penso? Nulla. Solamente, quello che sei, quello che fai, quello
che hai fatto, non m’interessa più. Hai avuto il torto di mentirmi...
Ecco tutto.
In quel momento la domestica picchiò all’uscio per dire che il pranzo
era in tavola.
— Oh, sentite, Clara, — io feci; — ho scordato di avvertirvi che
pranzerò fuori.
Vidi Elena fare un gesto repentino di sorpresa.
— Ma il pranzo è già servito, signore, — obbiettò la domestica.
— Non importa, poichè debbo uscire. Sentite anzi una cosa, Clara. Più
tardi, se venisse il signor d’Hermòs, ditegli che mi potrà incontrare
verso le nove al «Café de Paris».
— Va bene, signor conte.
Quand’ella si fu allontanata, feci atto d’indossare il soprabito.
— Esci? — domandò Elena con una voce fredda, gelida.
— Sì, lo vedi.
— E perchè mi lasci sola?
— Non so; preferisco non rimanere a casa. Ho i nervi un po’ scossi.
Cercavo il mio cappello con una specie di concitazione. Ella tese un
braccio verso di me, come per trattenermi e disse:
— Rimani, ti prego....
V’era nella sua voce una preghiera sommessa; io stetti un poco incerto,
mentre abbottonavo il soprabito.
— Ebbene, che vuoi?
— Nulla, ma non lasciarmi sola.
— Oh, che idee!...
— Rimani, ti prego. Vorrei parlarti.
— Parlarmi? Ah, no! Per dirmi altre menzogne? No, grazie. No, grazie!
Addio.
— Germano, senti!...
Ma era tardi; avevo già sospinto l’uscio, ed un attimo dopo ero fuor di
casa, tra la folla estranea, sul marciapiede.


III

— Caro conte, voi non avete vizi! — mi diceva quella sera medesima il
d’Hermòs, standomi seduto accanto, a un tavolino del «Café de Paris». —
Mangiate poco, bevete pochissimo e siete fedele sempre alla medesima
donna, fatto che non cápita spesso, anche se per caso questa donna lo
merita. Non cercate la società, non amate troppo il teatro, quasi non
frequentate gli ippodromi, non giocate: infine, mi sembra che al mondo
vi dobbiate annoiare.
— Può darsi che m’annoi, difatti. Ma tutte queste, ormai, son cose che
ho già provate ad usura.
— Lo credo; però tutti gli uomini hanno, se non altro, una passione
della quale non si stancano mai. E in fondo una passione ci vuole; siano
i cavalli od il giuoco, la donna o l’arte, qualcosa infine che rinnovi
ogni giorno la gioia di vivere. Voi mi sembrate invece così deluso di
tutto! Eppure siete giovine. All’età vostra, io mi domanderei ancora se
Parigi fosse da vendere!
— Oh, voi, caro d’Hermòs, voi siete fatto per non invecchiare mai! In
voi c’è la stoffa d’un uomo straordinario, ed io vi ammiro, credetemi,
vi ammiro e v’invidio. Siete un maestro sommo in quell’arte che si
chiama il vivere. Invece io, che volete? mi stanco. Vi sono molte cose,
troppe cose, che non mi divertono più. Fors’anche perchè ho forzata un
poco la misura in tutto.
— Non per farmene un vanto, ma certo non mi sono risparmiato neppure io.
No, credetemi, ciò che v’ingombra è ruggine. Ora, non bisogna lasciarsi
prendere dalla ruggine. Ho l’occhio esperto, e vedo in voi le tracce
d’un uomo diverso da quello che ora siete. Se aveste vent’anni, direi: —
Pazienza! Sono le ubbìe dell’amore. — Ma dopo i trent’anni non si ama
più come i colleggiali, perchè infatti l’amore è simile all’assenzio: le
prime volte dà il capogiro, poi man mano ci si avvezza, e diventa
un’abitudine gaia. Quindi, nel caso vostro, non è l’amore.
— Certo: non è l’amore.
— E che mai potrebb’essere dunque? Siete sano...
— Come uno stinco!
— Siete ricco?...
Ed i suoi occhi acuti mi fissavano con una penetrazione singolare.
— Già, sono ricco! — ammisi ridendo.
— Siete amato e potete esserlo da chi vi piaccia... Perchè dunque non
sfruttare questi doni che la natura vi ha concessi?
— Ecco, mio caro d’Hermòs. Voi siete certo un uomo pieno di spirito, ma
avete un gran difetto: quello di esser troppo teorico e poco pratico,
almeno per gli altri. Quante cose vi sono, che in teoria sembran giuste,
ma nella pratica vanno a cozzare contro l’impossibilità!
Egli aveva sorriso di queste mie parole con un’aria d’intendimento.
— Non dite così. Dite piuttosto che voi mi conoscete solo per un verso;
quanto al lato pratico, se vorrete, sarò ben lieto di mettermi alla
prova.
— Come sarebbe a dire?
— Ahimè! Bisognerebbe intenderci a volo... Siate anche voi un uomo di
spirito, caro conte!
— Vi ripeto che non comprendo.
— Vuol dire che non è necessario, per ora. Quando sarà il momento credo
che mi comprenderete.
— Parlate come una sibilla.
— No, come un prudente. E sapete perchè? Perchè voi siete un uomo
sospettoso. Io vi diverto qualche volta, ma non v’ispiro fiducia. Ed è
peccato, perchè noi potremmo esserci molto utili a vicenda!... —
esclamò, accentuando singolarmente le parole.
— Non vedo in cosa, e vi pregherei di spiegarmelo.
— Bah... non ora! Un’altra volta.
E con quella volubilità che gli era solita mutò discorso. Mi raccontò
qualche aneddoto su persone che sedevano all’intorno, mi diede il nome
del cavallo che avrebbe certamente vinto l’«handicap» del domani, mi
narrò che la sera prima era stato a pranzo dalla Contessa di Clairval,
una signora della quale mi parlava spesso, ed anzi mi offerse di
condurmi una sera a farle visita.
— Là scaccerete la noia, — disse, — questa mortale nemica degli uomini
che han troppo goduta la vita. Non è certo una casa della grande
società, ma nemmeno della società equivoca. Vi si dànno accademie di
musica, musica ottima qualche volta, si mangia bene, si beve meglio,
alcuni anzi bevono troppo, si giuoca e vi si fa la corte a chi si vuole,
senz’avere al fianco lo spettro d’un marito importuno. Que’ mariti poi
che vi s’incontrano, somiglian pochissimo al terribile Otello... han
tutti un carattere indulgente... Insomma, ciò che avviene press’a poco
al Faubourg Saint-Germain, con la sola differenza che nessuno in
anticamera vi domanda il passaporto.
— Il mio è in regola, dunque non me ne preoccupo.
— Oh, lo conosco da lungo tempo il vostro passaporto! E, in ogni caso,
non dubitavo delle sue perfette vidimazioni.
E mi guardò con un candore di fanciulla.
— Dunque, — ripresi — ditemi chi è mai questa Contessa di Clairval,
della quale mi parlate ogni giorno?
— Potrei raccontarvene tutto un romanzo, ma vi basti un particolare
solo: è una donna che spende almeno duecento mila franchi all’anno,
avendo per tutto patrimonio un reddito vitalizio che tocca sì o no gli
ottomila.
— E come ricava il resto? Ha un amante ricco?
— Ah, mio caro conte, non bisogna mai badare a queste inezie! Sono
sfumature, sono piccolissimi episodi nella grande commedia parigina.
Come li ricava? Ma che importa, dal momento che li spende?
— Questo è vero. Però dev’essere una donna intelligente, se riesce a
questo prodigio.
— Oh, la cosa non è poi tanto difficile, come vi può sembrare! Non lo
sarebbe neanche a voi, per esempio, se lo voleste. Naturalmente non
bisogna starsene con le mani in mano. Ci vuole un po’ di tatto, un colpo
d’occhio sicuro, del brio, della spavalderia, dell’agilità... E un’altra
cosa ci vuole, che forse non sospettate: una donna che vi faccia strada;
perchè questa Parigi, regno della femminilità, è ancora quella che al
tempo dei Re governavano le favorite. Qui c’è un turbine, un vortice che
prende tutti, e bisogna fare in modo ch’esso non vi travolga, non si
rovesci come un peso morto. Ma ditemi: perchè noi, che stiamo dietro le
quinte, vediamo per esempio la duchessa tale vendersi ad un banchiere
ebreo, visto che il marito non può darle, poveretto! più di centomila
franchi all’anno per i suoi abiti, e, senza questi aiuti morganatici,
non si avrebbero quei balli favolosi al palazzo dell’Avenue Friedland?
Vediamo l’ultimo rampollo della maggiore famiglia di Francia prendere in
moglie un’Americana stile «Liberty» — che magari ha già patita qualche
avarìa durante la traversata? Vediamo un marchese, che non vi nomino,
mischiare le carte a modo suo nel Circolo della «Rue Royale» ed un
principe che ha qualche parentela nelle case regnanti esercitar l’usura
dietro le spalle d’un uomo di paglia? Perchè? Ma è semplice! Perchè il
turbine di questa vita lo esige come una necessità. D’altronde, queste
cose non hanno importanza... Il secreto è di aver sempre denaro, di
elevarsi tra la folla e di rappresentare una parte sfarzosa in questo
grande spettacolo coreografico.
— E voi — dissi piacevolmente, — l’avete dunque trovata questa pietra
filosofale dell’alchimia moderna, questo secreto per aver sempre denaro?
Prima di rispondermi egli mi guardò a lungo, nascondendo sotto le ciglia
una specie d’irrisione velata e carezzandosi la barba con un gesto
blando.
— Io — mi rispose tranquillo, — sono stato dieci volte ricco al pari
d’un Creso e povero come un Giobbe; ma vi dirò insieme che la ricchezza
non mi ha mai data la felicità, come la miseria non ha mai potuto
intimidirmi.
— È una risposta vaga, — osservai. — Non mi avete ancor detto se questa
pietra filosofale si trovi o non si trovi nel vostro forziere.
— Avreste per caso l’intenzione di rubarmela? — egli obbiettò con un
riso perfido.
— Può darsi. E perchè no? — feci con noncuranza.
— Ebbene, io non desidero di meglio, caro amico!... Ma, chiacchierando,
si fa tardi. Sono le dieci e mezzo. Ho promesso alla Contessa di
Clairval di andare da lei anche stasera. Voi che fate?
— Non saprei; tornerò a casa fra poco.
— Venite con me allora; vedo che avete la fronte buia; forse vi
divertirete.
La curiosità ed il desiderio d’inasprir Elena col mio contegno,
m’indussero ad accettare.
— Bene, — risposi, — vi accompagno.
————
Questa Contessa di Clairval era una donna d’aspetto assai attraente,
benchè ormai dovesse avere oltrepassata la soglia dei quarant’anni. Ma
col tempo lottava utilmente, come con tutte le cose difficili della
vita, e forse doveva molto alla sua figura snella ed agile se in
istrada, quand’usciva con la figlia, la contessina Amelia, la deliziosa
contessina Amy, molti potevano ancora ingannarsi e prenderle per due
sorelle. Aveva un po’ quel tipo di creola che tanto piacque ai francesi
del Primo Impero in Giuseppina di Beauharnais, e, forse perchè le
avevano fatto questo complimento, ella si compiaceva spesso di
affettarne le maniere. Solo, nell’espressione del viso, nel guardare,
nel sorridere, non era più giovine; qualcosa di estremamente vissuto, di
estremamente corrotto, le traspariva da ogni linea, direi quasi da ogni
gesto. Si narrava che avesse un tempo frequentata la migliore società,
vivendovi con molto brio e con molte avventure, senza però infastidirne
il signore di Clairval, assorto com’egli fu sino alla vigilia della sua
morte in altri facili amori e clandestine lussurie.
Avevo già dubitato ch’Elia fosse l’amante della Contessa, e più che
l’amante il complice, ma non tardai quella sera, per molte osservazioni,
ad acquistarne la certezza. Nella casa egli agiva da padrone, pur non
facendone le viste; usava con tutti una dimestichezza cortese ma
imperativa, e con alcuni un sorriso fuggevole di acquiescenza. Mi fecero
conoscere molte persone, mi parlarono di varie cose, in modo
superficiale; persone e cose che nulla avevano di ragguardevole, tranne
una comune, indefinibile aria di ambiguità.
— Ebbene, — mi domandò Elia passandomi vicino, — cosa ne dite?
In quel momento l’uomo, le sue parole, i suoi gesti, mi parvero
singolarmente odiosi ed ebbi la tentazione di rispondergli con una
sgarberia. Gli dissi:
— Vi ringrazio di avermi fatta conoscere una casa dove potrei divertirmi
se fossi un uomo di spirito.
Egli rimase un attimo perplesso, come per studiar il valore della mia
risposta, poi si mise a ridere.
— Belle donne! — esclamò. — Non è vero?
— Alcune anzi bellissime, — risposi.
— Quale v’è maggiormente piaciuta?
— Oh, Dio... nessuna e tutte. Ho passata ormai quell’età nella quale si
preferisce una donna... oltre la propria, beninteso. Tutte quelle mi
piacciono che possono ancora serbarmi un’attitudine od un capriccio
nuovo.
— Olà, mio caro, lo snobismo italiano è di una raffinatezza incredibile!
Ma in tal caso non siete caduto male. Qui si trovano i frutti proibiti,
le rarità, i valori che non sono quotati nel commercio parigino.
— Ed è qui allora che si mettono all’incanto?
— Oh, no! vi assicuro di no! — egli rispose con un certo risentimento.
Poi, tornando salace: — Non è che una mostra, — soggiunse.
— Già: di articoli fuori concorso.
— Benissimo! E cosa ne dite, per esempio, di Suzanne Bondy, quella che
sta mescendo lo Sciampagna? o della deliziosa Yvonne Tellier, colei che
parla ora, presso il cembalo, con quella pergamena logora che si chiama
il Marchese Chasnay?
— È fine, molto fine; le fui presentato poco dianzi ed il mio nome la
divertì sommamente. Non poteva riuscire a pronunziarlo bene: Germano
Guelfo di Materdomini... le pareva un logogrifo! Mi disse: — Alla
buon’ora! per essere imparentato con la madre di Nostro Signore, non
avete l’aria abbastanza venerabile, mio caro conte!
— Non c’è male! Una donna di mondo, interessante a conoscersi, vi
assicuro. Posso offrirvi un sigaro?
— Grazie.
Egli mi accese il sigaro, poi mi domandò sottovoce:
— Siete stato di là, dove si gioca?
— Si.
— Avete giocato?
— Non ancora; ho l’intenzione di andarmene presto.
— Bene, un consiglio; ma rimanga fra noi. Vi sono alcuni banchieri
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