L'amore che torna: romanzo - 17

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cammino, dividerci ad un bivio, senza lacrime, senza rimpianti, per
andar soli, o con altri, verso le case lontane. «Noi dobbiamo
lasciarci... » dobbiamo seppellire tutte le speranze del nostro amore,
sentire a vicenda una immensa pietà delle nostre povere illusioni
perdute...
Questo voleva dirmi la donna che mi aveva tanto appartenuto, la sola per
la quale non avessi considerato l’amore come una dolce avventura che
passa e fluisce. Tanta strada si era compiuta per giungere ad una parola
così ragionata e calma, dopo aver creduto alla indissolubilità, al
sempre, al mai, a tutte le speciose favole degli amori che invece
tramontano.
Ahimè!... v’era una tristezza profonda, così nell’offrire, come anche
nel rifiutare un simile patto.
La guardai fiso, ed una specie di sgomento mi fasciò l’anima, perchè le
sue pupille non tremavano, la sua bocca era ferma, e tutto in lei
segnava una risoluzione immutabile.
— Hai scherzato... — le dissi, con un sorriso che aveva paura di sè.
— Puoi credere che voglia scherzare in questo momento? — mi domandò,
coprendosi la faccia con le mani un po’ tremanti.
— Ma dunque...
Ella non mi lasciò finire; levatasi, mi venne accanto, così da
costringermi a guardarla bene in viso, e disse:
— Ascolta: fra noi, uno solo ha amato. Non vorrai convenirne, anzi ti
parrà necessario spendere molte parole inutili... ma invece non
obiettare nulla; quella sola son io.
Feci un moto con la mano come per interromperla, ed ella mi prese la
mano fra le sue, con dolcezza, facendomi segno che tacessi.
— Abbiamo passato insieme ormai due anni; è quasi la primavera, ti
ricordi? la primavera di Torre Guelfa...
I suoi occhi si empirono di lacrime, ed ella scosse il capo
all’indietro, per resistere a quel pianto.
— Bah... non importa! E passato, è lontano... si dimenticherà.
— Elena, mio amore, — la pregai, — non continuare... Tutto questo fa
male; poi è profondamente assurdo!
— No, è ragionevole. Voglio dirti una cosa molto ragionevole: tu non
puoi vivere con me.
Feci un rapido gesto di collera, ed ella mi contenne con soavità.
— Forse ora ti parrà un sacrificio, ma dopo me ne sarai grato. Non è
colpa tua, nè mia; vi sono ragioni che rendono questa vita
insostenibile, almeno a te.
Io, che da lungo tempo vedevo sopraggiungere la necessità di un simile
colloquio, mi sentii ferito, quando le sue parole, con tanta fermezza,
ne affrontarono l’argomento. Ebbi quasi bisogno di offenderla.
— Fra noi, — presi a dire schernevolmente, — una sola ebbe coraggio; e
questa sola sei tu — sei ancora tu. Oh, non v’è dubbio! La tua fermezza
è ammirevole! Fra la Elena di Torre Guelfa e la Elena d’oggi sono
passati, non due, ma dieci anni di vita. Con un bel raggiro mi offri il
mio commiato. Bah... me l’aspettavo, quindi non me ne stupisco affatto.
Ella mi fissò profondamente, senza rimprovero, senza collera.
Sorrise; quel sorriso mi parve, su la sua bocca, una pietà generosa che
venisse dall’anima d’una sorella.
— Bisogna sempre difendersi, — rispose. — E tu, per difenderti, mi
accusi. È umano, in fondo; ma sai benissimo che non è vero. La mia colpa
fu in principio; se avessi avuta la forza di lasciarti allora, non
saremmo giunti mai a queste umiliazioni.
— Parole, parole! — feci amaramente. — So che da molti mesi nascondi
nell’animo il pensiero di abbandonarmi. Questa sera me ne parli: ti
ascolto. Bene: fissiamo il giorno. Tutto e sempre finisce così...
Si era distesa in una poltrona profonda, e premendosi il petto respirava
con ansia.
— Come sei crudele! — mi rispose. Gli occhi suoi fissavano un punto
invisibile nella oscurità della stanza. — Come sei crudele!
Ancora, guardandola, mi sembrò che fosse tanto bella come nessuna cosa
fu mai bella nel mondo, e un infinito smarrimento s’impossessò
dell’anima mia.
— Tu chiami crudele un uomo che si dibatte contro il suo destino, —
dissi, cercando anch’io nell’ombra quell’ombra che i suoi occhi
fissavano. Tra noi cadde un lungo silenzio; nella memoria e nell’anima
passaron cose molteplici; un desiderio di lacrime ci soffocò entrambi.
Allora, quasi continuando un mio sogno, le ripetei sottovoce:
— Io ti volevo amare per sempre...
— Ma non si può... — mi rispose con una voce rassegnata. — Quante cose
belle non si possono avere nella vita! Noi stessi uccidiamo ogni giorno
qualcosa del nostro amore.
— Questo è vero.
— Anche tu lo sai, Germano?
— E come non lo saprei, se ti amo, se ti ho amata sempre con tanto
dolore! — Un’altra pausa interruppe le nostre parole; lunghe torme di
visioni attraversarono la memoria evocatrice.
— Germano, — ella disse, — come tutto è triste qui! La mia voce stessa
mi fa male. Vorrei tacere, tacere sempre...
Portai una seggiola vicino alla sua poltrona e posando i gomiti sul
bracciuolo, mi raccolsi la faccia nei palmi delle mani. Sentivo il suo
respiro scorrermi su le falangi.
— Ti ricordi? — le dissi; — a Torre Guelfa c’era una stanza...
— Sì, una stanza grande... — E con la mano accennò la memoria.
— Un letto alto e profondo.
— Sì, un letto immenso.
— Poi, la mattina, il sole veniva fin su la coltre.
— E le contadine cantavano.
— Ed il glicine folto entrava quasi nella stanza.
— Ogni mattina se ne coglieva un ramo.
— Come tu mi amavi allora, Elena!
— Taci!...
— E ti ricordi quelle sale così vuote, così grandi?
— Sì, sì...
— Ed il giardino?
— Oh, il mio giardino, come lo ricordo!...
— E Lazzaro?
— Lazzaro, la sua cavalla saura, che volava!
— Ed i pranzi che facevamo sotto il pergolato, ed il nostro balcone
azzurro, dal quale guardavamo le stelle prima di coricarci?...
— Taci, taci! Sì, mi ricordo tutto, ma taci!
— Che bella casa!...
— Che bella casa!...
— Non vorresti ritornare laggiù, Elena?
— Oh, quanto lo vorrei!... — Ed aperse le braccia, come in un gesto
d’inutile desiderio, immenso. Allora mi chinai su la sua bocca e baciai
le lacrime che vi erano trascorse, in silenzio.
— Perchè mi baci ancora? — ella domandò affannosamente. — Non vedi che
ogni volta mi fai più male?
— Ma pensa che ti desidero ancora, io, come la prima volta! più della
prima volta!
Ella rise, tra le lacrime, con la gola riversa, un po’ turgida, il seno
inquieto. Le ciglia chinate oscuravano il pallore del suo volto.
— Per quanto tempo ancora ti ricorderai di me? — domandò, stringendosi
tutta contro la mia persona.
— Non voglio ricordarmi, voglio averti sempre, sempre!
Le sue mani mi lisciavan ora i capelli, dolcemente, lentamente.
— No, ascolta. Io non son stata gelosa, finchè ti ebbi: lo diverrò
terribilmente quando sarai lontano. Non ridire a nessuno quello che hai
detto a me... non voglio. Perchè t’ho appartenuto come nessun’altra e
vorrei rimanere nella tua memoria, io sola...
— Che bambina sei! Devi pur comprendere che non ti lascerò.
— Ma si deve... non c’è rimedio. Se non m’avessi conosciuta, oggi
avresti una famiglia, saresti ricco, libero, allegro. Invece non ridi
mai... Forse mi vuoi bene, un poco, ma mi odii anche, perchè sono la tua
catena e ti penti oggi di non esserti sposato... come dovevi.
— Ma no, Elena, t’inganni.
— La donna che ama non s’inganna mai. Vedi chiara la tua sorte e pensi
ad una salvezza. È così giusto in fondo! Poi, voglio confessarti anche
una mia piccola indelicatezza...
— Dimmi.
Le avevo slacciato l’abito e le baciavo la gola.
— Che fai?
— Nulla. Respiro il profumo che hai qui... un profumo di rose fresche.
— Allora, mi ascolti?
— Sì.
— L’altro giorno hai lasciato sulla tua scrivania due lettere di Fabio
Capuano. Mi sono immaginata che le avessi lasciate apposta perchè le
leggessi, e, per la prima volta, sono stata indiscreta: le ho lette. Me
ne rimproveri molto?
— No, affatto, anima mia; non ho secreti per te.
— Però le nascondevi sempre.
— Oh, Dio... quell’uomo ha certe sue fissazioni! Mi seccava che tu
leggessi certe bizzarìe... Ad ogni modo poco importa.
— Da quelle due lettere ho immaginate le altre, ed anche le tue. Così mi
sono persuasa che devo trovare il coraggio di renderti la tua libertà.
— Non gli badare; è un pazzo!
— No, è invece un uomo di buon senso, e ti vuol bene. Poi, non vedi
quante cose si mormorano a Roma sul tuo conto? Insomma non c’è che una
strada: quella che il Capuano t’insegna, e, se io te l’impedissi, mi
crederei colpevole della tua rovina.
— Elena, se tu mi volessi bene veramente non parleresti così. Non credo
a questi sacrifizi.
— Ma nell’anima si può morirne, forse... Che ne sai tu?
Compresi che il momento era venuto per una intera sincerità.
— Ascoltami bene, — le dissi, prendendole i due polsi, come per non
perdere un solo battito delle sue vene, ma insieme per stringerla nel
dominio della mia volontà. — C’è una cosa vera: continuando in questo
modo si andrebbe incontro all’irreparabile; tu lo comprendi, e come
rimedio mi offri un sacrifizio il quale, a parer mio, supera la natura
dell’amore. Ma voglio credere alla tua franchezza. Ora senti, Elena: di
me conosci molte cose, molte anzi che vorrei tu non sapessi...
A questo punto mi pentii d’avere cominciato un discorso così grave e
cercai un mezzo per evitarne la conclusione. Ma ella, vedendomi esitare,
mi sollecitò con una frase che mi dette coraggio.
— Sai pure — disse, — che per te sono anche una vera amica.
— Bene, allora continuerò; sebbene le parole che sto per dirti mi
brucino veramente le labbra. Senti: io ti voglio bene, davvero,
profondamente; non ho amato che te, con l’anima e coi sensi; tu mi sei
necessaria; il resto della mia vita non fu che scherzo, fumo, polvere,
nulla. Se ti avessi conosciuta prima, forse mi avresti anche insegnato
l’amore della famiglia, dei bimbi, della quiete, cose che non conobbi
mai. Sei venuta troppo tardi, e il nostro amore dovette soffrire le
conseguenze di tutta una vita anteriore. Ma non ti voglio perdere; non
voglio, capisci? — perchè ne proverei tale uno schianto, che non oso
nemmeno pensarvi. Quindi ho ragionato a lungo, in silenzio, anch’io.
Senti: un rimedio c’è, ma non è onesto. Vuoi che lo esaminiamo?
Poichè la guardavo direttamente, ella chinò gli occhi e rispose: —
Volentieri.
Esitai lungamente, un rossore mi coverse la faccia, guardai altrove,
impacciato.
— È una cosa orribile... — mormorai. — Ma non sempre la vita lascia una
libera scelta fra i mezzi opportuni. D’altronde, che fa? Ti voglio bene;
questo solo è vero. Dunque ascolta. So benissimo che potrei tornarmene a
Roma, ed in poco tempo, nonostante l’accaduto, rimediare a tutto. La mia
salvezza unica si riduce infatti a questo matrimonio. Ebbene, senti...
lo farò, lo farò contro il mio cuore, ma ad una sola condizione: che tu
mi appartenga lo stesso...
— Basta! Non proseguire; ho compreso, — ella disse con indulgenza, per
abbreviare la mia vergogna.
Di nuovo le sue falangi lievi, con un gesto di consolazione, mi
passarono tra i capelli, e nel lungo silenzio ch’ella frappose dinanzi
alla risposta, forse dalla malinconia del suo sguardo, forse dalla
tristezza del sorriso che le rischiarava la faccia, compresi di aver
commesso un grande fallo e mi sembrò di aver aperta in quell’anima una
profonda ferita.
— Germano, — ella mormorò; — se avessi avuto ancora un piccolo dubbio su
ciò che si chiama il tuo amore, queste parole mi avrebbero tolta
l’ultima illusione. M’hai fatto comprendere con evidenza quella verità
che avevo solo intuita.
E le lacrime scorrevano piane, lente, per la sua faccia cosparsa di
pallore.
— No, — riprese. — Ognuno ha la propria fierezza, la propria gelosia
nell’amore. Vedi, lo hai detto tu stesso: il rimedio non è onesto, e
nemmeno sincero forse. Lo proponi, conoscendone l’assurdità. Di fatti,
se pure l’accettassi, provvederebbe la forza delle cose a renderlo vano.
Ma non temere: io non son donna da scendere a questi patti.
— Elena, — balbettai, — perchè mi comprendi così male? Oh, se avessi
taciuto!
Il rossore, il turbamento, il rimorso, fecero di me in quel momento una
creatura bassa ed umiliata. Con un atto di vera debolezza m’inginocchiai
davanti a quella donna, che ancora una volta mi si mostrava bella e
pura; nascosi la faccia nel suo grembo e piansi. Sentii le sue mani
congiunte posarmi sul capo, con la lievità d’una carezza, e l’intesi
dirmi, piano, come si profferisce un voto:
— Io ti faccio una sola promessa: quella di non amare mai più, nulla,
nessuno, dopo di te, — neanche te, se ti potrò dimenticare. Nella vita
bisogna essere statue, simulacri di creature umane, ma soffocare
l’anima, soffocare l’anima con gioia! Sono stata una cosa tua, cercando
sempre di non lasciarti comprendere fino a qual segno ti appartenessi;
ma ora mi riprendo, per tornare la zingara di una volta, e non ti farò
subire la noia del mio dolore. Guarda: io posso guarirmi sùbito... posso
anche ridere!
In quella stanza, nel silenzio della notte già inoltrata, il suo riso mi
parve tragicamente sinistro. E questo pazzo cuore, che mai conobbe la
natura de’ propri sentimenti, provò il bisogno di protendere ancora la
sua volontà gelosa e forte su quel dominio che gli sfuggiva, onde mi
parve che l’amor mio crescesse, fino a divenire un tormento, fino a
sentirsi capace d’improvvise violenze.
— Tu non puoi non appartenermi! — esclamai con ira. — Non puoi
dimenticarmi, come io non posso dimenticare te.
Ella si levò diritta, rimase un momento, muta, rigida, fissandomi quasi
con odio.
— Lo credi? — rispose con una voce piena di scherno, che mi sibilò fin
nel cuore. Dall’alto paralume della lampada le pioveva sui capelli color
dell’oro e del bronzo una diffusa luce, formandole intorno al capo quasi
un’aureola splendente. Ed io, come se l’avessi già perduta, mi ricordai
la sua carne viva, posseduta con tristezza e con furore, mi ricordai le
sue labbra che sapevano di primavera e le parole che mi avevano
mormorate nelle notti d’amore. La vidi camminare per la stanza, fermarsi
davanti ad uno specchio, alzar le due mani con pigrizia per ravviarsi i
capelli.
Le andai vicino, e la baciai. Ella divenne tutta bianca, cercò di
respingermi, poi, d’un tratto, si mise a ridere. Lo specchio, di fronte,
le rimandava il suo riso convulso. Allora, sotto gli occhi, negli angoli
della bocca, nel cavo del mento, su le tempie, alle radici dei capelli,
nel solco profondo che le si formò tra i sopraccigli, vidi apparire
un’ombra che non conoscevo, quell’ombra che somiglia quasi alla paura
dell’anima quando incomincia la voluttà.
Fra le sue labbra socchiuse i denti scintillavano, minuti e crudeli; la
sua gola scoperta era gonfia di riso e di singhiozzo; intorno ai polsi,
per la inquietudine de’ suoi movimenti, si udiva un tintinnire di
braccialetti che mandavano splendore.
Dal sommo della fronte al lembo della gonna ella era tutta una voluttà
sola.


X

Il denaro atteso mi giunse da Roma, con una lettera del Capuano,
dov’egli giustificava il ritardo spiegando le varie difficoltà
incontrate nel procacciarmi un nuovo credito. Tuttavia compresi di
dovere a lui solo questo generoso favore, e poichè sapevo ch’egli non
era un uomo ricco, la sua bontà mi commosse tristemente. Ma ebbi
vergogna, e nel ringraziarlo finsi di non aver compreso.
Verso quel tempo il d’Hermòs fece ritorno a Parigi. Nutrii la speranza
nascosta ch’egli potesse aiutarmi ancora, ma invece doveva sùbito
partire per l’Egitto, dove, ad ogni costo, mi voleva con sè. Non mi
sentivo l’animo d’intraprendere viaggi e molte risoluzioni urgenti
stringevano la mia perplessità.
Quello che accettai senza discutere fu di recarmi a Londra una seconda
volta per vendere un buon numero di pietre sciolte e consegnare una
collana di rubini ad un certo personaggio misterioso, che venne
appositamente dalla Scozia per incontrarsi meco. Sulle pietre feci un
lauto guadagno, e, quanto alla collana, il d’Hermòs mi disse che avrei
ricevuta la mia parte in séguito, quando la si vendesse.
Intanto si avvicinava la scadenza dell’ipoteca fatta con il Rossengo di
Terracina, e da Roma l’amministratore mi tempestava di lettere,
sollecitando la mia presenza ed avvertendomi che il creditore non era
questa volta propenso ad alcuna transazione. Risposi che non avevo
denaro per riscattar la terra, e trattasse pure una vendita vantaggiosa,
che presto sarei venuto.
Non v’era più salvezza: bisognava chinare la fronte. Raccontai queste
cose ad Elena, ed ella mi domandò semplicemente:
— Quando andrai via?
Risposi:
— Non so. Forse domani, forse mai.
Ora, quando ci si parlava, non osavamo più guardarci; entrambi eravamo
oppressi da un senso di vergogna, di paura, o forse ci sentivamo
pervadere da una disperazione muta. Si disse malata; non andò al suo
teatro; vennero a vederla, non volle ricevere alcuno. Rimaneva per
lunghe ore nella sua camera, spesso con l’uscio aperto; la vedevo star
seduta, in silenzio; talora camminar lentamente, in su, in giù, con un
passo inerte, la fronte china, quasi uccidesse la noia di una mortale
attesa. Io non uscii di casa per alcuni giorni; andavo da una stanza
all’altra, ozioso, trasognato, sentendo quasi operare in me la magìa di
un sortilegio. Volevo andarle a parlare; mi alzavo, preso
dall’irrequietudine, poi smarrivo la memoria delle parole
indispensabili, e tornavo indietro. Una ridda folle di oscure immagini
turbinava nel mio cervello e mi sentivo crescere nelle orecchie il rombo
d’una voce interiore, che mi andava gridando con accanimento: «Quanto
sei vile! Quanto sei vile!»
Mangiavamo a lato a lato, in silenzio.
Cosa passò in quell’anima? nella mia?... Chi potrebbe mai dirlo?
E la primavera intanto fioriva; la strada era percorsa da comitive
ilari, con uno sfoggio di colori gai. Quell’anno anzi essa tornava
innanzi tempo; dalla terrazza si vedevano gli equipaggi muovere in
lunghe file verso il Bosco rinnovellato, e più tardi risalire, per tutto
il giorno, avanti, indietro, come se la città intera s’allietasse nel
visitare i suoi giardini. Un sole ancor freddo illuminava quella
passeggiata festosa, ridendo sui chiari ombrellini delle signore, fra i
quali svariavano le giubbe dei cavalieri caracollanti a fianco degli
equipaggi, mentre da un lato all’altro si scambiavano saluti e
cavalcando facevano bella pompa di maestrìa. Era tempo di freschi amori,
di nozze nuove, di cortesi galanterie, d’allegrezze primaverili.
Noi soli, nella nostra casa conscia di troppe sventure, muti, stanchi,
avversi, guardavamo dalla fresca terra nascere la primavera invano.
Passò una mattina, mentre stavo al balcone, una venditrice di fiori.
Aveva la sua cesta piena di violette e di rose; non altro che violette e
rose. La chiamai più volte, poichè non mi udiva. La donna volse gli
occhi al mio terrazzo e sollevò il paniere.
— Atténdimi, — le dissi; — ora scendo.
E scesi; comprai tutti i suoi fiori, e la canestra insieme. Salii per le
scale portando io stesso quel gran fascio, e mi parve che un poco di
primavera entrasse nella nostra casa con quel profumo di fiori
mattutini. Li deposi, com’erano, su la tavola nella sala da pranzo, e
stetti a guardarli pensierosamente, come si guarda una bellezza inutile.
Povere violette, povere rose, povero me stesso che le avevo portate! Dal
poggiolo aperto, l’alito primaverile scorreva sovr’esse, agitando i
cálici colmi di gocciole splendenti. Violette e rose, dono vaghissimo e
tristissimo per un amore condannato! E guardandole mi rammentai quel
giardino di Torre Guelfa, dove c’era una pergola tutta di rose, un
piccolo bosco tutto di viole. Pensai ch’essi pure, in quel tempo,
aprivano le corolle, i miei fiori d’Italia, e mi sovvenne del giorno
ch’eravamo partiti insieme, sul barroccio di Lazzaro, con la cavalla
saura tutta infiorata, per andare a Fondi alla festa della primavera.
Volli chiamar Elena per dirle:
— Guarda: sono gli ultimi fiori... — ma compresi che avrei pianto, e
l’avrei fatta piangere, mentre nel nostro immenso dolore la sola cosa
benefica era il silenzio.
Quando entrò, li vide. Con i suoi occhi lucenti mi mandò un sorriso e
fece scorrere la mano sui fiori, delicatamente, come avrebbe fatto per
carezzare la testa di un bimbo. Poi li portò nella sua camera, sempre in
silenzio.
Intanto i giorni passavano, in quella perplessità simile allo sgomento;
noi fummo come due sconosciuti che facessero insieme una veglia di
morte.
Ma un pomeriggio, mentre in ozio fumavo nel mio scrittoio pensando a
cose lontane, ella entrò, sorridente, leggera, e mi disse come per
ischerzo:
— Vieni, ora faremo i tuoi bauli.
Ogni linea del suo viso tradiva uno sforzo incredibile di volontà; la
guardai meglio; mi parve che ci fossero nella sua persona i segni d’una
profonda stanchezza; mi ricordai che ogni tanto la vedevo passarsi una
mano su gli occhi, o premerla contro il petto, con un sospiro quasi di
soffocazione. Inoltre non camminava più così diritta; c’era nella sua
persona quasi uno sfiorire lento. La seguii senza rispondere; aveva già
fatti portare i bauli nella mia camera, e s’accinse a riempirli, volendo
che l’aiutassi.
Vuotò i cassetti, dispose le biancherie sul letto, gli abiti a mucchi su
le poltrone, le scarpe da un lato, i libri, le cravatte, i profumi
dall’altro, poi, mettendosi a ginocchi dinanzi al baule aperto:
— Mi darai le cose ad una ad una, — disse; — io le riporrò.
La stanza era piena di sole; anche la coltre, i cuscini, gli abiti
sparsi, le camice fresche di stiratura, i libri scompigliati, le
boccette de’ profumi, l’avorio dei pettini, le scatole, i gingilli,
tutte le cose che si preparano a chi va via, tutto brillava, mandava una
luce vivissima in quel giocondo sole. Ed i suoi capelli anche; i suoi
capelli, quando si abbassavano verso il fondo del baule, traversando una
striscia di sole, davano qualche lampo di straordinaria luce.
Ella parlava naturalmente, come se fossi andato per un viaggio breve, e
già, partendo, si pensasse al ritorno.
Invece no. Partire per sempre, dirsi un’ultima volta, perdutamente,
addio... sentire che dopo, che mai, quel bene sarebbe ricuperato. Non
sapere più nulla, mai più nulla di ciò che avverrebbe all’altro; portare
via negli occhi l’ultima, la più bella immagine dell’amore perduto.
Partire: mettere tra l’uno e l’altra la lontananza e non l’oblio,
l’ignoto e non la pace. Portare con sè un grave peso di desiderii non
estinti, e sapere che la vita dovrà necessariamente continuare per
entrambi, arida, squallida, come una terra devastata. E lentamente
rievocare tutto il passato, le ore più dolci, le ore più tristi, e le
vicende che si ebbero, le parole che si dissero, le promesse che furono
scambiate, e sentir crescere nel profondo cuore una terribile
disperazione muta...
Poi un altro pensiero subitaneo, crudele, tagliente, come una lama ben
affilata:
«Ella era giovine ancora, bella, più bella di tutte... Necessariamente
avrebbe appartenuto ad un altro.»
La guardai. Stava un po’ china sul letto, intenta a ripiegare con somma
cura un abito mio che rammento ancora, di un color cenere quasi celeste,
a sottili trame, un abito che indossavo sovente perch’era il suo
preferito.
Quasi ad interrompere il silenzio, le dissi:
— Non riporre quell’abito; lo metterò per il viaggio.
Ella sostò nel mezzo della sua faccenda, naturalmente, con un sorriso
calmo su le labbra:
— Questo vuoi mettere? Che idea! È troppo chiaro; ti si rovinerà.
Stando così, un po’ curva, con le mani poggiate su l’abito, la sua
faccia splendeva interamente nella obliqua striscia di sole.
— Che importa? — risposi. — Non è questo un abito che ti piaceva? Dunque
bisogna sciuparlo.
E così dicendo, le stavo di fronte, la guardavo, immobile, dall’altra
parte del letto.
Una piccola ruga fugace le si formò tra i sopraccigli; non rispose,
finse di non aver udito e pose l’abito su la spalliera d’una seggiola.
Portava un suo profumo leggero ed intenso, composto con essenze diverse,
mesciute insieme, un profumo che rimaneva dietro lei, dovunque passasse,
come una traccia soave. Tutte le cose sue, tutte le mie che avesse
toccate, sapevano di questo profumo tenace; anche lontano, dopo la
partenza, mi sarebbe sembrato di rivivere con lei.
Il pensiero tornò, più vivo: «Ella era giovine ancora, bella, più bella
di tutte.... Necessariamente avrebbe appartenuto ad un altro.»
Con gli occhi un po’ ebbri, che l’amore aveva resi esperti, mentre
guardavo il suo corpo ed il suo grembo, vidi la camera dove si sarebbe
data ad un altro, il letto, i suoi capelli disciolti. Una gelosia nuova,
insana, mi torse lo spirito, ebbi la tentazione di gridarle forte:
«Lascia quei bauli! Riponi le cose mie. Non parto più. Non ti posso, non
ti posso perdere!»
Ma invece tacqui; pensai ch’era una sciocca debolezza la mia, e che
dovevo mostrarmi calmo quanto lei, per non parerle da meno. Sedetti sul
letto, fra gli abiti e le biancherie, nel sole. Dall’altro lato, sopra
un tavolino, in una grande cornice di pelle incisa a gigli d’oro, c’era
un suo ritratto, bellissimo, con un ciuffo di violette appassite fra il
vetro e la fotografia. Sul ritratto, in un angolo, queste parole scritte
di suo pugno: «_A toi toujours... — Hélène_» E una data. Parole vuote in
fondo, come tutte quelle che ricordano e promettono l’amore. Ma in quel
momento mi parvero singolarmente piene d’irrisione; mi parvero quasi
un’ultima, sottile ironia, nella eterna commedia del sentimento.
Oh, l’amore, che dice «sempre» — che dice «mai», che misura le sue forze
anche al di là dalla vita e sfida in bellissimi lirismi tutte le
necessità caduche del nostro infedele spirito! Mi parve in quel momento
ch’ella fosse la sola colpevole del nostro abbandono, e mi cacciasse da
sè per darsi ad altri amori, vietandomi ormai per sempre i suoi baci, le
sue carezze, il suo profumo, tutte le cose che avevo pazzamente amate in
lei. Insieme tornavano le memorie, lente, calme, in una luce quasi di
miracolo, fasciandomi l’anima d’un involontario bisogno di pianto. E
rivedevo la straniera bellissima, dai capelli color dell’oro e del
bronzo, ch’era venuta nella mia casa di Roma, una sera — una sera
d’autunno — a bere una tazza di tè, davanti al fuoco, nella penombra di
una sala ove bruciava, più della fiamma, il profumo dei fiori. «Povera
casa! — pensavo; — la rivedrò fra qualche giorno, vuota, e forse non vi
potrò più vivere per la memoria di quella sera d’autunno, di quel fuoco
e di quei fiori....»
A un certo momento ella mi venne presso, per cercar qualcosa, lì, sul
letto, fra le biancherie.
M’interruppe ne’ miei pensieri e l’immagine viva si sovrappose a quella
del mio sogno; la tentazione fu più forte che la volontà; rapidamente
l’afferrai per i due polsi, attirandola fra le mie braccia. Ella strinse
le labbra e cercò di sfuggirmi con una mossa repentina.
— Perchè mi respingi? — le dissi. — Non vedi come soffro?
Ella chinò il mento sul petto, chiuse gli occhi, divenne assai più
pallida e non rispose. Mi restò vicino, abbandonandomi i polsi ed
appoggiandosi appena contro le mie ginocchia.
— Tutto questo non fa male anche a te? — le domandai, piano,
attirandola.
Ella scosse il capo, con un rassegnato cenno d’inutilità.
— Credo, — soggiunsi, — che non potrò mai partire.
Restò ferma, come se non udisse, come se non volesse udire. Ma le venne
su le labbra quel suo particolare tremito, ch’era come il principio
d’una parola non detta. Mi piaceva ripeterle ogni cosa più triste, per
aumentare la sua tristezza e la mia.
— Se partirò, — le dissi, — tu mi dimenticherai sùbito. Il tuo teatro,
gli applausi, gli ammiratori, ti faranno scordare. Non sarò più ad
attenderti nel tuo camerino; dopo il teatro non andremo più a cena
insieme, non dormiremo più vicini.... Tutto questo è finito, finito... e
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