L'amore che torna: romanzo - 13

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contro i quali è meglio non tentare la sorte... Guardatemi sempre con la
coda dell’occhio, ed al caso vi farò un piccolo segno. Ma, vi prego:
silenzio.
— Va bene, — risposi, — e grazie. — D’altronde me l’ero immaginato, e
ricordavo, passeggiando per queste sale, quel vostro famoso apologo su
le pecore e sui leoni...
Egli si mise a ridere di un buon riso contento, e stropicciandosi le
mani soggiunse:
— Ricordatevi sempre quello che vi dico io. Mi piacerebbe fare di voi un
gran leone!
— Perchè? — esclamai, arrossendo a mio malgrado.
— Perchè forse, come pecora, non valete più nulla!
E se ne andò, continuando a ridere allegramente. Fui certo allora che
questo avventuriero cauto e simpatico doveva necessariamente aver nel
pugno le redini del comando in quella casa gioconda e piena d’agguati.
— Voi non giocate, conte? — mi domandò la signora di Clairval,
avvicinandosi, mentr’io stavo discorrendo con alcuni uomini.
— Qualche volta gioco; ma più per sbadataggine che per vizio.
— Allora tenetemi un poco di compagnia, se non siete un arrabbiato come
gli altri. Vedete? Mi lasciano sola.
Ci andammo a sedere in un angolo, vicini.
— Oh, finalmente mi riposo! — ella esclamò. — Quanta gente!
Si sdraiò con indolenza nella poltrona, accese una sigaretta e trasse un
grande sospiro.
— Il d’Hermòs mi ha tanto parlato di voi, — disse.
— Certo il d’Hermòs mi avrà un poco diffamato! Egli mi trova un uomo
senza vizi, e questo, agli occhi di quel terribile uomo, sembra essere
il peccato maggiore.
— Ma sarà poi vero quello ch’egli dice? Il nostro Elia è sopra tutto un
grande imbastitore di frasi.
— Veramente con lui non ho protestato, ma con voi, con una signora che
certo è in grado di apprezzare tutta la delicata eleganza che può essere
nei vizi d’un uomo, non voglio subire una simile taccia d’insulsaggine.
— Poi vi assicuro che ogni vostra difesa mi parrebbe superflua! Siete un
italiano, e sopra tutto un romano, avvezzo a vivere in quella vostra
bella città piena di spasimi, fra quelle donne dai grandi occhi neri,
entro quei palazzi così profondi, un po’ tetri, che turbano
l’immaginazione di chi ne varca la soglia... Per questo solo non potete
essere un insensibile.
— Vedo che amate molto Roma.
— Sì, vi ho passato un inverno: è la sola città dove amerei vivere
lasciando Parigi.
— Ma temo che a lungo andare il cambio desterebbe qualche rimpianto nel
vostro cuore di Parigina.
— Certo rimpiangerei questi buoni amici, che sono in fondo la mia vita,
ora specialmente che ho passata l’età nella quale un viaggio in Italia,
un viaggio d’amore, s’intende, compensa di tutto ciò che si abbandona.
— Già, perchè voi siete ancora fra quelli che considerano la nostra
Italia come un giardino d’Armida, una specie di _buen retiro_
cosmopolita per tutti gli innamorati del globo, una terra d’Arcadia dove
non si faccia che amare o cantare...
— Non dite questo con ironia! È un gran vanto per il vostro paese!
— Ma è un grande pregiudizio in fondo. Io ricordo lo sdegno di molte
signorine, in Germania, quando confessavo candidamente di non saper
cantare e di non aver mai composto un verso in vita mia. Credetemi,
contessa, l’Italia d’oggi è un paese molto positivo, che lavora e suda
per far denaro, senza ricordarsi d’aver un cielo più azzurro che altrove
od i giardini più fioriti. E le nostre donne... bah!... le nostre donne
aspettano il figurino di Parigi, il romanzo di Parigi, lo scandalo di
Parigi... Oh, voi avete insegnato molto alle signore italiane!
Yvonne Tellier, sopravvenendo in quel momento, interruppe i nostri
discorsi così candidamente generici. Ella usciva dalle sale di giuoco,
facendo tintinnire nella borsetta una certa quantità d’oro guadagnato,
ed i suoi bellissimi occhi risplendevano.
— Oh, conte, perchè non giocate anche voi? C’è un banchiere che perde a
rotta di collo. Sapete: il grosso Aranda, un italiano come voi. Non c’è
che mettere il denaro sul tappeto.
— Io sono sfortunatissimo al giuoco: arrivo sempre troppo tardi. Ora
certo vincerà.
— Ma no! ma no! Ha una disdetta orribile questa sera!
La signora di Clairval intanto si era levata. L’altra mi sedette vicino.
— Ecco, giuocheremo insieme, se volete, — mi disse. — Io metto
venticinque luigi e venticinque li mettete voi. Mi sento in fortuna:
fidatevi. Non perderemo più di queste mille lire; volete?
— Con molto piacere.
— A proposito, sentite una cosa: io vi chiamerò Domini, Domini
semplicemente, perchè il resto non me lo posso rammentare.
— Ve ne dispenso.
— Domini, che in latino credo voglia dire «signore». Cosicchè sarete per
un momento «il mio signore...» E rise di un bel riso limpido.
— Magari lo fossi! — esclamai, curvandomi un poco su le sue spalle nude.
— Oh, credo che non ci teniate affatto!
— Questo poi... lo dite senza saperlo.
— Invece lo dico sapendolo, perchè voi avete di meglio.
— Ecco: volevo quasi farvi la corte; ora con questa frase, me lo
impedite, — risposi con galanteria, sorridendole.
— Ah, gli uomini! Credevo che in Italia fossero più serii.
— Oh, no affatto!
— Andiamo dunque a giuocare. Vinceremo un patrimonio questa sera!
— Sia pure! Intanto eccovi la mia parte.
— No, no, mettete via quel denaro; me lo darete se perderemo.
— Siete molto cortese ma non posso accettare.
— Sentite, io sono superstiziosa, e voglio giocare con questo denaro che
ho vinto. Porterà fortuna. Venite.
Andammo verso la tavola da giuoco, ed io facevo intanto qualche
riflessione amaramente piccina. Pensavo che si sarebbero certo perdute
quelle mille, forse molte altre migliaia di lire, senza ch’io potessi
esimermi dal dividere la sua sorte o dal confessare le mie strettezze.
Così, dalle più piccole cose alle più grandi, la mia decadenza mi
appariva manifesta, dandomi al cuore un senso di vergogna e di
commiserazione.
Guardavo e tacevo. Intorno al tavoliere stavano facce di uomini, torve o
ridenti, eran visi di donne, affannate per l’ansia della sorte o
soddisfatte per il suo favore. L’oro, e le carte, e la voce monotona del
banchiere che annunziava un punto, e quelle mani che tutte parevano
ghermitrici ed avare, mettendo o raccogliendo le poste, l’ansia di chi
giocava e la placida ironia degli spettatori, la luce delle lampade
basse, il fumo dei sigari, gli scoppi di risa repentini, le imprecazioni
frequenti, la pausa di silenzio che precedeva ogni colpo e quella specie
di rallentamento che ne seguiva l’annunzio, tutto questo insieme, per la
prima volta mi dava una sensazione acre d’immoralità e di bassezza, come
la visione di una grande crapula in cui fossero palesi tutti gl’istinti
più perversi della bestia umana.
Ora che il denaro non mi apparteneva più come un facile retaggio, ne
vedevo con altri occhi tutte le orride, le occulte vie di conquista e
ripensavo alle parole del d’Hermòs con una specie d’interiore brivido.
Intanto la sorte favoriva la mia bella compagna. Ella poneva le poste ad
ogni colpo, allungando sul tappeto la mano bianchissima, carica d’anelli
che la facevano splendere. Il d’Hermòs, che stava dall’altro lato e
giocava con noncuranza, aveva esclamato vedendoci:
— Oh, finalmente vi siete lasciato tentare anche voi!
— Non però dalle carte! — risposi, accennando alla piccola Yvonne.
— La donna e il giuoco vanno insieme come il diavolo e l’acqua santa —
egli disse per celia.
— E voi siete un insolente! — ella gli rimandò su lo stesso tono.
In piedi, presso di lei, stavo considerando la mia compagna. Smorta in
viso, di un pallor carico e torbido come il colore dell’ambra, due vasti
occhi le splendevano sotto la fronte piana, una fronte di statua greca,
dalle sopracciglia troppo lontane. Aveva un profilo dolcissimo, come i
cammei del Cinquecento, ma su la bocca fredda e arida un sorriso di
donna crudele. I capelli nerissimi le si partivano dal mezzo della
fronte, spartiti da una scriminatura fina, in due gonfie ali compatte,
lucide come due stole di lontra, che ondeggiavano intorno alle tempie
facendole su la nuca un nodo così voluminoso da parer soverchio per la
sua fragilità. Era veramente un gingillo da principe, una cosa tenue ma
temibile, una figura di malefizio. E forse dai capelli troppo neri, dal
seno troppo scollato, le usciva un profumo intenso, quasi un’evanescenza
della sua pelle, che sotto il velo della cipria sembrava soffusa di un
color d’oriente, come hanno talora le donne arabe a vent’anni. Le sue
braccia ignude, passando in un raggio di luce, riscintillavano d’una
invisibile vellatatura bionda.
Ella doveva possedere il secreto di qualche lussuria strana.
Sovente si volgeva, con una mossa rapida, per domandarmi consiglio
intorno al giuoco, ed i suoi occhi parevano compiacersi di quella
suggestione torbida che si accorgevano di suscitare in me. Ora, spesso,
e come per inavvertenza, mi posava le mani su le ginocchia, e nel
piegarsi, o nel volgersi, tutta la sua persona carezzava leggermente la
mia. M’accostai ancor più; le stetti con la faccia così vicino che le
mie labbra quasi toccavano il suo orecchio minuscolo, il quale pareva
spuntare dalla foltezza dei capelli come il delicato bòcciolo di un
fiore.
A un certo punto ella raccolse quasi tutto il denaro che aveva dinanzi e
me lo diede.
— Mettete questo a parte, — mi disse. — Bisogna essere prudenti. È il
guadagno. Ed ora cominciamo da capo con le mille lire che mi rimangono.
Se si perde, poco male.
— Avete fiducia nella mia scrupolosità? — domandai scherzando, mentre
intascavo la somma.
— Niente affatto! — rispose ridendo. — Anzi datemi per garanzia una
vostra mano; così non potrete rubare.
— Ma ho sempre l’altra... — feci, stringendo la sua piccola mano. Ella
intrecciò le dita nervosamente nelle mie, mentre, con l’altro gomito
puntato su la tavola, tendeva il collo innanzi per attendere l’esito di
un raddoppio audace. Fu perduto: ella fece un piccolo gesto d’ira.
Giuocò di nuovo e perdette; allora si rovesciò all’indietro, sopra la
spalliera della seggiola ed un po’ contro la mia spalla. Su l’abito mi
restò il segno bianco della cipria che aveva su la scollatura.
Una signora molto dipinta, che le sedeva presso, tutta ricciuta di
capelli rimessi, con le labbra sovraccariche di rossetto, e che ogni
tanto ci guardava sorridendo, le disse, con una smorfia di malcontento
che fece tremolare la sua faccia pingue:
— Ora il banchiere si mette ad aver fortuna; non giocate più.
Ella scosse le spalle senza risponderle: giocò un’altra volta e
perdette. Allora chinandosi un poco, mi confidò sottovoce:
— Questa vecchia è una terribile iettatrice!
Io risi; ella pure. Le rimanevano davanti alcune centinaia di lire. Mi
propose:
— Ora gioco tutto e lascio tre volte, se non si perde prima. Poi ce ne
andremo in ogni modo; volete?
— Benissimo, fate così.
Con un gesto largo ella spinse innanzi tutto il denaro. L’uomo che
teneva il banco si volse a guardarla con un sorriso irritante nel volto
che splendeva di obesità, e le disse:
— Adagio, bella Yvonne! Volete proprio colarmi a fondo questa sera?
— Impossibile! — ella rispose con insolenza. — Siete talmente grasso che
tornerete sempre a galla!
L’uomo trovò la celia di suo garbo e ne rise insieme con altri.
— Stiamo a vedere, — ella mi disse piano, mentre il banchiere
distribuiva le carte.
Congiunse le mani e sopra vi tenne il mento. Poi trasse un respiro, mi
fece un piccolo cenno: il colpo era vinto.
— Non ritirate, piccola Yvonne? — le domandò il banchiere, pagando la
sua posta.
— No, amico mio, non ritiro. Anzi lascerò due colpi ancora.
Ed a me, sottovoce:
— Aranda non ama che le donne vincano il suo denaro.
Le carte furono distribuite una seconda volta ed ella si rannicchiò in
sè medesima, come per farsi più piccina.
Colui che aveva la mano guardò Yvonne con un sorriso ed annunziò forte:
— -Nove!
— Bravo! — gli rispose Yvonne, battendo i palmi.
— E due, — contò il banchiere, raddoppiando la somma. Ella guardò il
mucchio con incertezza, puntandosi l’indice inanellato contro il labbro
sottile.
— Avrei quasi la tentazione di ritirare... — mi disse.
— No, lasciate, — le consigliai. — Non bisogna mai recedere dalla prima
decisione. Poi sento che vinceremo.
— Credete?
— Lo credo.
L’uomo che si chiamava Aranda ammiccava con un sorriso un po’ ebete
verso la posta d’Yvonne, distribuendo le carte. Ella sorse in piedi,
sporgendo il busto sul tavoliere, con le mani appoggiate sul panno
verde, le braccia tese.
— Ancora nove... — disse lentamente quegli che aveva la mano, aprendo le
carte.
— Alla buon’ora! E tre! — esclamò Yvonne con allegrezza.
— Non è possibile vincervi un colpo questa sera! — le disse il banchiere
con una smorfia sorridente.
— E per questo me ne vado, — ella rispose, raccogliendo la vincita. —
Bisogna fermarsi a tempo. — Ed a me:
— Venite.
Mi condusse in una piccola sala piena di ninnoli, di fiori, di
cristallerie; si pose tutto il denaro in grembo ed esclamò lietamente:
— Vi ho pur detto che avremmo vinto! Lo sentivo. Ora facciamo i conti.
— Giocate meravigliosamente, non c’è che dire.
— Ma ora brucio di sete. Vi prego, andate a prendermi un bicchiere di
«Champagne».
Quando tornai, stava ritta davanti ad uno specchio per accomodarsi i
capelli. Prese la coppa e bevve d’un fiato; poi si portò una mano al
petto, esclamando:
— Che sete! — La bocca umida le scintillava di piccole gocce, come un
frutto rorido, e mi dette la tentazione di baciarla. Mi curvai un poco,
senza osare, ma ella sentì quel bacio non dato e se ne schermì ridendo.
— Venite: facciamo i conti.
Tornò a sedere; le deposi nel grembo la somma che tenevo in serbo,
dicendole:
— I conti sono già fatti; ponete questo denaro nella vostra borsetta; a
me non spetta e non voglio assolutamente nulla.
— Mio buon amico, spero che lo diciate per ridere!
— Ma neanche per sogno! Voi avete giuocato, voi avete vinto...
— Ah, no, e poi no! — fece, profondamente offesa. — Mi considerate
dunque per una di quelle donne con le quali un uomo perde sempre
qualcosa?
— Per carità, non dite questo! — esclamai, stringendole un polso. — Ma
davvero mi sembrerebbe indiscreto accettare. Facciamo così piuttosto:
con la parte che voi credete mi spetti comprerete domani un gingillo
qualsiasi, tenendolo come se ve lo avessi regalato io... Va bene?
— Assolutamente no! Abbiamo giuocato insieme, come fra uomini; se si
avesse perduto, voi avreste pagata la vostra parte; abbiamo vinto e, se
non volete offendermi, vi prego di non insistere più.
— Tutto, piuttosto che offendervi! Solo permettete che vi preghi
ancora...
— Non più, non più! Contiamo.
La sua fiera delicatezza non impedì ch’io provassi un certo rossore
nell’accettare quella somma, la quale ammontava, per mia parte, a quasi
tremila lire. Pensai che il domani avrei tutto reso inviandole un dono.
— Allora, — la pregai, — permettete che vi domandi anche il vostro
indirizzo, per mandarvi almeno un fiore.
— Fiori sì, ma non altro; — ella minacciò, sdraiandosi nella poltrona e
sollevando pigramente le braccia dietro il capo. Aveva le maniche
trasparenti, corte fin sopra il gomito; vedevo le sue braccia modellate
con una finezza squisita, e la conca delle ascelle appena segnata da
un’ombra scura.
— Voi siete molto severa!... — le dissi, protendendomi un poco.
— No, ma voglio serbarmi il piacere di giocare altre volte con voi, se
c’incontreremo, senza il bisogno di ringraziarvi, od il timore d’essere
considerata per meno di quello ch’io stessa mi consideri... Non credete
che una donna possa avere qualche volta un simile desiderio?
— Certo lo credo, e se voi lo avete per me, ne sono lusingatissimo.
— Dunque, siamo intesi: null’altro che un fiore.
— Come volete. Però, concedetemi di portarvelo io stesso.
— Ah?... perchè? — fece con uno sguardo pieno di femminilità insidiosa e
reticente.
— È una domanda oziosa, vi pare? O almeno, con essa, mi mettete nella
impossibilità di rispondervi come vorrei.
— Datemi una sigaretta... via! — disse, facendo con la mano un gesto
frivolo.
E rise. I suoi occhi perversi mi guardavano, grandi e fermi. Aveva in sè
una forza irresistibile di seduzione, pareva un fiore bello e velenoso.
Mentre le accendevo la sigaretta, le feci scorrere una mano sul braccio,
irrequietamente.
— Cos’avete su la pelle? — domandai; — è di una morbidezza
incredibile!...
— Vi pare?... — E ritrasse il braccio quasi con un gesto pudico, ma
ridendo di un riso che non lo era.
— Credo vi piaccia tormentare, piccola Yvonne!...
— Perchè?...
— Non saprei dirvi... È la mia opinione.
— Sedete lì... — E mi segnava una poltrona più discosta.
Per un momento si stette in silenzio, guardandoci entrambi, io turbato,
ella curiosa. Poi le dissi:
— Allora, questo indirizzo?
— Oh, me ne dimenticavo... 110, Boulevard Malesherbes. Dopo le quattro.
Ma non domani: dopodomani.
E tutte le cose lucide, nella piccola sala, brillavano come i suoi
grandi occhi neri.


IV

Avevo solamente voluto stordirmi. Appena uscito nella strada un grande
disamore mi strinse, di quella casa, di quella donna, di me stesso.
Lungo e sordo mi ronzava nelle orecchie un rumore non ben comprensibile,
forse l’eco delle parole che avevo dette, udite; mi serpeggiava nelle
vene indolenti una specie di malsana ebbrietà.
Rincasai verso le quattro del mattino; un lume acceso dietro una
finestra mi avvertì ch’Elena vegliava tuttora. Quando entrai, ella
sedeva infatti nella sala da pranzo, con un libro aperto su le
ginocchia, le mani sovr’esso congiunte.
— Dove sei stato finora? — mi domandò con un suono di voce opaco e
lento.
— In casa della contessa di Clairval, con Elia.
— Ah!... Si riceve sino a quest’ora in quella casa?
— Si giuoca. Ma tu, perchè non ti sei coricata?
— Non avevo sonno. Ho atteso che ti risolvessi a tornare.
— Ed ora che son tornato?
— Nulla; va bene.
— Ti coricherai ora?
— Forse.
— Non hai altro da dirmi?
— Cosa ti potrei dire?
— Buona notte, allora.
— Buona notte.
Me ne andai nella mia camera, indispettito per quelle sue risposte
brevi, per l’impassibilità del suo viso. Mi gettai sul letto vestito e
mi posi a meditare. La mia vita non era gaia. La donna che amavo, e
nella quale avevo riposta una fiducia così grande, si allontanava da me
irrimediabilmente; gli amici, la tranquillità, la ricchezza, tutto era
perduto. Il pensiero corse, corse via sbrigliatamente, e fece un epilogo
sommario di tutto quanto il passato. Pensando, il sonno mi gravò su le
palpebre e nel dormiveglia ebbi una visione confusa. Mi vidi in Roma,
nel mio palazzo ripristinato con il denaro dei Laurenzano, ancor padrone
di cocchi stemmati, e, fra le belle adunanze dei principi romani,
un’altra volta re dei conviti, signore delle alcove, maestro di tutte le
eleganze... Fu, nel dormiveglia, un sogno; null’altro che un sogno.
Sparve; mi destai con la testa greve, le membra indolenzite. Scesi dal
letto, e sospingendo l’uscio vidi Elena che stava sempre nella medesima
positura, con gli occhi fissi all’alto, fumando.
— Che fai? — le dissi. Elena si turbò ed ebbe un tremito per tutta la
persona, come se avesse anch’ella sognato.
— Hai dunque deciso di non dormire questa notte?
Non mi rispose, ma vidi che gli occhi le si empivano di lacrime. Le
andai vicino e mi sedetti.
— Che hai? — le dissi ancora, con un accento più amorevole.
Ella mi tese una mano, piegando la faccia sul petto.
— Perdonami... — bisbigliò.
— Nulla devo perdonarti, Elena. Mi hai fatto male; ma non importa;
passerà.
— Non fu per ingannarti, non fu nemmeno per vergogna...
— E perchè allora? — Due lunghe lacrime le rigarono la faccia.
— La mia natura è così, — disse. — Non sono mai stata sincera, con
nessuno. Vi sono certe anime che provano una riluttanza invincibile a
farsi conoscere, come altre ne sentono invece il bisogno.
— Sì, va bene... tu mi hai già ripetute molte volte queste bellissime
cose!... Ma un uomo che ama davvero non può ragionare a questo modo.
— Mi vuoi bene ancora? — ella fece, afferrandomi le due mani, un po’
ansante.
— Non so.
— Rispondimi!
— Vorrei non volertene più. Tu non comprendi nemmeno la dolcezza della
confidenza, il più soave abbandono che vi sia nell’amore. Quale fiducia
posso avere in te?
— Senti, Germano; quando io t’ho conosciuto, c’era nella mia vita ormai
tutto un passato di avvenimenti, che ad ogni modo non si possono mutare.
Ma tu per il primo e per il solo mi hai avuta come un’amante vera...
Cosa t’importa il resto? Poi, credi forse che io stessa, per un solo
momento, abbia riposto qualche fiducia in te?
— Che vuoi dire con questo, Elena?
— La stessa domanda che tu mi fai, la stessa ti faccio. Non sono che la
tua amante, e come tale, cosa puoi rimproverarmi? Forse mi hai voluto
anche bene, ma come puoi amarmi tu, che sei stato sempre un uomo felice.
Io ti conosco troppo, Germano; il tuo non è che l’amore degli uomini
avventurosi ed eleganti, l’amore che consiste nel veder piangere. Tu non
hai desiderato altro che di vedere me innamorata... Ed è vero, lo fui,
lo sono ancora lo sarò sempre. Ora dimmi: ti ho mai domandato qualcosa
io? Ti ho mai domandato, per esempio, cosa farai del nostro amore quando
non avrai più denaro, nè alcun mezzo per trovarne? Io sono preparata a
tutto, appunto perchè non ho fiducia nel tuo amore, e perchè mi piaci
così come sei.
Ed ecco, ella tornava ad essere la donna perpetuamente oscura, non
afferrabile da nessun potere, in continua discordia con sè stessa, o
forse padrona della sua volontà in un modo stupefacente.
— Elena, — le dissi, — tu trovi un modo molto abile per ritorcere contro
di me le mie stesse parole, ma il rimedio pur troppo non serve. Mi
chiudi in faccia la porta del tuo passato con una ostinatezza irritante
e non comprendi come la gelosia del passato sia quella che un amante non
perdona mai.
— Ebbene, senti: se fino dal primo giorno tu non mi avessi tanto
affaticata con questa indagine qualche volta umiliante per me, forse
t’avrei raccontato spontaneamente ogni cosa, perchè nessuna ragione in
fondo — e lo sai bene! — m’induce a fartene un mistero. Ma ti ho
nascosta una parte della verità quasi per vendicarmi della tua crudele
insistenza, ed anche perchè il mio passato era la sola cosa che potessi
non abbandonarti.
— E come non hai pensato che un giorno l’avrei potuto scoprire?
— Sì, forse l’ho pensato; ma questo mi era indifferente. Nè ora mi
conoscerai meglio. Potrai forse immaginare che t’abbia mentito in ogni
cosa e che mi proponga di mentirti ancora, quindi non val la pena di
parlarne: dimentica e perdonami, se puoi.
— Perdonare è facile, dimenticare lo è meno. Vi sono troppe figure che
mi si affollano alla mente quando penso a te: la tua bocca, ora, sa di
troppi baci.
— Questo, Germano, è ingiusto! Devi per lo meno aver compreso che i
primi baci veri li ho dati a te.
Si alzò, mi venne a sedere su le ginocchia, mi nascose la faccia contro
una spalla, si mise a piangere. Le sue lacrime erano la sola cosa al
mondo che non potessi vedere senza commuovermi.
— Ora non mi vuoi più bene... — mormorava pianamente, sorridendo fra i
singhiozzi.
— Taci, taci.... Almeno fosse così!
— Lo desideri proprio? — mi domandò, stringendomi le tempie fra le sue
mani calde, mentre le nostre bocche si congiunsero.
— No, — risposi — questo no!
Ella sorrise fra le lacrime, in una pausa di silenzio.
— Dove sei stato questa sera?
— Te l’ho detto.
— È vero?
— Sì.
— Hai voluto essere veramente un uomo senza cuore. Mi hai lasciata sola.
Ho tanto sofferto io, tu nulla. E t’aspettavo, e non giungevi mai!
— Dimmi, — la interruppi subitamente: — perchè sei stata l’amante di
quell’uomo? Ti piaceva?
— Non parliamone più, sii buono...
— Ti piaceva? Rispondimi! — feci, un po’ ruvidamente.
— M’era indifferentissimo. Lui, come un altro qualsiasi...
— E allora?
— Allora, lo sai, volevo essere attrice, cominciare una vita libera,
pensavo che un giorno o l’altro sarebbe accaduto lo stesso... Quindi,
poco m’importava. Ma chi te lo ha detto? Lui stesso? Certo, certo, non
può essere stato che lui.
— No.
— Guardami in faccia!
— Ebbene, sì, è stato lui. Lo sono andato a cercare apposta per sapere
la verità. Sai come ho fatto?...
E presi a raccontar l’accaduto. Ella con i denti si prese il labbro
inferiore e rimase ad ascoltarmi, tenendo gli occhi fissi ne’ miei,
tranquilla, immobile. Dopo averle tutto narrato, soggiunsi:
— Una sola frase mi ha fatto veramente male. Quando gli domandai, quasi
per ischerzo: «Ebbene ditemi, che donna è come amante?» egli davvero ti
ha dipinta con una frase incisiva.
— Ah?
— Sì, mi ha detto: «Una ungherese, caro conte; crudele e triste, lasciva
ed ingenua... Quel sangue magiaro insomma, pieno di contraddizioni e
d’ardori!»
Ella si mise a ridere, d’un riso nervoso, alzando le spalle.
— Oh, questo poi!... — esclamò con disprezzo; — è una vigliaccheria
maggiore delle altre. No, ti giuro, quel tuo amico ha una grande
fantasia!... oppure una grande presunzione!... Io l’ho semplicemente
subìto, credendo fosse necessario, e nulla più. Ma gli uomini, questo,
non lo confessano mai.
— Come posso crederti, Elena? Tanto più che la sua definizione... è così
vera!
— Sì, è proprio vera?... Ebbene, ti ripeto, avrà forse una grande
fantasia!
E ridendo mi dette un lungo bacio.
— Poi, senti, — prosegui; — ho ancora, se non isbaglio, alcune lettere
sue, nelle quali appunto mi rimprovera la mia grande insensibilità.
— Non le hai bruciate quelle? — chiesi con ironia.
— Perchè me lo domandi?
— So che ne hai bruciate molte altre...
— Forse; ma non tutte. Ho ancora quelle di Mathias, alcune di mio
marito, e ce ne devono essere anche altre.
— Vuoi che andiamo a vedere?
— Sì, — ella fece con un poco d’esitazione.
Andammo nella sua camera; da un baule chiuso ella trasse una scatola di
pelle a rilievi, ch’era piena di lettere e di fotografie.
— Non toccare tu... non voglio! mi disse.
Cercò fra le lettere, ne scorse alcune rapidamente. Ve n’era un
pacchetto ingiallito, stretto da una cordicella sfilacciata.
— Di chi sono queste?
— Di Miller, — rispose, corrugando la fronte. Lasciale stare.
— E queste?
— Di Mathias; ma non leggere, ti prego. Ecco leggi questa; l’ho trovata!
Era straordinariamente pallida, tremava un poco. Rinchiuse in fretta la
scatola e mi trasse per un braccio.
— Perchè sei così agitata?
— Vieni via, vieni via. Mi fa sempre male ripensare a quei due morti. —
E si strinse al mio braccio quasi con paura.
— Torniamo di là, — disse.
La lettera infatti confermava le sue parole.
— Mi credi ora, Germano? — ella chiese, offrendomi la bocca.
Io mi strinsi nelle spalle irresoluto e non volli rispondere; ma sentivo
come per incanto la gelosia placarsi, finire.
Dietro le imposte chiuse nasceva l’alba, il fumo azzurro di una bella
giornata; i carri degli erbivendoli, passando, empivano di strepito la
contrada. Impallidita per la veglia, con gli occhi cerchiati di nero, i
capelli un po’ disfatti, ella mi stava presso, innamorata e bella,
portando su le labbra umide la promessa di un torbido amore. Sentii che
nonostante ogni tortura il mio mondo incominciava e finiva con lei.
— Mi credi ora? — domandò un’altra volta, quando già le mie braccia la
serravano.
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