L'amore che torna: romanzo - 06

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tutta quella casa, ed in particolar modo la signora Gräfe, non gli
piacevano affatto. Ma Elena ormai non viveva più che per la sua nuova
speranza.
Quel Duvally era un uomo giocondo, garbato, salace, ricco di aneddoti;
la corteggiava in modo amabile, con quella galanteria francese che piace
alla donna, poichè la lusinga nella sua femminilità. Era inoltre un
bell’uomo, con la bocca fresca, il labbro raso, i denti minuti e
bianchissimi.
— Sapete, — le aveva detto un giorno, parlandole dell’Hohenfels, —
questo Gambrinus è buono per cominciare. Ma poi ci vuole di meglio!
D’altronde che bisogno avete di lui? Quando vi sarete risolta, basterà
scrivermi una parola.
E con lui non era possibile offendersi, perchè aveva sempre una trovata
spiritosa, una celia bizzarra, e pareva non ammettere alcun valore a
coteste sue frasi. Egli diceva inoltre:
— Avete anche un pittore che vi fa il ritratto? Nulla di più opportuno.
Bisognerà farvelo dare, perchè un bel quadro non è l’ultimo argomento di
buon successo per un’attrice bella. Solo, mi raccomando, non troppo
vestito, per Parigi... I pittori, qui, amano la stoffa; noi amiamo il
nudo. Contraddizioni di razza, diversità di scuola: ecco tutto!
E partì su questa mezza intesa, mentre l’Hohenfels per proprio conto
credeva prossimo il trionfo della sua laboriosa pazienza.
Fu la signora Gräfe ad annunziarle una sera, di punto in bianco, che
l’Hohenfels le aveva dato incarico di condurla da una buona sarta,
perch’ella si comandasse in tempo tutti gli abiti che occorrevano prima
della imminente loro partenza.
Elena fece le sue maggiori maraviglie.
— Capirai, — le spiegò la Gräfe, — dovendo vivere a Parigi con un
signore come l’Hohenfels, i tuoi abiti non sono abbastanza eleganti.
— Dovendo vivere?... con chi? — Elena interruppe, dando in uno scoppio
di riso. — No, no! Ringraziatelo pure, ma ditegli che alla sarta
provvedo io stessa! Credo, in verità, che ci siamo intesi male...
Questa volta la signora Gräfe perdette la pazienza.
— Ma senti, bambina mia, — le disse, — che intenzioni hai finalmente?
Perchè qui si tratta di venirne in chiaro!
E nel suo gergo fiorito prese a magnificarle tutte le delicate cortesie
dell’Hohenfels, i sacrifizi, anche di denaro, ch’egli faceva per lei,
non volendo che «la si andasse a rovinar la salute nelle stamberghe
umide, tra i filosofi ed i cenciaiuoli dei quarti piani».
— Te ne faccio la confidenza, ma non lo dire a lui, per l’amore di
Dio!... per l’amore di Dio! — le andava ripetendo ad ogni tratto.
Allora Elena ebbe uno scatto di vergogna e d’ira, dolendosi per quel
denaro che non poteva sùbito rendere all’obliquo insidiatore.
La mattina seguente lasciava quella casa, prima che l’Hohenfels avesse
il tempo di rivederla. Qualche giorno dopo, recandosi a visitare
Mathias, egli, che ormai le parlava con un triste riserbo, le porse una
lettera dicendo: — È venuto ieri da me un domestico e mi ha lasciata
questa lettera per voi. Diceva di non conoscere il vostro nuovo
indirizzo, ed anzi me lo domandò. Io credetti bene di rispondere che non
lo sapevo.
E si rivolse alla sua tela, in silenzio.
Povero Mathias!... Com’egli la guardò, quand’ella gli ebbe raccontata
quella storia! Perchè non avergliene parlato prima? Egli vedeva il male,
ma non osava darle consigli, poichè gli sembrava ch’ella non volesse più
considerarsi come una vera sorella per lui. E sùbito le offerse il
denaro da rendere a quell’uomo.
— Grazie, Mathias, ma non voglio. Egli è ricco, voi no.
— Che importa, visto che ve lo posso dare?
— Ve ne ringrazio di tutto cuore, ma non voglio. Lo renderò io stessa
quando potrò. D’altronde il piacere che egli ebbe nel desiderarmi vale
assai più di quanto ha speso.
Mathias non potè trattenersi dall’osservarle che questa frase non era
degna di lei.
— Che volete mai? Fra queste indegnità s’impara finalmente cosa la
nostra bellezza vale!
Il quadro intanto appariva ogni giorno più maraviglioso, ed il pittore
si dimenticava davanti alla sua tela. Una volta Elena gli domandò:
— Quando sarà finito il mio quadro?
— Mai, — rispose Mathias, con tristezza. — Questi quadri non si
finiscono mai. Ogni giorno viene un pensiero nuovo, perchè ad essi manca
sempre qualcosa.
— E cosa?
— Non so, — egli disse, turbandosi; — la vita, forse, per essere come
voi.
Elena chinò la faccia.
— Non lo esporrete, Mathias?
— No. Il quadro mi appartiene. Vi ho dipinta per avervi con me quando
andrete via.
— Credete ch’io partirò di nuovo?
— Lo credo; sì, lo credo. Anzi m’immagino che vi pensiate ogni giorno.
Voi avete il destino degli erranti e non potete far altro che passare.
— È così, Mathias. Forse andrò via di fatti...
Aveva pochissime lezioni a quel tempo. Era il finir dell’estate; molte
allieve indugiavano ancora nei luoghi di cura e di campagna. Faceva un
calore insopportabile nelle vie di Berlino ed Elena si annoiava
mortalmente.
Un giorno, con una risoluzione subitanea, scrisse al Duvally. Scrisse
una lettera evasiva, raccontandogli ad un dipresso com’erano andate le
cose con l’Hohenfels. Questi non tardò a rispondere, dicendo fra l’altro
che, tempo addietro, egli pure le aveva scritto, ma senza ottener
risposta. Ed Elena comprese che la lettera doveva essere caduta nelle
mani dell’Hohenfels per mezzo della signora Gräfe. Il Duvally la
incitava inoltre a perseverare ne’ suoi propositi, e soggiungeva che
presto avrebbe avuta occasione di recarsi a Francoforte. Perchè dunque
non si vedrebbero? S’ella consentisse, avrebbe allungato il viaggio fino
a Berlino per venirla a prendere, poi sarebbero tornati a Parigi
insieme. — Ora, come rispondergli?
Certo nelle parole della ineffabile signora Gräfe c’era qualcosa di
estremamente logico, di estremamente vero... Perchè sprecare la vita
così? Era giovine, bella, desiderosa di vivere, l’avvenire poteva
serbare per lei molte fortune imprevedibili. Tutta una sera ella rimase
nella sua camera a sognare. Si guardò le mani: erano piccole, delicate,
bianche... Certo si sarebbero sciupate, fra qualche anno, a forza di
scribacchiar manoscritti e dover talvolta prepararsi la cucina da sè.
Peccato! Si guardò anche nello specchio, attentamente, come non si era
guardata mai. Sorrise a quel sorriso che dallo specchio la guardava. Si
sciolse i capelli, e vide scendere una pioggia d’oro, di quell’oro delle
medaglie antiche, trovate negli scavi, simile quasi al bronzo. Vi passò
dentro le mani, a lungo, indugiandovi con voluttà. Si scoverse la gola,
e rovesciando la testa all’indietro, le parve di sognare la bocca d’un
amante che l’avesse baciata, lì, su la sua turgida gola... Di fatti era
bella, bella come il quadro di Mathias! Le venne un pensiero fatuo, per
la prima volta: «Perchè nessun uomo l’avrebbe mai veduta così, nessuno,
tranne Mathias, ch’era per lei un fratello?» Ecco: la giovinezza passerà
vanamente nell’insegnare le parole straniere ai bimbi cocciuti, le sue
mani non saranno più così bianche, la sua bocca non più così fresca,
nemmeno la gola così limpida... e tutto finirà senz’avere avuta un’ora
di trionfo, come una rosa inutile che sfiorisse nell’eremo, dietro una
rupe.
E di contro, la scena, il teatro, l’applauso, l’ora in cui tutti si
leverebbero verso lei per gridarle ancora: «Parla!» Invece di pensare
ogni giorno faticosamente al pane, d’improvviso, ecco l’ammirazione, il
fasto, quasi la potenza; invece di andar nomade per tutte le strade,
come in fuga davanti a sè stessa, ecco la possibilità di ascendere per
una via trionfale...
Da ultimo non seppe che risolvere; scrisse al Duvally poche parole,
dicendogli che lo avrebbe riveduto con piacere.
Ma quando fu la vigilia della partenza, poichè il Duvally sarebbe
arrivato il domani o il doman l’altro, ella non potè più mantenere il
secreto verso Mathias, e risolse di narrargli finalmente ogni cosa.
Andavano, camminando a lato, verso le consuete solitudini. Era la prima
sera di Settembre. Per l’aria quasi bionda navigavano larghe strisce di
vapori turchini, d’una tenuità luminosa, che lentamente mutavano colore,
salendo nel bianco firmamento, lassù, dove la festa del novilunio
autunnale stava per essere celebrata con una magnificenza di stelle.
— Questa è l’ultima sera, Mathias... — ella disse lentamente,
appoggiandosi al braccio dell’amico. — Domani vado via.
Erano per un grande viale deserto e nelle oscure lontananze del parco si
udiva cantare una voce solitaria. Mathias non rispose nulla, non potè
rispondere; solo accelerò il passo con un’andatura insaccata. Poi d’un
tratto, senza ragione, dette in una grande risata convulsa, che risonò
sinistramente nell’ombra delle volte arboree. Ella n’ebbe un senso di
fastidio e di paura.
— Mathias, — domandò con una voce umile, — mi volete ancora bene?
Egli si fermò a fissarla, con uno sguardo fra il disprezzo e la
commiserazione, poi rise di nuovo, con maggiore asprezza, scotendo le
spalle.
Ora, nel verde, si udivano correre alcuni brividi prolungati, come un
respiro di foglie nel refrigerio della notte imminente. Passando sotto
un lampione Elena guardò il viso dell’amico e n’ebbe un’impressione
indicibile, ma non potè commuoversi; fu piuttosto un moto di collera
contro la debolezza di quell’uomo, che aveva per lei un sentimento così
umile, così tacito, così folle. Per lei Mathias era un delicato
inseguitore, anzi un tiranno mansueto, che invece di usarle violenza si
vestiva d’un’apparenza miserrima per commuovere la sua pietà. Allora non
ebbe compassione; provò quasi un piacere crudele nel raccontare a quel
triste innamorato i pensieri che da qualche tempo l’assediavano, le
decisioni estreme cui s’era man mano risolta, per giungere alla fine de’
suoi tormenti.
Prima ch’egli potesse interromperla, e volendo piuttosto convincere sè
stessa che l’ascoltatore, gli svolse le teorie speciose della signora
Gräfe, opponendosi tutte le contraddizioni e discutendole a priori, come
se facesse dinanzi al giudice una impeccabile arringa.
— Oh, Elena! — egli balbettò, contorcendosi le dita fino al dolore, —
Elena, io non credevo ancora che un simile momento potesse giungere per
noi!...
E si chiuse nel silenzio del suo dolore, ch’era il più rassegnato, il
più soave, tra i martirii delle anime innamorate.
Ma ne divenne ancor più malato; la tosse convulsa lo soffocò giorno e
notte; il suo petto parve interiormente schiantarsi per la furia del
male.
— Elena, — diceva sommessamente a lei che lo andava curando, — se
partirete con quell’uomo, sento che non mi alzerò più.
Ella non ebbe l’animo di abbandonarlo, ed ancora una volta il Duvally
dovette ripartir solo.
Ma quando egli fu lontano, ed ella pensò che avrebbe dovuta ricominciare
la sua lotta inutile, dall’alba fino alla sera, un senso inenarrabile
d’angoscia le strinse il cuore, come se avesse compiuta la rinunzia
maggiore al più bel sogno della sua vita.
E v’era in quella tristezza un piccolo rancore contro Mathias, che
l’aveva costretta, pur senza chiederlo, a ricadere sotto il giogo della
perpetua mediocrità.
Verso l’autunno le si offerse l’occasione di accompagnare la vedova
baronessa von Ritzner, che soffriva di un latente mal di cuore, in
lunghi viaggi di svago attraverso l’Europa. Era una signora di
quarant’anni, ricca e senza figli, già presso allo sfiorire di
un’avventurosissima vita, condotta nei circoli della Corte Imperiale. In
tutto gran dama, ed ancor ricercata per il suo brio, per la sua
raffinata eleganza, la baronessa von Ritzner non poteva trovare in Elena
miglior compagna, nè Elena in lei.
Il commiato da Berlino fu triste.
Mathias aveva il presentimento di non rivederla più, e quell’ultimo
giorno la sua povera faccia devastata dal male ispirò anche ad Elena
questo vago timore.
Mathias era venuto a salutarla nella sua camera, si era seduto curvo e
tacito in un angolo, sopra un baule chiuso, appoggiandosi col dosso al
muro. E pareva che di lì stesse immobilmente a guardare la visione della
propria morte. I suoi occhi non abbandonavano mai Elena, ma parevano
inseguire con una specie d’ansia ogni suo piccolo gesto, mentr’ella si
affaccendava intorno, raccogliendo i vari oggetti e riponendoli ad uno
ad uno, anch’ella tacendo, anch’ella impallidita, compiendo ciascun atto
con una lentezza grave, senza volgere gli occhi verso di lui. Mathias
guardava le singole cose ch’ella deponeva entro le valige, come si
guarda una persona estremamente cara che sparisce per sempre, e andava
curvandosi ancor più sul petto esausto, non potendo alle volte frenare
un lievissimo tremito, che gli appariva negli angoli delle labbra o nel
segno profondo che aveva in mezzo ai sopraccigli.
Egli le aveva portato un mazzo di fiori; Elena prese i fiori, li avvolse
con infinita cura e li posò vicino al suo mantello. Quando la camera fu
sguarnita, Mathias si levò, chiuse le borse, la cesta di vimini,
camminando dall’una all’altra con un passo affranto; poi le dette le
chiavi.
Un guanto di Elena, ch’era sul letto, cadde a terra; Mathias lo
raccolse, lo tenne a lungo fra le sue mani, lo guardò, vi fece scorrere
sopra le dita. Poi lo ripose sul letto e volse per la camera uno sguardo
quasi attonito, come volesse accogliere negli occhi e nell’anima tutto
quello che vi rimaneva di lei, per sempre.
Andò verso la finestra; esausto, inerte, si accasciò contro il
davanzale, guardando fuori, mentre la signora Bergmann, la padrona della
casa, faceva trasportare i bauli. Egli l’intese domandare ad Elena:
— Tornerà, signorina?
Senz’ascoltare la risposta, egli fece col capo un movimento brusco, e si
cacciò le mani entro i capelli.
Di fronte, nella casa di fronte, una ragazza cuciva i panni alla
finestra, e cantava. Un gran sole giocondo invadeva le contrade, le
verande, i tetti delle case, le chiese lontane, le foreste più lontane,
l’aria, il cielo, infinitamente... Allora si volse. Davanti allo
specchio, Elena ritta si appuntava il cappello: teneva uno spillone fra
i denti, un velo sul braccio e le due mani alzate dietro la nuca. Egli
fece qualche passo, barcollando, fin contro uno stipite, poi, con un
movimento macchinale, guardò l’ora. Forse non vide le sfere; ma intese
negli orecchi solamente un ronzìo, lungo, inscindibile, come un rombar
d’ali nel buio, un crescere d’acque nascoste, qualcosa che venga, poi
vada, poi torni, e sia come il nulla: un dolore. Gli occhi gli si
oscurarono per quella chiarità che avevano guardata, là fuori, a lungo;
rivide il sole, i tetti, le chiese, le foreste, il cielo, confusamente,
come in un barbaglio d’ombra e di luce; poi, quando potè discernere,
vide Elena, in piedi, che si annodava il velo. Osservò nello specchio il
dorso della sua mano bianchissima, ch’ella si passava su gli occhi
ripetutamente, come per tergersi una lacrima, e rimase lì, trasognato, a
guardarla, quasi non vedesse più lei, ma il fantasma di lei, partita.
Allora ella si volse, gli tese ambe le mani, e pronunziò il suo nome,
pianissimo, quasi con paura:
— Mathias...
Egli si battè la fronte, volle sorridere ma non potè, volle parlare ma
non ebbe voce: prese quelle due mani e se le portò congiunte sul cuore.
Le due mani fecero una croce, come sopra una cosa morta. E restò a lungo
in tal guisa, mentre un nodo gli saliva entro la gola, irresistibile.
— Addio, Elena... addio... — balbettò, premendosi quelle due mani sul
cuore, che martellava impetuosamente, producendo la strana impressione
di un organo troppo vitale in quel petto così fragile.
— Addio! addio!... Ricòrdati di me, Elena... Forse non ci rivedremo mai
più...
E rise e pianse, ed ella chinò la fronte, con la faccia solcata di
lacrime, sotto il lungo velo. Dopo un attimo di perplessità
s’abbracciarono, confondendo le anime fraterne, quella rosa che se
n’andava, tutta in fiore, e quel povero sterpo che rimaneva per
intisichire.
Veniva un gran sole da quel pomeriggio d’autunno, e lì, nella camera
sgombrata, i mobili di noce mandavano luccicori fermi; la coltre
disfatta era traversata in lungo da una striscia di sole, che sopra vi
poltriva come una pigra e scintillante nudità. Tutte le cose lucenti, la
specchiera, le maniglie delle porte, l’acqua in una brocca piena, e,
sovra tutto, come una fiamma oscura, la foltezza de’ suoi capelli
biondi, si accendevano di bagliori continui, quasi avessero dentro di sè
una viva gioia e volessero comunicarla, per offendere lui, quel buio,
doloroso innamorato.
Tacitamente allora egli si tolse un anello, adorno d’una pietra pallida,
che portava sempre in un dito della mano femminea, e lo passò in dito ad
Elena, prendendola per il polso, dove il colore delle sue vene minute
somigliava un poco alla trasparenza turchina di quella pietra.
Ella fece una mossa di rifiuto, e Mathias le chiuse la mano perchè non
si potesse togliere l’anello.
— Conservalo, ti prego; l’ho portato io per tanti anni, anche tu pórtalo
per tanti anni, sempre, se puoi....
E rise. Gli venne su dal petto una gran risata, simile ad un urlo
convulso. Le disse:
— Va... sii felice. Io non ti rivedrò più. Che la vita per te sia buona,
quanto è stata perfida con me....
Poi guardò in alto: gli occhi del giovine s’illuminarono; sorrise.
— Mi rimane ancora il mio quadro... — mormorò. E tremava.
Ella cercò di baciargli una mano, volle promettergli sommessamente:
— Ma tornerò presto, Mathias....
Egli ebbe un gesto come d’incredulità, poi rimase a fissarla, toccando
le piume del suo cappello, i pizzi che aveva intorno ai polsi, e disse,
con un’altra voce:
— Per me sarà sempre troppo tardi, anima mia....
E soggiunse:
— Promettimi solo una cosa....
— Parla Mathias.
— Se ti facessi chiamare... dovunque tu sia, promettimi che verrai.
Ella comprese; chinò la faccia sul petto, gli rispose con un alito:
— Sì....
Allora egli ebbe negli occhi un sorriso di morte, poi vide trascolorare
ogni cosa all’intorno, tutto si confuse: la stanza, la luce, quel viso
di donna ch’egli aveva dipinto, ch’egli aveva amato, per tanti anni,
senza nulla sperare, in silenzio... Ancora una volta la cercò
supremamente, con le labbra, con le mani, con l’anima... ebbe nella
faccia il suo respiro, le sue lacrime, udì la sua voce ancora, come in
un sogno, gridargli: — Addio! addio!... — poi non comprese più nulla,
non vide più nulla, non sentì che l’enorme rombo del vuoto, e in sè,
fuori di sè, la tenebra, la distruzione.
Quando si ridestò, la stanza era deserta, e di fronte, nella casa di
fronte, una ragazza cuciva i panni alla finestra e cantava.
————
La baronessa von Ritzner si era tosto presa di una caldissima simpatia
per Elena e la considerava come un’amica. Viaggiarono insieme da
Franzenbad a Ginevra, da Ginevra ad Aix les Bains, a Luchon, a Biarritz,
a Pau, finchè, al sopraggiungere dell’inverno, andarono ad abitare una
leggiadrissima villa su la Riviera di Cannes.
La baronessa le parlava spesso d’uomini e d’amanti, e non si dava
nessuna pena per nascondere ad Elena le proprie avventure. Solo era
gelosissima di lei; ne allontanava i corteggiatori con maggior severità
che una madre ed era molto curiosa di conoscere le sue trascorse
vicende.
Una volta le disse anzi, per celia:
— Bisognerà trovarvi un marito, Elena, perchè, la mia vigilanza non
basta più a difendervi dall’assalto!
Ed Elena rise. Un marito? Ecco una cosa cui non aveva pensato ancora
nella sua vita di zingara. E, meditandovi sopra, le tornava nella mente
il buon pastore Miller, co’ suoi capelli biondi e ben lisciati, con la
sua bocca un po’ femminea, che parlava così gravemente. Allora si
figurava la propria vita, s’ella fosse divenuta la moglie di quel
pastore luterano, e si vedeva in una linda casa tedesca, con indosso un
bel grembiule bianco, non sapendo come nascondere l’abbondanza eccessiva
de’ suoi capelli per parere più semplice; e si vedeva intenta nel
rammendare il bucato, nel badare alle cose della cucina, mentre, davanti
al fuoco, il pastore leggerebbe ad alta voce la Bibbia e due o tre
marmocchi evangelici ascolterebbero attoniti, senza comprendervi nulla.
Povero pastore Miller!... Egli era così dolce, ma questo pensiero la
faceva nondimeno ridere!
La baronessa aveva ora presa l’abitudine di tenerla sempre sotto
braccio, la trovava bella e glielo diceva, con una voce strana,
carezzandola.
S’era innamorata de’ suoi capelli; entrava la mattina nella sua camera
per guardarla quando si pettinava, e, standole presso, le faceva
scorrere le dita gioiosamente nella capigliatura, come un fino pettine;
poi ne formava un grosso nodo involuto, pieno di luccicori, e vi tuffava
dentro la gola ignuda, poi la bocca, poi l’intera faccia, con voluttà.
Elena tuttavia non sapeva rendersi conto di queste ambiguità e vi si
prestava a malincuore, fra stupita e lusingata, con un senso insieme di
curiosa paura.
Avevano le camere uscio ad uscio e la baronessa entrava la sera in
quella di Elena mentr’ella stava spogliandosi; con bizzarri pretesti
voleva ella stessa fare la sua treccia, legarle i nastri della camicia;
toccava con un specie di insidia i lini ch’ella andava smettendo, le
parlava di cose d’amore come il più delicato amante...
E allora, simulando capricci repentini, le baciava la gola scoperta, la
fronte, i capelli, narrandole con parole accese la sua tristezza di
rimaner sola, in quelle notti così lunghe...
Trascorsero in tal modo il mite inverno, e Febbraio venne, che, tra quel
sole, odorava di primavera.
Mathias le scriveva sovente, ma le sue lettere suscitavano in lei un
senso di grande malinconia. Erano parole sfiduciate, pensieri pieni di
una stanchezza estrema, riflessioni amare di un’anima che sente ogni
giorno impallidire il fuoco della vita.
A poco a poco le sue notizie diradarono; ella rimase varie settimane
senza ricevere alcun cenno, finchè, da una lettera della signora
Bergmann, seppe che Mathias versava in condizioni gravissime, e che, non
avendo alcuno per assisterlo, si era fatto ricoverare all’ospedale.
Pochi giorni dopo un telegramma di firma ignota la pregava d’accorrere
tosto a Berlino per salutare un’ultima volta il pittore morente.
Sentì nel cuore che lo avrebbe trovato spento, pure senza indugio si
mise in viaggio.
Povero Mathias! Povero triste amico! Le parve a tutta prima impossibile
di non rivederlo più, di non ascoltare più la sua voce un poco lenta e
pure così dolce. Per la prima volta, dopo la morte della madre, conobbe
un dolore profondo, e dietro il velo delle sue lacrime rivide come in un
lontano sogno quell’ultima scena del loro commiato, nella camera
disadorna, che il sole giocondamente incendiava. E rivide la pallida
sembianza, in un angolo, accasciata sopra un baule, con gli occhi
sperduti, che la inseguivano senza posa, come per esprimerle in un
disperato silenzio tutta l’angoscia che passava nell’anima del morituro.
Poi se lo figurò morto, immobile sopra una coltre, senza lacrime accanto
nè ghirlande, solo nel trapasso come in vita fu solo, con le labbra
suggellate nello sforzo di chiamarla per nome. Immaginò il dramma di
quell’ultima ora, quando il rantolo affannò la sua gola e negli occhi
evadenti fu adunata in perpetuo la visione finale del mondo, come un
baleno inconoscibile di sole, mentre l’anima varcava nell’assoluto
nulla, verso la pace inconsumabile di tutte le miserie umane. Allora le
parve che in quel punto egli avesse dovuto maledirla, e ne tremò. Volle
correre, correre, per salvarlo ancora...
Oh, quel viaggio lungo, per giornate senza sole e notti senza sonno,
avvolta in una ridda spaventosa d’ombre, come nell’incubo di una vigilia
funebre... Poi quell’arrivo, nella mattinata piovigginosa, con la
visione man mano più certa, più prossima del cadavere; la corsa per le
strade, la facciata impassibile dell’ospedale, il domandar concitato ai
medici, e la risposta breve, recisa... il passaggio per lunghi anditi
ove i malati gemevano confusi, e per ultimo, in una stanza paurosa, fra
il vacillar de’ cerei, un grande lenzuolo bianco sopra una forma
irrigidita, e lo scoprirsi di un volto che più nulla conservava di
umano, tranne l’orribile segno dell’agonìa.
Povero Mathias!... La sua tragedia era finita: in quel morto cuore ella
non palpitava più. E lo baciò su la fronte raggelata, e camminò dietro
il suo feretro quando lo portarono a riposare per sempre, a scomparire
per sempre, a distruggersi per sempre nella tacita solennità della
terra.
Le diedero una lettera, ch’egli aveva scritta per lei negli ultimi
giorni, quando fu conscio della sua fine. Era quasi un poema d’amore
dall’oltrevita, nelle ultime pagine diceva:
«Tu non puoi figurarti, Elena, la dolcezza che io proverò nel chiudere
gli occhi per sempre; poichè nella morte finiscono i desiderii assurdi,
finisce la necessità umana di credere, di pensare, di amare... Viene un
riposo per il quale non si è fatta la parola, e sembra che si godrà in
perpetuo quella gioia che nel mondo consiste in un solo attimo
incosciente: la gioia del dimenticare. Ma vorrei, se mi fosse lecito,
portare con me il quadro dove ti ho dipinta. Elena, per guardarti ancora
e sempre, anche dopo la vita. È la sola felicità che mi venne concessa,
e morendo mi rammento come in un sogno tutte le ore così dolci nelle
quali ti ho potuta guardare. La mia memoria umana comincia e finisce con
te...»
Elena chiuse gli occhi e non potè legger oltre. Ora il morto le stava
presso, a ripeterle con una voce lenta il suo triste poema d’amore.
In un’altra lettera Mathias le lasciava in eredità i suoi quadri ed il
suo piccolo avere, pregandola di vender ogni cosa, tranne il suo
ritratto, perchè potesse imprendere finalmente la via sognata e nulla
dovesse ad alcuno, fuorchè all’amico scomparso.
Per molti giorni ella rimase in balìa d’una sconsolatezza profonda, e
passò lunghe ore in lacrime su la tomba dov’egli dormiva. Solamente
allora si accorse di averlo veramente amato, come un fratello, più che
un fratello, ed il rimorso non le dette mai pace.
Da ultimo Elena fece donare i quadri ad un Museo, tornò ad abitare
presso la signora Bergmann, ed appese il gran ritratto che le aveva
dipinto Mathias alla parete della camera ove s’erano abbracciati per
l’ultima volta, rifiutando le somme vistose che i mercanti offrivano per
quella tela, mentre i giornali, encomiando la donatrice dell’altre
opere, parlavano assai dell’artista ch’era morto su l’inizio della
celebrità.
Verso quel tempo il Duvally venne a Berlino, e l’andò a trovare. Sempre
gaio, frivolo, sicuro di sè, diceva di non averla mai dimenticata un
momento, e gli pareva «di ritrovarla più bella ancora, più matura per i
trionfi della scena».
Raccontò ch’era in discordia con l’Hohenfels appunto per causa di lei;
tessè molti epigrammi, ne risero insieme.
Da Berlino egli doveva recarsi a Vienna, indi a Roma ed altrove, per
essere di ritorno a Parigi sul principio della nuova stagione teatrale.
Voleva, per quel tempo, che vi andasse ella pure.
— Non tardate oltre, — soggiunse, — perchè un mese di gioventù perduto è
più difficile a ricuperarsi che molti anni di vecchiaia.
E partì. Veniva l’estate. L’Hohenfels andò in campagna, dopo averla
invitata seco più volte; la baronessa von Ritzner era su le montagne
dell’Engadina, malata di cuore: le scriveva le sue sofferenze,
pregandola di tornare con lei. Allora Elena si comandò molti abiti,
rifece i bauli, coperse gelosamente il quadro di Mathias, lasciandolo in
custodia della signora Bergmann, e partì per l’Alta Engadina.
La baronessa era deperita molto; le crisi al cuore in pochi mesi
l’avevano sensibilmente invecchiata. Il riveder Elena le dette una
grande gioia, e parve che traverso il dolore nascesse nel suo sentimento
una purità quasi materna.
Fra gli amici della baronessa era un giovane ufficiale austriaco, Max
von Schillenheim, ch’era il più temerario alpinista ed il più famoso
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