L'amore che torna: romanzo - 19

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ricordi? È un pezzo che ci conosciamo....
Egli mi toccò la mano, senza stringere, come fanno per rispetto i
domestici, quando ci voglion bene.
Non appena egli fu dietro l’uscio, mi prese un movimento d’ira, feci una
pallottola del telegramma e la scagliai lontano. Mi parve d’essere come
un uomo serrato fra i muri d’un corridoio tenebroso, che avesse da capo
e da fondo le due porte murate. Avevo per nulla infranta la mia
felicità, ed ora, dovunque mi volgessi, non vedevo che l’irreparabile,
il vuoto. Ma il silenzio di Elena mi pesava su l’anima più dell’altra
sciagura, poichè in fondo v’era nel destino, al quale avevo creduto
sempre, una specie d’indizio che pareva ricondurmi verso lei. Questo
pensiero mi dette animo, e cullandomi nella speranza, mi sentii quasi
giocondo.
Rapidamente finii di vestirmi ed uscii per recarmi dal Capuano. Egli non
era uomo d’abitudini mattiniere; aveva preso il bagno da poco e mi
ricevette in accappatoio, con una faccia strabiliata.
— Toh!... sei qui? E senza farmi saper nulla? Ma quando sei arrivato?
— Iermattina, — gli risposi abbracciandolo. — Ma ero così affranto, così
esausto, che non ho voluto veder nessuno. E poi... e poi... ti
racconterò!
— Hai avuto il mio telegramma?
— Un’ora fa; me l’hanno rispedito.
— E cosa ne dici? — egli domandò, strofinandosi la testa umida.
— Cosa ne dico? Bah... nulla! Felici loro!
— Tanto meglio dunque! — egli fece, nervosamente.
— Di’ Fabio... era un pezzo che non ci vedevamo! Stai benissimo tu.
— Devi certo aver le traveggole, mio caro! Se mi fosse caduto un trave
addosso, non potrei star peggio! — egli esclamò con umor bisbetico. —
Questo matrimonio, se debbo dirti la verità, non riesco a farmelo
digerire!
— Ma perchè te ne impensierisci tanto? Che mai te ne importa?
— Guarda, guarda... mi fa lo gnorri adesso! Perdonami, sai, se ti ricevo
male, ma stamattina riceverei male anche la Divina Provvidenza. Sei giù
di cera, veh!... non mi piaci affatto.
— Eh, Fabio mio, non avevo di che stare allegro in questi ultimi tempi!
Se tu sapessi! Ma prima ti voglio ringraziare...
— Di che?
— Del denaro che mi hai mandato; sei sempre buono, troppo buono con me.
— Ma io non c’entro.
— Sì che c’entri, via, lo so bene. Non te l’ho scritto, perchè me ne
vergognavo, ma fra noi... grazie insomma!
— Eh, lasciamo andare... Che mai? una sciocchezza! Dimmi piuttosto: cosa
pensi fare?
— A proposito di che?
— Di Edoarda, per bacco! Sebbene ormai...
— Ormai è tardi, — mi lasciai sfuggire. E tosto riprendendomi,
soggiunsi: — Del resto non ci pensavo nemmeno. Che sia felice! È tutto
quello che io le auguro!
— L’ultime tue lettere mi avevano indotto a pensare ben altrimenti, —
egli mi disse, mentre con somma pigrizia egli terminava di vestirsi.
— Già... ma allora non erano accadute molte cose... Poi, che serve?
Neppure volendo, non sarebbe stato possibile. Dunque meglio così. — E,
dopo una pausa: — È a Roma, naturalmente...
— No, a Taormina da circa un mese. Son là tutti e due; si sono fidanzati
laggiù.
— Ah?... bene.
Egli, che stava infilandosi i calzoni, vi stese dentro una gamba con
tanta forza, che per poco non vi fece uno strappo.
— Ma sai che questo è un fatto mostruoso! — esclamò con ira.
— Perchè mostruoso?
— Ti par credibile ch’Edoarda sposi un De Luca?
— Perchè no? Se le piace?
— Macchè piacerle! Non è possibile, ti dico. Io la conosco; la conosci
bene anche tu.
— Cionondimeno lo sposa, dunque i ragionamenti cadono.
— Sì, lo sposa, lo sposa, ed io comprendo bene il perchè. Un’alzata
d’ingegno tutta sua! Sposa quello, perchè si è persuasa di doverne
sposar uno. Lo ha trovato lì, pronto, e se lo è preso.
— Tu esageri! Pietro De Luca può benissimo piacere.
— Sì, ad una donna vissuta, capricciosa, viziosa... lo ammetto. A
Edoarda no. Oppure io mi son fatto un cretino compiuto e il mondo gira
in senso inverso. Quella ragazza, vedi, è di un’onestà esagerata, ed io
comprendo benissimo perchè ha fatto questo. Sapendo che si era molto
parlato di lei, e che un uomo diverso dal De Luca forse avrebbe sempre
veduta qualche ombra intorno alla sua persona... sapendo insieme ch’ella
stessa non avrebbe mai potuto scordare del tutto, ha scelto lui, per il
quale, ti assicuro, tu non esisti, non sei esistito mai!
— Ma no, Fabio; sei fuori di strada. Edoarda poteva sposare chiunque le
fosse piaciuto.
— Non discuto su questo. Ogni altra donna penserebbe come tu dici,
tranne lei. Benedetta figliuola! Se mi avesse voluto ascoltare!
— Cioè?
— Oh!... inutile parlarne. Una volta, alla Cascina Bianca — e questo non
te l’ho scritto — una volta le dissi: «Pazienza, Edoarda, pazienza!...
ritornerà; siate certa che ritornerà...» Era la prima volta che osavo
parlarle così, e vidi sùbito che si rabbuiava. M’impose di tacere con un
cenno, e mi rispose: «Di questo, vi prego, non una parola, mai più.»
Naturalmente, mio caro!... Sapeva che vivevi a Parigi con l’altra, e le
donne, anche le migliori, sono sempre donne. Però, se mi avesse dato
retta!... Non avevo dunque ragione, io?
— Scusa: ragione in che senso?
— Toh! Non eri tornato per lei, forse?
— Io? Mai più! Sono venuto semplicemente perchè mi scade l’ipoteca fatta
con i Rossengo di Terracina.
— Ah!... per l’ipoteca?... — egli brontolò fra i denti, fissandomi con
ironia. — Questa volta dunque sarà difficile rinnovarla, quella tua
famosa ipoteca! Non ti sembra?


II

Rimasi lunghi giorni senza una parola di Elena, poi venne questa sua
lettera breve:
«Ho promesso di scriverti, Germano, e lo faccio per una sola volta, non
volendo lasciare senza risposta le lettere che mi mandi ogni giorno. Ma
sarà l’ultima. Ho troppo sofferto per poterti scrivere. Del mio dolore
non guarirò mai. Questa certezza deve bastarti, se veramente mi vuoi
bene.
Sentirai parlare di me — io di te; ma dovremo rimaner estranei, e tu non
far nulla per avvicinarmi ancora. Te lo chiedo come una preghiera
ultima, e sia per te un dovere l’esaudirla. Un giorno forse — quando ti
saprò felice — ti dirò ancora una cosa, quella che stava per sfuggirmi,
al treno, mentre partivi. Ma tu non la domandare.
Avevi nelle mani la mia felicità e l’hai lasciata cadere; io non
possedevo la tua, perchè altrimenti l’avrei custodita, invece di
rinunziare a te.
So una cosa: il tuo cuore non amerà mai — il mio mai più. Fra qualche
giorno cambierò casa... È tutto. Addio.
_Elena_»
Vi son giorni della vita in cui pare che un naufragio immenso accada
intorno a noi; pare che si spenga il sole anche su le memorie più
lontane, anche nell’anima, e per sempre. Viene una voglia neghittosa di
chiudere gli occhi e dormire il sonno dell’oblìo, perchè tutte
dispiacciono tediano e spaventano le cose che rifulgevano come fiamme
all’ápice dei nostri desiderii.
Come una morte nella vita, queste agonie della speranza lasciano in chi
le soffre un segno duraturo. Tale mi ritrovai, leggendo la lettera di
Elena; e, sotto la tempesta che passava, mi sentii cadere come un uomo
esausto, condannato a non levarsi più. Ero disertato, espulso, vinto; la
temerità cessava, l’ascensione aveva una vertiginosa caduta.
Ero giunto a quell’ora, tristissima fra tutte, in cui l’uomo comprende
come la sua piccola superbia non basti a vivere, come tutto sia precario
ciò che non viene dal cuore. Imparavo a conoscere la solitudine, la
vergogna, la paura, compagne desolanti, e andavo, incredulo ancora della
mia sorte, verso una specie di esilio definitivo.
Ebbi la voglia di risollevarmi e non l’energia per lottare; volsi nella
mente le idee più pazze; volli tornare da Elena, inginocchiarmi,
supplicarla di riprendere la nostra vita, e mi sentivo capace d’ogni
sacrifizio pur di non perdere questo amore. Le scrissi, non rispose;
quando fui sul punto di partire, compresi che sarebbe stata una inutile
follìa, e per non parere vile, chiuso nella fierezza rimastami, cercai
che il mio cuore la dimenticasse.
Ma ella veniva la notte, d’improvviso, a dormire fra le mie braccia, e
con triste furore le prodigavo i baci che struggono come attimi di
morte. Furtiva, era dietro i miei passi, ed in ogni cosa ritrovavo una
lontana memoria di lei. La sua voce mi saliva nell’anima come una
distante musica; a volte mi pareva di attingere la mia vita nel suo
caldo respiro, a volte mi pareva che si aprisse una porta e la vedessi
d’improvviso entrare, più bella, più sorridente che mai. La portavo in
me come un male inguaribile, come una gioia senza nome; tutta la luce
del mio mondo interiore s’irradiava intensa dalla sua grande bellezza.
Ludovico mi preparò la casa e v’andai ad abitare. Mi parve una prigione,
l’odiai. Vivevo due vite diverse: una, fra le mie piccole miserie,
l’altra, seguendo i passi dell’amante lontana. Non avevo denaro; per
sopperire alle prime necessità dovetti vendere ad un orefice un antico
gioiello di famiglia, che mia madre aveva gelosamente custodito.
L’amministratore non sapeva più a che santo votarsi per pagare almeno
gli interessi a quelli che vantavano crediti antichi; stava trattando
una vendita e mi diceva di pazientare.
Soffrivo d’insonnia, mi alzavo prestissimo e facevo lunghe passeggiate,
solo, triste, per i colli di Roma. L’aria satura di fragranze mi dava
talvolta una specie di vertigine; sentivo in tutte le membra una
stanchezza mortale; dovevo sedermi, chiudere gli occhi, fortemente
respirare.
Evitavo le strade frequentate, i ritrovi d’amici; gli sguardi altrui mi
ferivano come scherni muti. Fabio veniva da me la sera e Ludovico ci
allestiva il pranzo. Povero Fabio! Quanta bontà fraterna era nelle sue
parole! M’ero confidato con lui; quell’anima dolce sapeva comprendere
tutti i dolori. Mi guardava lungamente, fra le nuvole di fumo delle
nostre innumerevoli sigarette, poi diceva:
— Non mi piaci! non mi piaci, Guelfo! Ti devi distrarre, se no finirai
con ammalarti.
Io ridevo, e cominciavo a parlargli di Elena, sempre di Elena, e della
mia felicità spezzata. In sèguito egli mi venne a prendere, mi condusse
a pranzar fuori di casa, m’accompagnò al Circolo, dove ritrovai gli
amici d’una volta che facevano le stesse cose, ripetevano le stesse
celie di due anni addietro. Godevo credito; giocai, vinsi, riperdetti.
Nessuno mi domandò di Elena, come per un’intesa pattuita; solamente
Camillo Ainardi una sera, giocando, mi disse:
— Andrò a Parigi verso la fine della settimana. Non hai commissioni a
darmi... per il teatro dell’Athénée?
Risposi di no seccamente; gli altri mi guardarono sorridendo, e il
discorso mutò.
Il marchese della Pergola mi conduceva ogni giorno a fare lunghe gite in
automobile, raccontandomi con la sua voce un po’ infantile tutto quello
ch’era accaduto in Roma durante la mia assenza. Si tornava sul far del
crepuscolo, ed allora cominciava con prendermi ogni sera un mal di capo
così violento e assiduo che, rincasando, bisognava mi coricassi; nessun
rimedio valeva per togliermi quel martellare. Durava sin verso la
mezzanotte, poi mi addormentavo d’un sonno angoscioso, interrotto.
Quando fu prossimo il ritorno di Edoarda e il tempo delle sue nozze,
lasciai Roma per recarmi a Torre Guelfa e stipulare la vendita delle
terre di Monte San Biagio, vendita che l’amministratore aveva intavolata
con l’ambizioso e rapace Rossengo.
Oh, di quella casa non dimenticata, come da lontano risplendevano le
finestre quando vi giunsi ad un calar del sole, sul barroccio di
Lazzaro, che m’accompagnava! E, nel cuore popolato di memorie, che
intraducibile sofferenza muta! Fiorivano tutte le siepi e dalle campagne
lontanamente invase da un tenue color di viola, primo vapore della
notte, venivano su le fragranze vegetali delle praterie nuove, miste con
l’odorar forte dei giacinti selvatici, dei bianchi narcisi, che a
migliaia constellavano le riviere. C’era già qualche rosso di papaveri
tra le spighe recenti, ed eran vivaci come le creste dei galli, che
traversando l’aia dei cascinali s’andavano maestosamente ad appollaiare.
Guardavo, ai due fianchi della strada maestra, la terra che non sarebbe
stata più mia; guardavo in alto, verso il castello sovrastante, le
finestre delle stanze nelle quali era passato l’amore, passato per non
più tornare, sotto il cielo di un’altra primavera, come certi voli di
rondini che passano una volta sola e paiono destinati a non fermarsi
mai.
Lazzaro mi raccontava; mi raccontava delle mietiture e dei raccolti,
della torre a cui durante l’inverno s’era fatta una gran fessura nella
muraglia, ed erano l’edere che la stringevan troppo od i serpenti che vi
strisciavano su; de’ suoi figli ch’eran tutti sani e robusti ed il
maggiore stavasi per fidanzare, della sua donna che aveva l’altr’anno
avuta una sesta doglia, ma infruttuosa, e delle viti che toccavano
terra, l’autunno scorso, con i lor tralci ricurvi, sicchè bisognava
poggiarli ad altri alberi più forti, — e delle processioni, e delle
sagre, e della cavalla saura che s’era spezzata una giuntura, cadendo
con il barroccio in un fossato, a gran rischio di uccidere il ragazzotto
che la guidava, una sera buia, nel Dicembre. Di questo non erasi potuto
consolare. La bella saura stelleggiata in fronte, che andava come se la
portasse il vento, tutta scatti e volate, vibrante come un arco teso,
fra criniera e coda.
Così Lazzaro mi raccontava, ed io, mollemente appoggiato alla spalliera
del barroccio, lo ascoltavo tra l’amarezza di altri pensieri, volendogli
bene, perchè tutte queste cose appartenevano al tempo di Elena, erano
state sue e mie, medesimamente. Su quel barroccio, dov’io sedevo, s’era
seduta ella pure, in un pomeriggio di sole, volando tra i filari di
pioppi che s’inseguivano in una fuga opposta, come sbarre di un immenso
cancello... Apparve il giardino, il viale a pergolato, la spalliera di
rose, la facciata immensa della casa, cui avevano posto, davanti alla
scalinata, un gruppo di limóni in grandi vasi di argilla rossa; ed
apparve l’atrio d’ingresso, non illuminato ancora, ma dove uno specchio,
nel fondo, acceso in pieno dalla luce crepuscolare, pareva una finestra
aperta sopra una limpida immensità.
La figlia di Lazzaro aveva messa nei vasi una profusione di fiori ed
aveva preparato il gran letto nuziale nella camera dove mi sembrava
ch’Elena camminasse ancora, facendo sul pavimento con le sue pianelle un
rumore frettoloso e lieve. Mi sentivo da tutte le cose circostanti
piovere nell’anima una morte lenta, ed avrei voluto, in quel letto
profondo, su quei cuscini che per me sapevano de’ suoi capelli,
addormentarmi nel sonno dal quale più non ci si desta, come colui che
sia giunto alla meta ultima del suo pellegrinaggio.
Per venti giorni trascinai nella mia casa una orribile vita. Scrivevo ad
Elena lunghe lettere che poi non le spedivo; mi facevo mandar da Roma i
giornali parigini che ritenevo potessero parlare di lei, ma senza
trovarvi alcun cenno; scrissi ad Elia d’Hermòs, pensando di poter per
suo mezzo ricevere notizie precise; ma egli doveva essere in viaggio
ancora, perchè non rispose. Una volta colsi nel giardino i fiori più
belli, ne feci una cassetta io stesso e li mandai all’indirizzo del suo
teatro; ma questa e l’altre cose rimasero senza risposta.
Intanto un malessere sempre più frequente mi serpeggiava per l’ossa; un
breve cammino od una piccola fatica bastavano ad esaurire le mie forze;
gli occhi, sotto le palpebre, mi bruciavano; le vene dei polsi, delle
tempie, mi battevano come nel rezzo della febbre; non potevo quasi
toccar cibo, nè leggere, nè pensare seguitamente; avevo nelle orecchie
un rumor sordo, simile a quella sonorità che ronza nelle conchiglie
marine, ed esso mi si ripercoteva tormentoso nel cervello; mi sentivo
assalire da spaventi subitanei, da traffitture per tutte le membra, e
l’unghie agli orli mi si sfogliavano come le squame dei pesci.
In quei giorni vendetti la tenuta di Monte San Biagio a Michele
Rossengo, il quale si trattenne il prezzo dell’ipoteca ed in più mi
diede una piccola somma di denaro. Così dell’antico dominio non rimaneva
che la tenuta di Torre Guelfa, la rocca madre, onerata essa pure in
parte, ma per una scadenza più lontana.
Il ventesimo giorno dopo l’arrivo a Torre Guelfa, mentre desinavo, uno
svenimento mi colse. La figlia di Lazzaro, impaurita, corse a chiamare
il padre ed altri familiari. Mi portarono a letto e vi giacqui per
cinquanta giorni, arso da una febbre tenace, invincibile, che ogni tanto
sostava, per riprendere di lì a breve con maggiore accanimento.
Il medico di Terracina pareva molto irresoluto nel far la sua diagnosi;
parlava di sintomi delle febbri malariche o palustri, poi se ne mostrava
dubitoso: fece il nome di malattie nervose complicate e strane, ma per
quanto si cavillasse la mente, nulla poteva contro il mio male. Venne un
professore da Roma e disse con maggior pompa le medesime cose incerte;
mi trovò esaurito di spirito e di corpo, in uno stato lamentevole di
eccitabilità, mi domandò anche se avessi avuto un dolore od una
preoccupazione intensa... Disse che, appena combattuta la febbre, avrei
dovuto da me stesso rimediare al resto, vincendo la mia svogliatezza,
distraendomi, cacciando le idee nere.
In quel tempo desiderai di morire; lo desiderai con la medesima voluttà
profonda che avevo messa nell’amare la vita; provavo l’impressione di un
annegamento continuo; la forza degli altri e delle cose avverse mi
pareva crescere a dismisura, la mia, farsi piccola ed inane. Mi
esecravo; non avevo alcuna fede, alcuna speranza in me. E su tutto
navigava quel profumo di amor perduto, come, da una lontananza
chimerica, il sogno di giovinezza che può sorridere ai morenti. Questa
era la sola cosa che sapesse darmi ancora un fremito e potesse infondere
nel mio tormento una soave malinconia.
Intorno, la terra e il cielo intiepidivano di primavera; dalle campagne
udivo cantare; i venti della sera mi portavano tutte le saturazioni
della giornata feconda. Sognavo, come nell’estasi d’un sogno remoto, la
mia donna e le parole che avevo udite da lei.
Venne a curarmi Ludovico, e Fabio venne pure; mi assistette per circa un
mese, fu amorevole, intuì meglio di chiunque altro l’origine del mio
male. A lui, nel delirio della febbre, raccontavo le cose più pazze,
pregandolo che andasse via, che mi lasciasse morir solo; e l’amico dolce
come un fratello sapeva trovar le parole atte a rendermi un poco di
serenità.
Ma era mutato anch’egli: quel matrimonio d’Edoarda aveva interamente
scomposto l’ordine della sua vita. Ora si faceva bisbetico, sarcastico,
talora taciturno. O cuore incomprensibile dell’uomo, chi mai ti potrà
conoscere?
Lentamente guarii. Appena vinta la febbre, mi trassero fuori dalle
coltri, mi sedettero all’aperto, tra i fiori, tra il verde. Cominciò
gradatamente una giovinezza nuova, con le forze che rinvigorivano, con
l’anima che si dilatava nella serenità circostante. Fabio era partito;
avevo come soli compagni il medico di Terracina, Ludovico, Lazzaro, i
suoi figli ed i villici della fattoria, gente onestamente rude che
insegna l’amore della vita sana. Lunga e voluttuosa fu la convalescenza;
tutte le cose più semplici, che la nostra sensibilità esperta non
percepisce più, mi ferivano in quel rinascere; tutte le gioie tornavano,
stillando come favi di miele nel sangue avido, ad una ad una. Colei che
avevo amata, che amavo, era nell’intimo del mio cuore come un gioiello
ben custodito, e provavo la voluttà di avere sofferto, io, che nella
vita ero passato aridamente, senza vere passioni. Mi pareva d’essermi
redento con questo amore doloroso. In tutte le immagini belle, che davan
musica e luce alla mia vita nova, ella passava come una trasfigurazione,
lasciando cadere intorno a sè fiori di rimembranza e di speranza, parole
udite, sorrisi.
Quando mi fui del tutto rimesso in forze, partii. Batteva l’estate
piena, con accecanti sfarzi di sole e pleniluni chiari come albe, al
cantar delle fontane.
Andai direttamente a Parigi; volevo ritrovar Elena, parlarle od almeno
vederla. Ma non v’era. Mi dissero al suo teatro ch’era partita circa un
mese prima e non sapevano per dove. Sarebbe tornata l’autunno. La mia
gioia si smorzò come per incanto, mi sentii più solo, quasi che la
lontananza fra noi fosse immensamente cresciuta. Andai a riveder la
nostra casa e riconobbi dalle finestre i segni d’altri abitatori. Di
questo amore, ch’era pur stato così grande, non rimaneva più nessuna
visibile traccia; le cose, la distanza, il tempo, scorrevano sovr’esso
con una indifferenza crudele. Volli ritrovar Elia, ma era partito egli
pure, cosicchè, per non lasciarmi vincere dallo sconforto, cercai la
gente, il rumore, la musica, i ritrovi lieti, le donne gaie, le spiagge
popolate. Fui ad Ostenda per oltre un mese, indi visitai Trouville,
Boulogne sur Mer, Vichy, Aix; avevo un poco di denaro con me, giocavo
temerariamente, vincevo.
Verso il principio del Settembre scrissi a Parigi per sapere se fosse
tornata; mi fu risposto che non avevano alcuna sua notizia. M’incontrai
allora con alcuni amici che andavano a Montecarlo e questi mi decisero a
seguirli.
Che dolce autunno, giù per le colline inclinevoli, per i promontori
selvosi, davanti a quel mare pigro, che oscilla, mentre le vele dei
navigli erratici se ne vanno via, gonfie di vento, sfarzose di luce,
leggere come petali di rose cadute sopra una fontana. Oh, averla meco,
sotto la curva di quel cielo troppo azzurro, e camminar tra i palmizi
onusti di grappoli quasi biondi, sotto i boschi d’ulivi che scoloriscono
quando passa il vento, e guardar dai cancelli, sovra i muricciuoli dei
poderi, nel folto degli aranceti, pendere i bei frutti d’oro!
V’era poca gente ancora; gli alberghi, aprendosi ad uno ad uno,
cominciavano a lustrar gli specchi per la stagione prossima, i
giardinieri a rifar l’aiole, i verniciatori a rinfrescar le insegne.
Quegli amici che mi avevano condotto, ripartirono, stanchi della mala
sorte; io, per pigrizia, rimasi.
Cominciai con perdere, lentamente, ogni giorno. Ma una sera che tornavo
da una gita in automobile, verso l’ora del pranzo, entrai svogliatamente
nelle sale da giuoco, non sapendo che fare. Le tavole quasi eran
deserte; ancora faceva caldo; gli impiegati sonnacchiosi, oppressi dal
tedio, sbadigliavan o mormoravano tra loro. Una signorina bionda e
anemica, la quale soleva spesso darmi consigli, mi disse, venendomi
vicino e facendo sonare la sua borsetta piena d’oro:
— È la giornata del 26: giocatelo!
In quel momento, ad una «roulette» poco discosta, capitò che
annunziassero proprio il numero 26.
— Vedete? — ella fece ridendo, e uscì.
Avevo poco denaro in tasca; m’accostai ad un’altra tavola, presi un
gruzzolo d’oro e lo misi al 26. Uscì proprio questo numero, ed io
lasciai tutto il guadagno su le varie combinazioni del 26. Ripeterono lo
stesso numero, ed in capo d’un’ora, facendo lo stesso gioco su varie
tavole, ero giunto a vincere oltre cinquantamila lire.
La signorina bionda e anemica bevve quella sera molto Sciampagna, disse
molte corbellerie e volle che l’accompagnassi a casa — per slacciarle il
busto.
Da quella sera in poi non feci che vincere ogni giorno, senza
interruzione, con una facilità che stupiva me stesso.
Dopo varie settimane mi trovai possessore di una somma notevole, e, non
volendo riperderla, mi recai a Parigi per attendere il ritorno di Elena.
In quei giorni appunto ell’aveva scritto da Ginevra al direttore del suo
teatro, dicendosi malata e chiedendogli ancora un mese o due di riposo.
Corsi a Ginevra, ed all’albergo dal quale aveva scritto mi risposero
ch’era partita pochi giorni prima, non sapevano per dove.
Solo, triste, torturato da mille dubbi, roso dall’impazienza, tornai a
Parigi, dove tutte le sere andavo al suo teatro, quasi per essere più
vicino a lei.
Elia — mi dissero — dall’Egitto era andato in America. S’avvicinava
l’inverno; pioveva quasi ogni giorno; tutto mi pareva lugubre, tedioso.
Accarezzavo intanto il mio sogno con gelosia; pensavo che saremmo
tornati a vivere insieme, per sempre questa volta; con il denaro vinto
mi sarei messo a trafficare in Borsa prudentemente; si avrebbe insieme
guadagnato abbastanza da essere felici.
Poi, quando fossi tornato ricco, l’avrei indotta a lasciare il teatro,
avrei forse comprata una villetta nei dintorni di Parigi, un’automobile
per venire in città; forse, col tempo, l’avrei sposata. L’estate si
sarebbe andati a Torre Guelfa, o si avrebbe viaggiato, secondo la sua
preferenza: dal nostro amore sarebbe nato qualche bimbo ed avrei
conosciuta io pure la gioia della famiglia, la tranquilla poesia del
focolare. Immaginavo di raccontarle queste cose, vincendo a poco a poco
la sua riluttanza, facendomi perdonare il passato, con la dolcezza delle
mie parole. Per ingannare il tempo, andavo alle agenzie domandando quali
case vi fossero da affittare; sceglievo questa o quella nel mio
pensiero, dicendo che presto mi sarei risoluto. Le comperavo molti
piccoli regali, curavo la mia persona, cercavo di rammentarmi i suoi più
piccoli desiderii.
Finalmente giunse. Me lo dissero al suo teatro, una sera, dopo lo
spettacolo. Il cuore mi tremò; avrei voluto correre da lei sùbito, senza
tardare un attimo. Era scesa nella «Rue Castiglione», all’albergo dello
stesso nome, poichè aveva lasciata la sua casa. Uscii dal teatro con le
vene che mi battevano forte, la mente smarrita, un po’ ebro.
Era una notte freddissima; nevicava. Il vento faceva turbinare i fiocchi
larghi e fitti intorno alle chiostre dei lampioni, che ad intervalli
uguali accendevano di chiarori abbacinanti la neve uniforme. Presi una
vettura e mi feci condurre in Piazza Vendôme; là scési. Al sommo, il
grande monumento napoleonico era coperto d’una cappa candida, come un
solitario pino; la piazza quadrata biancheggiava in tutta la sua
vastità, traversata nel mezzo dalle vetture opposte, che parevano
affondarvi senza strepito.
Gli spazzatori, curvi e pigri, ammucchiavano inutilmente la neve. Mi
cacciai sotto il portico della «Rue Castiglione», giunsi fin rimpetto
all’albergo e mi fermai sotto un’arcata. Il vento invernale, a raffiche,
m’investiva, picchiettandomi co’ suoi pulviscoli di neve ghiacciata,
pungenti come grandine; ma un desiderio invincibile mi tratteneva lì,
fermo, a guardare le finestre illuminate dell’albergo, forse per
indovinare quale, fra tante, fosse la sua. Vedevo talvolta sui chiari
vetri delinearsi qualche rapida ombra, e sparire, ma in nessuna potevo
riconoscere la sua; v’erano anche molte finestre chiuse. Dopo aver
esitato a lungo, traversai la strada, entrai nell’albergo. Un custode
notturno vigilava nell’atrio; si levò, mi venne a domandare che volessi.
Risposi che mi premeva di sapere se la signora Elena de W. fosse giunta
in quel giorno all’albergo. L’uomo, di malumore, dopo avermi squadrato,
mi rispose che non sapeva. Lo indussi ad una maggiore cortesia,
dissipando con il rumore di qualche moneta il sonno che l’opprimeva.
— Com’è il nome? — mi domandò allora. Lo ripetei.
— Ora guardo, signore. — Andò ad una scrivania e si mise a scartabellare
un registro.
— Di fatti, — rispose. — È arrivata oggi nel pomeriggio. Adesso mi
ricordo. È una signora alta, bionda, non è vero?
— Appunto. E sapete se sia già rincasata?
— Non dev’essere nemmeno uscita, credo. Però, scusi un momento...
Andò verso un assito dal quale pendevano le chiavi delle camere, guardò
all’uncino che portava il numero 17, e vedendolo vuoto rispose:
— La chiave non c’è; deve dormire. Se crede, salgo ad accertarmene.
— Grazie, non importa. Domattina le darete questo mio biglietto da
visita.
E sotto il nome scrissi alcune parole a matita, per dirle che sarei
venuto il domani verso l’ora della colazione.
— Ecco, — dissi all’uomo, consegnando il biglietto. — Ma non scordatelo,
vi prego.
— Non dubiti; buona notte, signore.
— Buona notte.
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