L'amore che torna: romanzo - 02

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— Per Dio diavolo! Tutti gli anni, al giorno della Immacolata
Concezione, mi càpita un rovescio! Si vede che io, con le Vergini, son
proprio destinato a non aver fortuna.
Io risi, e gli dissi:
— Vuoi che ti tenga socio nel mio banco?
— Volentieri: per un terzo.
— E’ inteso.
Avevo all’occhiello una rosa. Guardai l’Albanese e risi.
— Perchè ridi? — egli fece.
— Nulla... Tocco la rosa perch’essa mi porti fortuna. Ho la
superstizione dei fiori.
Diedi le carte e perdetti. Nacque sùbito fra l’Ainardi e il Sabbatini, i
soci di prima, una discussione su la precedenza delle poste. Purtroppo
le alleanze di giuoco non sono che tregue armate.
Si discusse a lungo, finchè intervenne il rubicondo e calvo marchese
Della Pergola per fare una sfuriata. Nonostante il suo spirito
conciliativo, era fra quegli uomini che giuocano con raccoglimento, e
non ammetteva che si potesse tanto cicalare davanti alla sacra maestà
delle carte da giuoco.
Infine quel diverbio si compose. Diedi ancora tre volte il colpo e tre
volte perdetti.
Guardai di nuovo l’Albanese, toccando il fiore e risi.
— Non serve! — egli scherzò con ironia, facendo pompa de’ suoi guadagni.
— Servirà.
Cambiai mazzo, e con esso la sorte. In breve raccolsi tutto il denaro
de’ miei competitori e persino riuscii a vincere due volte la rara posta
del conte Anghilieri. Egli borbottò qualcosa dietro il giornale, poi si
mise a rasciugar gli occhiali.
Ed io, tolta la rosa dall’occhiello, piacevolmente la posai vicino alle
carte. Guardai l’Albanese e risi.
Continuammo. La fortuna non mi lasciò. Molti si esasperavano:
l’Albanese, mettendosi e togliendosi nervosamente l’occhialetto, mi
fissava con animosità, poich’era fra quelli che giuocano contro il
denaro e contro le persone insieme.
Quel mio ridere lo molestava; ed io per esasperarlo insistetti.
— Vedi bene che l’Immacolata non c’entra, — dissi al Capuano, il quale
trepidava.
— Non bestemmiare, per l’amor del cielo! — questi mi rispose, facendo le
corna. — E rimetti quel fiore dove lo avevi prima, se non vuoi che ti
porti la jettatura.
— Questo fiore?... Ah no! — io dissi, distribuendo le carte. — Questo
fiore è il dono d’uno di noi alla più bella donna di Roma!
E fissai l’Albanese, che cercò di reprimere un movimento di dispetto.
— Anche le donne, adesso? — Non mancava che questo per rovinarci del
tutto! — borbottò l’Ainardi.
Ed Antonino Massàra, il pettegolo balbuziente, soggiunse:
— La più bella don-na-di-Ro-ro-ma ti ap-pa-partiene! Vi-viva la ff-accia
tua!
— Mi apparterebbe forse, — risposi, vincendo il colpo iniziato, — se non
mi fosse contesa. V’è chi me la seduce... a mazzi di fiori!
— Vuoi alludere a me? — interruppe Giorgio Albanese in tono di falsetto.
— Credo infatti che fosse tuo quel mazzo dal quale ho tolta questa
bellissima rosa. Volevo dirti che i tuoi fiori appassiscono tutti nel
ripostiglio del portiere. Quanto profumo sprecato!
— Credo che tu voglia millantare in questo momento, — mi disse un po’
livido.
— Io non millanto mai, — risposi con pacata ironia; — perchè, sebbene
non mi chiamino l’«Assillo», qualche volta so pungere anch’io.
— Insomma ti avverto che mi secchi! — egli esclamò dando un pugno su la
tavola.
— Ragazzi... per l’amore di Dio!... — fece il marchese Della Pergola,
cantilenando con angelica noia.
— Potrebbe darsi che ne avessi l’intenzione, — risposi all’Albanese con
voce beffarda, fissandolo in faccia.
— Ed io t’ingiungo di smettere! — inveì l’altro, scattando su, nero come
una viperetta.
— Scusa... — gli risposi con una placidità provocante, — ora poi mi
sembri sommamente ridicolo!
Egli fece l’atto di avventarmisi contro, ma con prontezza gli amici
s’interposero e lo trascinarono fuori.
— Credo che tu abbia perduta la bussola! — mi disse a mezza voce il
Capuano, carezzandosi la barbetta brizzolata che gli dava un po’ l’aria
del cavaliere antico.
La cosa fu risolta il giorno dopo, con un colpo di sciabola che ferì
leggermente l’Albanese ad una guancia. Ed il portiere dell’albergo non
ricevette più nè profumerie nè rose.


V

Elena entrò quella sera, con un giornale piegato sotto il braccio e
senza poter nascondere la sua inquietudine.
— Ecco! ecco! — esclamò con un rimprovero sorridente. — Vi siete battuto
con quel signore dei mazzi di rose. Bravissimo!... e senza dirmi nulla!
— Da ieri non ci siamo più riveduti. Come potevo dirvelo? Ed a voi chi
lo ha raccontato?
— Ne parlavano all’albergo poco fa; poi è stampato su l’_Italie_.
Bravissimo! E, grazie al cielo... Ma perchè non dirmi nulla?
— Oh, Dio, queste sciocchezze si raccontano poi, vi pare? Ma toglietevi
il cappello almeno, datemi la mano almeno!
— Pazienza, pazienza! Prima voglio sapere come andarono le cose. Mi
avete fatta fare una bella figura all’albergo!
— E perchè?
— Ma, si capisce! Quando mi diedero la notizia, ebbi paura che foste
ferito, e scioccamente... Insomma, questo non conta! Poi mi hanno detto
che il ferito era l’altro, «le monsieur aux roses!...» ed allora
pazienza! Ma voi, voi...
E mi scoteva davanti agli occhi l’indice minuscolo in segno di minaccia.
— Ecco: sono venuta sùbito; mi sento ancora un po’ turbata. Come fu
dunque?
Le tolsi un guanto, baciai quella morbida sua mano.
— Come fu? ditemi, ditemi... — pregava con impazienza.
Le raccontai la storia brevemente. Allora mi venne più presso, e
posandomi entrambe le mani sul braccio mi domandò:
— Perchè avete fatto questo?
— Perchè l’altro mi dava noia. E’ molto semplice. E perchè voglio che vi
lascino stare. Non siete mia, lo so, ma non importa. Qualche volta penso
quasi che lo siate. Del resto non val la pena che se ne parli più.
Ella mi guardava co’ suoi grandi occhi fermi, che le illuminavano tutta
la faccia. Dalla veletta sollevata le sfuggivano alcune ciocche di
capelli, prendendo in quella luce diffusa il color tizianesco del rame
antico. Mi chinai su la sua bocca, per baciarla, e non osando ancora, mi
indugiai a respirare nel suo respiro, a vivere nel cerchio della sua
vita, con tale un turbamento che dovetti chiudere gli occhi.
— Elena, rimanete a pranzo da me questa sera... — le dissi con desiderio
e con paura.
Ella si era intanto rivolta verso un gran vaso di lilla bianchi, e ne
carezzava un ramo lentamente, abbassando la faccia, come per nascondere
i suoi pensieri.
— A pranzo? No, no, — rispose in fretta.
— E’ una promessa... e non la mantenete mai.
— E’ meglio di no.
— Siate buona, Elena...
Si china maggiormente sui lilla, senza rispondere: alcuni rami
s’impigliano tra i suoi capelli.
— Venite a sedervi qui, — le dico.
Viene, lenta: si siede presso il fuoco; i lilla bianchi le hanno
lasciato nel viso tutto il lor pallore. Tace, mi fissa; tace, contempla
il fuoco; erra per la sua bocca un’espressione indefinibile di
tristezza, poi si copre la faccia con i due palmi, forse perchè nasce in
lei, come in me, senza volerlo, un bisogno irresistibile di pianto.
E quando la interrogo, mi risponde con la voce rotta:
— Perchè taccio? Non so... Mi sembra di sentirmi un poco male.
— Che male?
— Nessuno... tutti... la malinconia.
Vi sono fiori all’intorno, traboccano da ogni vaso, mettono per la
stanza una primavera che illanguidisce ai riverberi del fuoco. La sua
pelliccia trema di riflessi continui su la spalliera d’un divano; per
l’aria naviga una lenta soavità. Eppure a noi sembra di non poterci
parlare. Le parole si avvicendano, rare, con fatica.
— Dove siete stata oggi?
— All’albergo tutto il giorno.
— Che avete fatto?
— Niente.
— Avete letto?
— No.
— Scritto?
— Nemmeno.
— Mi volete un poco di bene?
— Non so, non so...
E scuote il capo, si copre di nuovo la faccia. Fra le sue dita scorre
una lacrima, luccica un istante nel chiarore della fiamma, cade.
Io m’inginocchio davanti a lei, prendendole i due polsi; ma subitamente
mi respinge:
— Lasciàtemi, lasciàtemi... Non voglio!
Poi, dalla poltrona in cui sta rincantucciata, si leva d’improvviso e
dice:
— Vado via. Non posso più rimanere qui.
Quasi ruvidamente la trattengo per una mano:
— No! Sono io che non voglio!
Allora mi guarda un momento e le rinasce su l’orlo dei labbri un ambiguo
sorriso.
— Penserete ch’io sia pazza, non è vero?
— Lo sono più di voi, Elena; molto più! Non andate via.
Ed ecco, ridendo, scuote la testa come per scacciarne la tristezza e
segna con la mano intorno:
— Perchè tutti questi fiori?
— Per voi, per farvi un poco di festa.
Ride più forte.
— E le rose dell’altro... le rose del vostro avversario... la stessa
cosa, non è vero?
— Come volete, — rispondo, rabbuiandomi. — Può darsi che sia la stessa
cosa. Come volete.
Abbraccia tutti i fiori con un gesto largo e dice:
— Belli!
Poi, di sùbito, volgendosi a me, con la bocca schernevole:
— Come sta la vostra fidanzata?
— La mia... chi vi ha detto?... — esclamò impallidendo.
— Come sta? — ella ripete, un po’ convulsa.
— Io non ho fidanzate, o per lo meno, ecco: non ne ho più.
— Ah?...
— Ma chi v’ha detto questo?
Rapidamente allora si trae dalla cintura una lettera piegata in più
doppi e me la mostra dicendo:
— Questa lettera.
— Non firmata, probabilmente.
— Non firmata, infatti.
— Posso leggerla?
— Se volete.
S’avvicina, la spiega e legge con me. Siamo entrambi con le spalle
rivolte contro il caminetto; il suo dito scorre su la pagina
sottolineando le righe di una calligrafia malsicura che appare
manifestamente simulata.
Dopo aver letto, io taccio un momento, poi le domando:
— Quando avete ricevuto questa lettera?
— Ieri.
— E non mi avete detto nulla ieri?
— No.
— Per qual ragione? Mi sembraste anzi così allegra.
— Certo; perchè no?
— Ebbene: è la verità, o almeno una parte della verità, quella che tutti
sanno.
Ella intrecciava le dita insieme, poi le scioglieva, standovi attenta,
come se quel lento gesto bastasse ad avvincere il suo pensiero.
— Ed ora ditemi una cosa, — domandò. — Perchè me lo avete nascosto?
— Se ve ne spiegassi la ragione, forse non credereste.
— Forse. Ma ditela in ogni modo.
— Ebbene, perchè sapevo, perchè speravo, che un giorno voi ed io si
sarebbe riusciti a vivere insieme. Allora non volevo lasciarvi supporre
che l’avessi abbandonata per causa vostra.
— Oh!...
— Ve l’ho premesso; non credereste. Ma è tuttavia così, proprio così. Ho
doveri gravissimi verso questa fanciulla, e non li posso più compiere.
Sono miserie che ho preferito nascondere. Ve l’avrei detto più tardi.
— Per qual motivo non li potete più compiere?
— Perchè in certi momenti mi pare quasi di odiarla. È crudele a dirsi,
ma ora, da qualche tempo, i miei nervi non la sopportano più.
— L’avete amata?
— Mi è sembrato, una volta.
— E lo sa?
— Lo intuisce; ma finora non ho avuto il coraggio di farle questa
confessione. Temo di vederla troppo soffrire.
— Oh!... ma dunque le donne vi amano tutte così?
— No, non scherzate! La cosa è troppo triste.
— Io v’aiuterò, — ella disse gravemente, dopo una pausa.
— A far cosa?
— A compiere il vostro dovere.
— Elena, vi ripeto, non burlatevi di me!
— Non mi burlo affatto. Se questo che mi avete detto è vero, non
esitate, non esitate un istante, perchè, Germano, la cosa più terribile
al mondo è quella di aver fatto soffrire.
E mi parve che un’ombra fugace passasse nel suo pallore.
Le andai presso; raccolsi nelle mie mani le sue, come per meglio
comunicarle il mio pensiero:
— Elena, mi siete veramente un po’ amica? Posso parlare con voi? Posso
dirvi tutto?
— Ma sì, certo, certo.
Allora le raccontai la mia storia tristissima, le dissi di questo
legame, contratto quasi involontariamente, e che diveniva ogni giorno
più la catena insoffribile, il giogo sotto il quale avrebbero cercato
invano di curvare la mia indipendenza.
— Sapete, — le dicevo, — io mi domando sempre come avvenne. Furono gli
amici, le circostanze, dovrei dire il destino, se vi credessi. Vivevo a
quel tempo una vita fastosa, inutile, sfrenata, e c’era una fanciulla
che mi amava, che professava per tutto quanto era mio una religione
appassionata e silenziosa. Cominciarono alcuni amici con dirmi: «Sai,
Guelfo, sarebbe quasi tempo che prendessi moglie anche tu. Una fanciulla
che ti vuol bene, graziosa, enormemente ricca, senza parenti fuorchè una
vecchia zia... ebbene, cosa puoi desiderare di meglio?» — «Di meglio che
la mia libertà? — risposi. — Nulla!» — E nemmeno vi pensai. Ma, vedete,
qualche volta nasce contro un uomo, per condurlo a commettere una
sciocchezza, quasi una vera e propria congiura di piccoli avvenimenti,
che più tardi non si ricordano nemmeno più. Io, che la conoscevo appena,
ebbi da quel tempo frequentissime occasioni di vederla, e quando le
parlavo, la sua faccia s’imbiancava come se le facessi male. Sapeva
tutto di me; aveva letti alcuni miei libri di viaggi; possedeva un mio
quadro di molti anni addietro, che si chiamava, mi ricordo: _La svernata
in Abbruzzo_; insomma ella mi venne incontro come chi ha sete va
incontro alla fontana. Questo non mi diede nessuna gioia, tranne una
grande stupefazione. Era la prima volta che imparavo a conoscere
un’anima di signorina. Finchè, un giorno, in un albergo di campagna...
E le confessai la mia colpa, nel modo più naturale, come se parlassi
d’un altro e raccontassi una storia udita per caso. Ella mi ascoltava
senza perdere una sillaba, ritta contro il camino, con le due mani
protese all’indietro verso il tepore del fuoco. Un contorno di luce
rendeva più ferma l’immobilità de’ suoi lineamenti.
— E v’era, — continuai, — v’era, ve lo confesso, anche un’altra ragione.
Il mio denaro sfumava. Di giorno in giorno vedevo la rovina giungermi
sopra a grandi passi. Oltre a ciò, la noia, la stanchezza di vivere a
quel modo, il bisogno di rinnovarmi un poco... infine la promessa!
Mi era quasi appena caduta dalle labbra, che già mi pentivo di averla
data. Un soffio disperse tutto, l’amore, la riconoscenza, i calcoli... e
non rimase che la paura di spezzare quell’anima fragile nel confessarle
che tutto era stato un’illusione, impossibile a continuarsi,
necessariamente finita...
E soggiunsi:
— Fra qualche mese, al termine d’un suo lutto recente, l’avrei dovuta
sposare.
Ella mi ascoltava ora con la testa un poco abbandonata all’indietro, le
palpebre socchiuse, come sentendosi rapire da un pensiero dilettoso e
crudele. La sua gola riversa biancheggiava, palpitando per il respiro
troppo frequente, ed aveva in sè una similitudine di colomba, una
similitudine di cosa immacolata.
Ed ancora narrai le terribili angosce sofferte per tenere in vita questo
amore che finiva, le lotte affrontate, le finzioni, le piccole menzogne
necessarie, le volte ch’ero andato per dirle: «Sai Edoarda...» — per
dirle tutto, — e me n’ero tornato indietro, più vile, più
lamentevolmente spossato, col mio secreto nel cuore.
Infine le domandai:
— Ora, ditemi: è più onesto sposare una donna in queste condizioni od
avere il grave coraggio che può essere necessario per non morire in due?
Quella immobilità di statua fu scossa come da un brivido; vidi che una
lotta veemente si dibatteva in lei; pensò a lungo, in silenzio, poi
repentinamente levò la faccia. Gli occhi le splendevano di una luce
oscura, nel mezzo della fronte aveva una piccola ruga e le vagava su la
bocca un sorriso delicatamente crudele. Le sue mani si posarono aperte
su le mie spalle, strinsero, strinsero forte...
— Non so! non so nulla! non so nulla! — rispose con precipitazione. Poi
d’un tratto, avvinghiandomisi al collo:
— Taci! Non parlare più!...
Le sue labbra, con irosa gioia, si lasciarono cogliere su la bocca il
primo nostro bacio d’amore.
Sentii che la stanza, i fiori, la luce, l’anima, tutto spariva in un
vuoto profondo come l’oblio.


VI

La mattina seguente, pochi minuti prima del mezzogiorno, camminavo con
un passo alacre verso la casa di Edoarda Laurenzano. Vanamente cercavo
di costringere il mio pensiero alle opportune meditazioni di quell’ora
forse terribile che per me s’apparecchiava. Tutto nel mio spirito era
giocondità, sorriso, luce.
Godevo il piacere insaziabile di respirare l’aria, di bagnarmi nel sole,
di camminare con rapidità nell’ingombro dei marciapiedi; provavo la
gioia di veder correre i cavalli, e gli uomini urtarsi, confondersi,
elevando la voce, manifestando in mille modi continui la vitalità dei
loro muscoli e dei loro pensieri.
Eppure una gran casa taciturna mi attendeva: in quella casa una fragile
apparizione di fanciulla, con gli occhi pieni di lacrime latenti, buona
fino al martirio, pallida fino allo squallore. Mi attendeva lo sforzo di
comprimere dentro il cuore tutta l’esuberanza di questa immensa gioia,
per chinarmi a raccogliere un dolore, a simulare una pietà, e, menzogna
sopra menzogna, forse a concedere una speranza.
Come mi avrebbe accolto Edoarda, dopo la notizia del duello ed i maligni
discorsi delle premurose amiche? Senza dubbio le voci su la mia recente
avventura con Elena dovevano essere giunte fino a lei. D’altronde, come
le avrei spiegata la mia trascuraggine di quegli ultimi tempi? Un
giorno, mentre passeggiavo con Elena sul Corso, la sua carrozza era
passata improvvisamente. Non potendomi nascondere, m’ero vôlto con
prontezza verso una vetrina, e durante il fugace riflettersi della
portiera nel cristallo non avevo potuto discernere se colei che stava
nella carrozza mi avesse o no veduto. Infine mi sarei dunque deciso ad
una confessione aperta, od avrei di nuovo prolungata per viltà quella
orribile finzione?
Tutte queste domande volgevo confusamente nel mio spirito, e rimanevano
senz’alcuna risposta. Nel varcare la soglia del palazzo Laurenzano,
provai subitamente una stretta al cuore. Tutto là dentro, le persone e
le cose, mi erano familiari, avevano al mio giungere un sorriso di
cordiale accoglienza.
Vedendomi entrare, il vecchio portiere si affacciò alla vetrata per
dirmi ambiguamente:
— Oh, signor conte! Non la si vedeva da molti giorni. E’ stato malato
forse?
— Un po’ indisposto; nulla, nulla, — risposi con brevità.
E la sua moglie ciarliera gli andava borbottando qualcosa dietro la
schiena, tirandolo per la falda della livrea.
Venne il cocchiere in quel punto, mentre stavo attraversando la corte,
per dirmi che uno dei cavalli s’era azzoppato e la signorina gli aveva
detto di mostrarlo a me... quando venissi.
— Va bene, — risposi. — Scenderò dopo la colazione.
Quei cavalli erano stati scelti e contrattati da me; in quella casa
tutti oramai mi consideravano come il padrone. Salito che fui
nell’anticamera, il domestico tornò da capo con le sue rispettose
maraviglie. Sono costoro per consueto custodi assai gelosi dell’onor
familiare.
Edoarda mi venne incontro per il corridoio, senza far strepito sul
tappeto, appoggiandosi alla parete, nell’ombra.
— Credevo che non saresti venuto mai più....
Furtivamente, nel corridoio, non sapendo come risponderle, per fare
quello che facevo sempre, volli darle un bacio.
Ma ella si ritrasse con un moto repentino e disse in fretta:
— Vieni, la zia ci attende.
Infatti, nel solito angolo della sala, sprofondata in una immensa
poltrona, la zia di Edoarda lavorava come sempre alle sue cuffie di
lana.
Whisky, il piccolo _terrier_ dal musetto bianco e nero, le sonnecchiava
davanti, sopra un cuscino. Quando mi vide, balzò diritto e mi corse
incontro saltellando, abbaiando forte.
— Whisky, piccolo Whisky!... Come va? come va? — feci allegramente, per
nascondere la mia confusione. Ma Whisky si arrampicava su le mie gambe,
mi grattava le scarpe, urlava tanto, che dovetti prenderlo in braccio e
carezzarlo affinchè si quietasse. La zia di Edoarda, una vecchia signora
corpulenta e piena d’infermità, mi accolse in un modo appena urbano.
Cosa dissi non saprei; una confusione sciocca di parole e di fatti: quel
mio malessere continuo, la febbre, l’arrivo di un amico da Palermo,
l’incidente spiacevole con l’Albanese, lo scontro «e poi, di nuovo,
ieri, tutto il giorno, tutta la notte, l’emicrania...»
Edoarda, seduta, immobile, pareva esaminasse ogni mio gesto, ingoiasse
con amarezza ogni mia parola. Poich’ero assai confuso, Whisky sopra
tutto m’interessava, con le sue comiche impertinenze, con le sue
capriole sui cuscini, vispo come un furetto.
— E cosa faceva in questi giorni il piccolo Whisky? — io dicevo,
schioccando le dita per provocare la sua vivacità.
Di sfuggita, nel frattempo, consideravo Edoarda. Mai come in quel giorno
ella mi parve stremata. Il lungo pianto le aveva devastata la faccia.
— Mi ha detto il cocchiere, — profferii timidamente, per interrompere il
gelido silenzio — che uno dei cavalli zoppica. Dopo colazione bisognerà
che lo andiamo a vedere.
— Sono già due giorni, — ella disse, guardando a terra.
— Non fu chiamato il veterinario?
— No: credevo che sareste venuto.
Ancora un lungo silenzio.
— Non avete altri duelli in vista? — fece dottoralmente la zia.
— Nessuno ch’io sappia, — risposi, volendo riderne.
— Meno male: noi lo abbiamo saputo dagli Ardizzò-Basile e più tardi dai
giornali, perchè voi, naturalmente...
Io mi precipitai a raccogliere gli occhiali che le erano caduti.
— Preferivo dirlo a voce, — risposi, — e siccome non ho potuto venire
ieri...
— Già, l’emicrania! — disse la zia, stirando le sue cuffie. Poi
soggiunse:
— Naturalmente ieri abbiamo avuto una sequela di visite. Oltre gli
Ardizzò, vennero i Landriano, mia cugina Ferro con suo marito, le De
Gennaro, Maurizia Curreno, e molte altre. A proposito, si potrebbe
sapere la causa vera di questo famoso duello?
— Ma è semplicissima: un incidente di giuoco al Circolo, come vi ho
detto.
— Già; ma sembra che non tutti spieghino la cosa in questo modo. Il
battibecco di giuoco, se vogliamo, è la versione ufficiale; ma insieme
se ne dà un’altra.
— Un’altra?... — feci evasivamente. — Mi stupisce. Sebbene dovrei sapere
ormai di quali pettegolezzi si dilettino i Landriano, gli Ardizzò, le De
Gennaro e tutta questa brava gente.
— Eh, davvero, voi siete una grande vittima, povero Germano! — fece la
zia sogguardandomi sopra gli occhiali.
— Non voglio notare la sua ironia. L’incidente mi creda, si è svolto
così...
E narrai un comunissimo bisticcio, provocato da una freddura
dell’Albanese. Durante il mio racconto la zia gonfiava la sua faccia
pingue, talora sorridendo e talvolta volendo interrompere, Edoarda mi
ascoltava senza batter palpebra, con il volto chino, facendo uno sforzo
per reprimere il suo dolore.
Quand’ebbi finito, la zia si dimenò più volte nella poltrona con una
specie di furor contenuto, e, molto accesa nel volto, squadrandomi di
traverso:
— Bene, bene, — concluse: — a me sembra semplicemente, che, in date
condizioni, un gentiluomo non dovrebbe dimenticare...
— Zia... — profferì Edoarda con voce angosciata, intercedendo per me.
— Tu sei una sciocca, Edoarda! — rispose la zia, eccitandosi. — Dovrò
pure parlar io, visto che tu taci.
— Zia, ti prego! — supplicò di nuovo Edoarda con le lacrime agli occhi.
— Ebbene, sia! Non parliamone più. Cercate, se vi riesce, di sbrigarvela
a modo vostro; io, dopo tutto, non c’entro.
E riprese le sue cuffie di lana, borbottando a voce bassa, e tratto
tratto inforcandosi meglio sul naso gli occhiali visibilmente appannati.
— Ho già troppi malanni addosso e non voglio farmi cattivo sangue per
voi. Ma tu sei una sciocca, povera Edoarda! Ohè, Whisky, lascia dunque
il mio gomitolo! Whisky, qui!
Nel frattempo io camminavo a passi concitati per la sala, mostrando il
mio malanimo, e credendo che la migliore saggezza fosse il tacere.
Whisky, lasciato il gomitolo, mi saltellava dietro le calcagna,
esortandomi a giocare con lui.
Finalmente il domestico annunziò la colazione, dove la vecchia signora
non era mai di cattivo umore, sebbene prima s’inghiottisse tutta una
spezieria di medicine.
Quando fummo seduti a quella tavola, il mio pensiero corse
involontariamente alla piccola sala da pranzo dai tendami di broccato
rosso e dalle grandi scansìe, con l’effige della trisavola campeggiante
su la parete; alla sala dove la sera prima Elena ed io avevamo desinato
fianco a fianco, nella piena solitudine del nostro amore. Un paragone
involontario mi si affacciava nel pensiero tra quella superba immagine
di donna, esprimente in ogni sua forma l’impetuosa gioia di vivere, la
felicità di sentirsi amata, e quella povera faccia, logorata per il
troppo soffrire, in cui vagavano due grandi occhi cerulei con uno
sguardo pieno di smarrimento.
Ero lì, ma l’anima correva lontana. Sognavo; ad occhi aperti sognavo.
... e la risata di Elena empiva la piccola stanza dall’addobbo severo,
che a quella voce limpida pareva risvegliarsi come da un letargo antico
e lasciarsi a poco a poco invadere dalla nostra giocondità. Ridevano
intorno i vetusti arredi, portati lì dal palazzo dei Materdomini, che
avevo dovuto vendere l’anno prima per causa de’ miei dissesti, ad uno
speculatore straniero, e persino rideva dal quadro annerito l’arcigna e
barbuta mia trisavola (Agnese Caterina dei Guelfo di Materdomini), la
quale provocava l’ilarità di Elena, specialmente per la struttura del
suo naso e la lunghezza delle sue dita.
Scintillava nei calici la spuma dello Sciampagna, e l’anima generosa di
quel vino biondo accalorava un poco le guance di Elena, diffondendole
negli occhi un’ombra di soave languore. Ella vi bagnava le labbra,
bevendo a piccoli sorsi, lentamente, come si aspira un profumo. La sua
bocca rossa, quando si staccava dall’orlo del bicchiere, umida per uno
scintillìo di piccole gemme liquide, aveva in sè qualcosa di
estremamente sensuale, come la maturità di un frutto che si fende al
sole.
Non v’erano a guardarci che i fiori nelle coppe di cristallo e gli occhi
scolpiti nei fregi delle grandi scansìe. Veniva su dalla strada un
rumore confuso, traverso i tendami di broccato, e poichè gli usci erano
aperti verso la sala, si vedevano ardere i tizzi di ginepro, talora con
ventate improvvise di scintille che sfavillavano e crepitavano prima di
soffocarsi entro la cenere.
Da lei, dalle sue vesti, si esalava un odore tenuissimo, forse un po’
simile all’eliotropio, quell’odore che reca talvolta il vento della
primavera quando giunge di lontano ed è passato sopra le serre aperte.
Ero ad un’altra tavola, davanti al dolore di un’altra, ma il mio
pensiero infrenabilmente risognava così. E per lei, per lei, per quella
del mio sogno, volevo contendere finalmente a quelle fragili mani la mia
liberazione.
Ma come ardire?
Non ella era venuta verso me con l’anima sul palmo della mano, perchè io
vi spegnessi la mia sete? Io solo avevo dalle sue gote fatta sfiorire la
giovinezza, e nella primavera della sua vita ero passato io solo, ma
come un turbine, come una devastazione.
Quale diritto potevo dunque invocare a difesa di me stesso, per quanto
nessuna legge vi sia contro il delitto che uccide un’anima?
E d’altronde perchè io, come essere umano, avrei dovuto sacrificarmi a
lei, nell’ora in cui sentivo di potermi scagliare con l’impeto più
giovanile della mia forza verso i miracoli d’una vita nuova? Condurre la
mia libertà sfrenata sotto le placide ali del suo dominio e dirle:
«Ecco: incatenami ora, perchè un giorno, per illusione, t’ho amata!»
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