Marocco - 16

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curanti della vita, ci sparpagliammo tra le roccie più basse, e ci
perdemmo di vista. Fatti pochi passi, all'uscita d'una piccola gola, mi
trovai faccia a faccia con un arabo. Mi fermai; si fermò e parve molto
meravigliato di vedermi solo. Era un uomo sui cinquant'anni, d'aspetto
truce, armato d'un grosso bastone. Ebbi un momento il sospetto che mi
volesse accoppare per pigliarmi la borsa; ma con mio gran stupore,
invece di assalirmi, mi salutò, sorrise e accennando il mio mento con
una mano e accarezzando la propria barba coll'altra, disse due o tre
volte non so cosa, che mi parve una domanda, a cui gli premesse d'aver
risposta. Punto dalla curiosità, chiamai l'ufficiale della scorta che sa
qualche parola di spagnuolo, e lo pregai di dirmi che cosa voleva
quell'uomo. Chi l'avrebbe mai potuto immaginare! Per farmi un
complimento, e che altro poteva essere? mi aveva domandato così _ex
abrupto_ perchè non mi lasciassi crescere tutta la barba, che sarebbe
stata più bella della sua! I soldati della scorta ci seguitavano tutti e
tre alla distanza d'una ventina di passi, e siccome ogni tanto noi ci
chiamavamo l'un l'altro ad alta voce, ed era la prima volta che
sentivano i nostri nomi, li trovavano strani, ne ridevano e li
ripetevano tra loro con pronuncia moresca, stroppiandoli nella più
bizzarra maniera:--_Isi! Amigi!_--A un certo punto l'ufficiale disse
bruscamente:--_Scut!_ (Silenzio!) e tutti tacquero. Il sole era alto, la
roccia scottava; anche il capitano, benchè esercitato agli ardori della
Tunisia, sentiva il bisogno dell'ombra; per cui, dato un ultimo sguardo
alle cime dell'Atlante, scendemmo a rotta di collo, e inforcate alla
lesta le nostre selle porporine, ripigliammo la via di Fez, dove si ebbe
un'amena sorpresa. La porta di El-Ghisa per la quale dovevamo rientrare
in città, era chiusa!--Entriamo per un'altra,--disse il Comandante.--Son
tutte chiuse,--rispose l'uffiziale della scorta; e vedendoci stralunar
gli occhi, ci spiegò il mistero, dicendo che ogni giorno di festa (era
venerdì), fra mezzodì e il tocco, che è l'ora della preghiera, si
chiudono tutte le porte di tutte le città, perchè è credenza dei
Mussulmani che sarà in un giorno di festa, e appunto in quell'ora, che,
non si sa in qual anno, i cristiani s'impadroniranno con un colpo di
mano del loro paese. Bisognò dunque aspettare che fosse aperta la
porta. E appena entrammo, ci toccò un complimento fiorito. Una vecchia
ci mostrò il pugno a un per uno borbottando alcune parole. Domandai
all'uffiziale che cosa significavano.--Nulla, nulla,--rispose;--è una
sciocca. Insistetti, assicurandolo che, qualunque cosa avesse detto, non
me ne avrei avuto per male.--Ebbene,--disse allora l'ufficiale
sorridendo;--è un modo di dire del paese: gli ebrei all'uncino, i
cristiani.... allo spiedo.
* * * * *
Il medico ha operato un malato di cateratta, _coram populo_, nel
giardino del palazzo. C'era una folla di parenti, d'amici, di soldati,
di servi, parte disposti in circolo intorno al malato, gli altri in una
lunga fila che dal luogo dell'operazione si stendeva fino alla porta di
strada, dove un'altra folla stava aspettando. Il malato era un vecchio
moro cieco affatto da più di tre anni. Al momento di mettersi sulla
seggiola, si arrestò come impaurito; poi sedette con un movimento
risoluto, e non diede più segno di debolezza. Mentre il medico operava,
tutta quella gente pareva petrificata. I bimbi stavano stretti alle
sottane delle donne e queste abbracciate fra di loro, in atteggiamenti
di terrore, come se assistessero a un esecuzione capitale. Non si
sentiva un respiro. Noi pure, per l'importanza «diplomatica»
dell'operazione, stavamo in grande ansietà.... Tutt'a un tratto il
malato gettò un grido di gioia e cadde in ginocchio. Aveva sentito la
prima impressione della luce. Tutta la gente ch'era nel giardino salutò
il medico con un urlo, a cui rispose un altro urlo della folla radunata
nella strada. I soldati fecero immediatamente uscir tutti, fuor che il
malato, dal recinto del palazzo, e in poche ore si sparse per tutta Fez
la notizia dell'operazione meravigliosa. Fortunato dottore! Egli ne
colse il premio la sera medesima, visitando le più belle donne dell'arem
del gran sceriffo Bacali, che gli si mostrarono col viso scoperto, in
tutta la pompa dei loro vestimenti principeschi, e gli parlarono
languidamente dei propri dolori, fissandogli negli occhi i loro sguardi
infocati. Che può fare di tante donne il vecchio gran sceriffo? Quello
forse che facevano delle proprie i cortigiani mutilati dei Faraoni
d'Egitto, delli Scià di Persia, degl'Imperatori greci di Costantinopoli
e dei Sultani di Stambul. Visitò, fra le altre, una bellissima nera, di
forme matronali, coperta d'anelli, di braccialetti e di collane; la
quale, come quasi tutte le altre, si doleva d'un grande languore. Il
medico la interrogò intorno alle cagioni del suo male.
--Non potresti,--essa gli rispose--suggerirmi la medicina senza farmi
queste domande?
Il medico rispose che le faceva quelle domande per necessità.
--I cristiani,--disse la donna,--sono molto curiosi.
--E quando la loro curiosità non vien soddisfatta,--rispose il
medico,--essi indovinano.
--E che cosa hai indovinato?
Il medico espresse il suo pensiero e la nera si coperse il viso.
Io pure gli domandai che cosa avesse indovinato; ma non rispose altro
che:--Lesbo! Lesbo!
* * * * *
Viene di tratto in tratto qualche spagnuolo rinnegato a cercare il
signor Patxot. Si dice che questi disgraziati siano intorno a trecento
in tutto l'Impero. I più sono spagnuoli, condannati per delitti comuni,
che fuggirono dalle galere della costa; gli altri, in parte disertori
francesi, fuggiti dall'Algeria; in parte canaglia avventuriera venuta da
differenti paesi d'Europa. In altri tempi salivano ad alte cariche nella
corte e nell'esercito, formavano corpi militari speciali ed erano
lautamente pagati. Ma ora le loro condizioni son molto mutate. Appena
giungono, abiurano la religione cristiana e abbracciano l'Islamismo,
senza circoncisione nè altre cerimonie, pronunziando semplicemente una
formula. Nessuno bada poi che adempiano o no i doveri religiosi; i più,
infatti, non metton mai piede nelle moschee e non sanno neppure le
preghiere. Per legarli al paese il Sultano esige che si sposino subito.
Dà a chi la vuole una delle sue nere, gli altri possono sposare una mora
o un'araba libera; a tutti il Sultano fa le spese del matrimonio. Si
debbono tutti arrolare nell'esercito; ma possono esercitare nello stesso
tempo qualche mestiere. La maggior parte appartengono all'artiglieria,
e parecchi alla banda musicale, il cui capo è uno spagnuolo. I soldati
ricevono cinque soldi al giorno e gli ufficiali venticinque o trenta:
chi ha qualche talento speciale può guadagnare fino a due lire. In
questi giorni, per esempio, si parla molto d'un rinnegato tedesco,
dotato d'un certo ingegno meccanico, che s'è fatto una sorte
invidiabile. Costui, non si sa perchè, fuggì nel settantatrè da Algeri,
andò a Tafilet, sul confine del deserto; vi stette due anni, imparò
l'arabo, venne a Fez, s'arrolò, e in alcuni giorni, con pochi strumenti
che aveva portati con sè, costrusse una rivoltella. L'avvenimento fece
chiasso; la rivoltella passò di mano in mano fin che giunse al Ministro
della guerra; il Ministro ne parlò all'Imperatore; l'Imperatore volle
vedere il soldato, l'incoraggiò, gli diede dieci lire ed elevò la sua
paga giornaliera a quaranta soldi. Ma queste fortune son rare. Quasi
tutti vivono miseramente e in un tale stato d'animo, che per quanto si
sappian macchiati di gravi delitti, ispirano piuttosto compassione che
orrore. Ieri se ne presentarono due, rinnegati da parecchi anni, che
hanno moglie e figliuoli nati a Fez. Uno ha circa trent'anni, l'altro
cinquanta; tutt'e due spagnuoli fuggiti da Ceuta. Il giovane non parlò.
L'altro disse d'esser stato condannato ai lavori forzati per aver
ucciso un uomo nell'atto che bastonava a morte suo figlio. Era pallido e
parlava con voce commossa, stropicciando un fazzoletto colle mani
tremanti.--Se mi promettessero di non tenermi più che altri dieci anni
in galera,--diceva,--ci tornerei. Ho cinquant'anni, uscirei a sessanta,
potrei vivere ancora qualche anno nel mio paese. Ma è l'idea di morire
colla divisa del galeotto indosso che mi spaventa. Tornerei in galera a
qualunque patto, purchè fossi sicuro di morire libero in Spagna. Questa
che meniamo qui non è vita. Siamo come in mezzo a un deserto. È una cosa
che sgomenta. Tutti ci disprezzano. La nostra stessa famiglia non è
nostra, perchè i figliuoli non ci amano e sono incitati da tutti ad
odiarci. E poi non si dimentica mai la religione in cui s'è nati, le
chiese dove nostra madre ci condusse a pregare, i suoi consigli, il
tempo più bello della nostra vita... e queste memorie.... siamo
rinnegati, siamo galeotti, è vero; ma infine siam sempre uomini...
queste memorie ci straziano l'anima!--Dicendo questo, piangeva.
* * * * *
La pioggia che vien giù dirottamente da quasi tre giorni, ha ridotta Fez
in uno stato che, a descriverlo, c'è da non esser creduti. Non è più una
città, è un'immensa cloaca. Le strade son gore; i crocicchi, laghi; le
piazze, paludi; la gente a piedi sprofonda nella melma fino a mezzo lo
stinco; le case sono impillaccherate fin sopra le porte; uomini,
cavalli, muli, par che si siano ravvoltolati nel fango, e i cani ne sono
addirittura vestiti in modo che non mostran più un pelo. Non si vede che
pochissima gente, la maggior parte a cavallo; e non un ombrello, ma
neppure alcuno che affretti il passo per non pigliare la pioggia. Fuori
del quartiere dei bazar, tutto è deserto e oscuro che stringe il cuore.
Per tutto acqua che corre, precipita e ringorga, travolgendo ogni sorta
di putridumi, e non una voce, non un rumore umano che rompa la monotonia
di quello strepito assordante. Pare una città abbandonata dagli abitanti
nel momento d'una inondazione. Dopo una passeggiata d'un'ora, son
tornato a casa pieno di malinconia, e ho passato parecchie ore nella mia
stanza, col viso all'inferriata e gli occhi fissi su gli alberi
sgocciolanti del giardino, pensando a un povero corriere che forse in
quei momenti passava a nuoto, a rischio della vita, il Sebù ingrossato,
stringendo fra i denti una borsa di cuoio con dentro una lettera di mia
madre.
* * * * *
Chi dice e chi nega che sia stata fatta in questi giorni un'esecuzione
capitale davanti a una porta di Fez. Nessuna testa però fu vista
spenzolare dalle mura ed io preferisco credere che la notizia sia falsa.
La descrizione, che io lessi, d'una esecuzione capitale fatta a Tangeri
anni sono, mi tolse la barbara curiosità, che mi solleticò qualche
volta, di assistere a uno di questi spettacoli.
L'inglese Drummond Hay, uscendo una mattina da una porta di Tangeri,
vide un drappello di soldati che trascinavano verso il macello degli
ebrei due prigionieri legati per le braccia e per la vita. Uno era un
montanaro del Rif, antico giardiniere d'un europeo domiciliato a
Tangeri; l'altro un bel giovane, d'alta statura, di fisonomia aperta e
simpatica.
L'inglese domandò al capo dei soldati che delitto avessero commesso quei
due disgraziati.
--Il Sultano,--rispose,--che Dio prolunghi i suoi giorni! ha ordinato di
tagliar loro la testa perchè facevano commercio di contrabbando sulla
costa del Rif cogl'infedeli Spagnuoli.
--È un castigo ben severo per una simile colpa,--osservò l'inglese;--e
se il loro supplizio deve servire d'avvertimento e d'esempio, perchè è
stato proibito agli abitanti di Tangeri d'assistervi?
(Le porte della città erano state chiuse. Drummond Hay s'era fatto
aprire dando una mancia a un custode).
--Non ragionate con me, Nazareno!--rispose l'ufficiale;--ho ricevuto un
ordine, debbo ubbidire.
La decapitazione doveva farsi nel macello degli ebrei. Un moro d'aspetto
volgare e perverso, vestito da macellaio, stava là ad aspettare i
condannati. Aveva in mano un piccolo coltello lungo circa sei pollici.
Era il carnefice. Straniero alla città, egli s'era offerto a quell'opera
perchè i macellai maomettani di Tangeri, che sono ordinariamente
incaricati delle esecuzioni capitali, s'erano rifugiati in una moschea.
Nacque un alterco fra i soldati e il carnefice a cagione della
ricompensa promessa a costui per la decapitazione dei due infelici, i
quali, ritti in disparte, eran costretti a sentir disputare sul prezzo
del loro sangue. Il carnefice insisteva, dicendo ch'egli aveva pattuito
venti lire per una sola testa e che glien'erano dovute altre venti per
l'altra. L'ufficiale finì per acconsentire di mala grazia. Allora il
macellaio afferrò il primo condannato, già mezzo morto di terrore, lo
gettò a terra, gli s'inginocchiò sul petto e gli mise il coltello alla
gola. Drummond Hay torse il viso. Gli parve che seguisse una lotta
violenta. Il carnefice gridava:--Datemi un altro coltello; il mio non
taglia!--Il condannato giaceva in terra supino colla gola mezz'aperta,
il petto ansante, tutte le membra contratte. Fu dato un altro coltello
al carnefice e la testa venne spiccata dal busto.
I soldati gridarono con voce fioca:--Dio prolunghi la vita del nostro
signore e padrone!--Ma parecchi di essi parevano istupiditi dal terrore.
Venne innanzi l'altra vittima. Era il giovane bello e simpatico. Il suo
sangue fu argomento d'un altro alterco. L'ufficiale, rinnegando la sua
parola, disse che non avrebbe pagato che venti lire per tutt'e due le
teste. Il carnefice dovette rassegnarsi. Il condannato domandò che gli
fossero sciolte le mani. Sciolto che fu, si tolse la cappa, e porgendola
al soldato che gli aveva tolto la corda, gli disse:--Accettate questo;
ci rivedremo in un mondo migliore!--Gettò il suo turbante a un altro,
che lo aveva guardato con aria di pietà, e dirigendosi a passo fermo
dove era disteso il cadavere insanguinato del compagno, esclamò con voce
chiara e sicura:--Non c'è altro Dio che Dio e Maometto è il[tn356a] suo
profeta!--Voltandosi poi verso il carnefice, si tolse la cintura e
gliela porse dicendo:--Prendete! Ma per l'amor di Dio tagliatemi la
testa più presto di quello che avete fatto al mio fratello.--Si distese
per terra, nel sangue, e il carnefice gli mise il ginocchio sul petto.
--Un contrordine! fermate!--gridò l'inglese.
Un cavaliere s'avanzava a briglia sciolta.
Il carnefice tenne il coltello sospeso.
--Non è che il figliuolo del Governatore,--disse un soldato.--Egli viene
a vedere l'esecuzione[tn356b]. Aspettatelo.
Così era infatti.
Poco dopo le due teste sanguinose pendevano dalle mani dei soldati.
Le porte della città furono aperte e ne uscì una turba di ragazzi che
prese il carnefice a sassate e lo inseguì fino a tre miglia dalla città,
dove cadde svenuto, tutto coperto di ferite. Il giorno dopo si seppe che
era stato ucciso con una fucilata da un parente d'una delle vittime, e
sotterrato nel luogo stesso dov'era caduto. Pare che le Autorità di
Tangeri non giudicassero opportuno di occuparsi di questo fatto,
perchè[tn356c] l'uccisore tornò in città e non fu molestato.
Dopo essere state esposte tre giorni, le teste furono mandate al Sultano
affinchè sua maestà imperiale riconoscesse la sollecitudine colla quale
erano stati eseguiti i suoi ordini.
I soldati che le portavano incontrarono per via il corriere che recava
la grazia, il quale era stato arrestato dalla cresciuta improvvisa d'un
fiume.
* * * * *
Trovo sovente dei negozianti di Fez che son stati in Italia. Ce ne vanno
ogni anno da quaranta a cinquanta, e parecchi hanno agenti mori od arabi
nelle nostre città principali. Vanno particolarmente nell'alta Italia
dove comprano seta greggia, damaschi, coralli, velluti, refe,
porcellane, perle, conterie di Venezia, carte da giuoco di Genova e
mussolina di Livorno. Di proprio non ci portano che cera e lana, poichè
l'industria marocchina è molto ristretta, e si può dir che le stoffe, le
armi, le pelli e il vasellame sono i soli prodotti che chiamino
l'attenzione d'un Europeo. Le stoffe si fanno principalmente in Fez e in
Marocco. Sono caic per donne, turbanti signorili, ciarpe, _foulards_,
tessuti sottilissimi di seta frammisti d'oro e d'argento, per lo più a
righe diritte e parallele, bianchi o di colori gentili ed armonici,
bellissimi a primo aspetto, ma disuguali, se si guardano bene, e
ingommati, e poco resistenti. Forti, invece, e finissime le berrettine
di lana rossa, che prendono il nome dalla città di Fez, e ammirabili per
solidità e graziosa ricchezza di colori i tappeti che si fanno a Rabat,
a Casa Blanca, a Marocco, a Sciadma, a Sciauia. Da Tetuan provengono in
gran parte i fucili damascati, inargentati, intarsiati d'avorio,
tempestati di pietre preziose, di forme eleganti e leggiere; e dalle
città di Mechinez e di Fez, e dalla provincia del Sus le armi bianche,
fra cui son lavorati con grazia ammirabile i pugnali. I cuoi, sorgente
precipua di guadagno per il paese, si preparano abilmente in varie
provincie, e le pelli scarlatte di Fez, le gialle di Marocco, le verdi
di Tafilet sono ancora degne della loro antica reputazione. Di Fez è un
vanto particolare il vasellame di terra smaltata; ma è raro il trovarvi
la nobile purezza delle forme antiche, e il suo principale pregio è la
vivacità dei colori e una certa barbara originalità di disegno, che non
appaga, ma seduce l'occhio. V'è pure, in Fez, un gran numero di
gioiellieri e d'orefici, che fanno cose semplici non prive di buon
gusto; ma poco variate, e in piccolo numero, poichè il rito malekita
proscrive lo sfoggio degli ornamenti preziosi come contrario
all'austerità maomettana. Notevoli, più dei gioielli, i mobili che
vengon da Tetuan: specie di scaffali, attaccapanni, piccole tavole
poligonali per prendere il tè, arcate, arabescate e dipinte di mille
colori; i vassoi di rame, incisi di disegni complicati e ornati di
smalti verdi, rossi ed azzurri; e sopra ogni cosa, i musaici dei
pavimenti e delle pareti, composti con gusto squisito da operai
abilissimi, che formano ad uno ad uno, a colpi di piccozza, le stelle e
i quadrettini innumerevoli, con una precisione meravigliosa. Nessun
dubbio che questo popolo è dotato di mirabili attitudini, e che le
industrie sue piglierebbero un grande incremento, come lo piglierebbe
l'agricoltura, che fu già fiorentissima, se le desse vita il commercio;
ma il commercio è inceppato dalle proibizioni, dalle restrizioni, dai
monopoli, dalle tariffe eccessive, dalle modificazioni continue, dalla
inosservanza dei trattati; e benchè gli Stati d'Europa abbiano molto
ottenuto in questi ultimi anni, esso non è ancora che piccolissima cosa
appetto a ciò che diventerebbe agevolmente, grazie alla ricchezza
naturale e alla posizione geografica del paese, sotto un governo civile.
Il commercio principale, dalla parte d'Europa, è coll'Inghilterra; dopo
la quale vengon la Francia e la Spagna, che danno cereali, metalli,
zucchero, tè, caffè, seta greggia, tessuti di lana e di cotone, e
ricevono lana, pelli, frutti, sanguisughe, gomme, cera e gran parte dei
prodotti dell'Affrica centrale. Il commercio che si fa per Fez, Taza e
Udjda (e non è di piccola importanza, benchè minore assai di quello che
la vicinanza dei due paesi dovrebbe produrre) comprende, oltre i
tappeti, i tessuti, le cinture, i cordoni, e tutti gli oggetti del
vestiario arabo e moresco, braccialetti e anelli da piede d'argento e
d'oro, vasi di Fez, musaici, profumi, incenso, antimonio per gli occhi,
_hennè_ per le unghie e tutte le altre tinture del bel sesso affricano.
Più importante, più antico e più regolare il commercio coll'interno
dell'Affrica, per dove partono ogni anno grandi carovane, portando
stoffe di Fez, panni inglesi, conteria veneziana, corallo d'Italia,
polvere, armi, tabacco, zucchero, specchietti di Germania, pennati
d'Olanda, scatolette del Tirolo, chincaglierie d'Inghilterra e di
Francia, e sale che raccolgono per via nelle oasi del Sahara; e il loro
viaggio è come una fiera ambulante nella quale cambiano le proprie
mercanzie con schiavi neri, polvere d'oro, penne di struzzo, gomma
bianca del Senegal, gioielli d'oro di Nigrizia che vanno poi in Europa e
in Oriente; stoffe nere di cui s'ornano il capo le donne moresche;
bezoaro, che preserva gli arabi dai veleni e dalle malattie; e molte
droghe che, abbandonate dall'Europa, conservano il loro antico valore
nell'Affrica. Qui sta, per l'Europa, l'importanza maggiore del Marocco:
porta principale della Nigrizia; la quale aperta, s'incontreranno il
commercio europeo e il commercio dell'Affrica centrale. Frattanto la
civiltà e la barbarie se ne contendon la soglia.
* * * * *
L'Ambasciatore ha frequenti abboccamenti con Sid-Mussa. Il suo intento
principale è d'ottenere dal governo dei Sceriffi delle concessioni che
agevolerebbero certi commerci fra l'Italia e il Marocco: di più non mi è
lecito dire. Gli abboccamenti durano più di due ore; ma il discorso non
si aggira che brevissimo tempo sulle questioni che ne sono lo scopo,
poichè il ministro, seguendo un uso che par tradizionale nella politica
del governo marocchino, non entra in materia che dopo aver divagato su
mille soggetti estranei, e quando proprio ci è tirato per
forza.--Parliamo ancora un po' di cose divertenti!--dice quasi in tuono
di preghiera. Il tempo, la salute, l'acqua di Fez, le proprietà di certi
tessuti, qualche aneddoto storico, dei proverbi, quanta sia la
popolazione di certi Stati d'Europa: son tutti discorsi più gradevoli
che il parlar d'affari.--Che ne dite di Fez?--domandò un giorno, e
inteso dir ch'era bella:--Ha ancora un altro merito--soggiunse;--quello
di esser pulita.--Un altro giorno domandò quant'era la popolazione del
Marocco. Ma bisogna pure venirci, a parlar d'affari; e allora sono
lunghi giri di parole, esitazioni, reticenze, un dire e non dire, un
mettere innanzi mille dubbi a un consenso già dato dentro al cuore, un
negare fingendo d'accondiscendere, uno sguisciar di mano, un lasciar
cascare continuamente il discorso al momento di stringere il nodo, e poi
quell'eterno spediente:--A domani.--Il dì dopo, ricapitolazione delle
cose dette il dì innanzi, nuovi dubbi, restrizioni, riconoscimento di
equivoci, rammarico di non aver ben inteso e di non essersi fatto bene
intendere, e sudori dell'interprete incaricato di chiarire le cose. E
poi conviene aspettare il ritorno dei corrieri mandati a Tangeri e a
Tafilet ad assumere informazioni; informazioni di poco conto, ma che
servono a rimandare lo scioglimento della quistione a dieci giorni più
tardi. E in fine tre grandi ostacoli ad ogni cosa: il fanatismo del
popolo, l'ostinazione degli ulema, la necessità di procedere cautamente,
senza scosse, senza farsi scorgere, con una lentezza che abbia apparenza
d'immobilità, se non è possibile di retrocessione. Qualche volta, messo
a questi ferri, anche Giobbe direbbe la sua; ma vengon poi le calde
strette di mano, i dolci sorrisi, le dimostrazioni d'una simpatia
irresistibile e d'un affetto che non si spegnerà che colla vita.
L'affare più duro è quello del grosso moro Scellal, e si dice che ne
dipenda la sorte di tutta la sua vita: perciò egli è nel palazzo a
tutte le ore, ravvolto nel suo ampio caic, inquieto, pensieroso, qualche
volta colle lagrime agli occhi, e tien sempre fisso sull'Ambasciatore
uno sguardo supplichevole, che par quello d'un condannato a morte che
domandi la grazia. Mohammed Ducali, invece, che ha il vento in poppa, è
tutto festante, fuma, si profuma, cambia ogni giorno di caffettano e
spande da ogni parte vezzi, parole soavi e sorrisi. Eh! se non ci fosse
di mezzo la sudditanza italiana, come quei sorrisi si cangierebbero
presto in lacrime di sangue!
* * * * *
Esperimentiamo in questi giorni la verità di quello che ci fu detto a
Tangeri circa agli effetti dell'aria di Fez. Ma son poi effetti
dell'aria o dell'acqua? o dell'olio scellerato? o del burro infame? o di
tutte queste cose insieme? Comunque sia, è un fatto che stiamo tutti
male. È languidezza, disappetenza, prostrazione di forze, pesantezza del
capo, e quel ch'è più grave, un'abitudine, contratta da tutti, di
attraversare di tratto in tratto il cortile rapidissimamente, senza
voltarsi indietro, come se fossimo inseguiti. Strana debolezza! E a
tutti questi malanni s'aggiunge un tedio, un fastidio d'ogni cosa, una
tetraggine, che da qualche giorno ha fatto mutar faccia alla casa. Tutti
desiderano il ritorno. Siamo giunti a quel punto inevitabile di tutti i
viaggi, in cui tutt'a un tratto la curiosità si smorza, ogni cosa si
scolora, le memorie della patria rincalzano in folla; tutti i desiderii,
soffocati nei primi giorni, si risollevano in tumulto; e da qualunque
parte si rivolga lo sguardo, si vede la nostra porta di casa. Siamo sazi
di turbanti, di faccie nere, di moschee; stanchi d'aver mille occhi
addosso, annoiati di questa immensa mascherata bianca a cui assistiamo
da due mesi. Quanto si darebbe soltanto per veder passare, foss'anche di
lontano, una signora europea! per sentire il suono d'una campana! per
vedere sopra il muro d'una casa un manifesto del teatro delle
marionette! Oh dolcissime memorie!
* * * * *
Ho scoperto che fra i soldati di guardia al palazzo ve n'è uno a cui
manca l'orecchio destro, e mi fu detto che gli fu tagliato legalmente,
in presenza di testimoni, da un altro soldato al quale egli aveva
mozzato l'orecchio medesimo qualche tempo prima. Tale è la legge del
taglione che vige nel Marocco. Non solo un parente qualunque d'una
persona uccisa ha il diritto d'ammazzar l'uccisore lo stesso giorno
della settimana, alla stess'ora e nel luogo stesso dove cadde la
vittima, ferendolo colla medesima arma nella medesima parte del corpo;
ma chiunque venga privato d'un membro qualsiasi, ha diritto di privare
dello stesso membro il suo feritore. Un fatto di questa natura,
accompagnato da circostanze singolarissime, è accaduto, anni sono, a
Mogador, e ce lo raccontò un impiegato del Consolato francese, che
conobbe, a quanto pare, una delle due vittime. Un negoziante inglese di
Mogador rientrava in città la sera d'un giorno di mercato, nel momento
in cui la porta era ingombra da una folla di campagnuoli che conducevano
asini e cammelli. Quantunque gridasse a squarcia gola:--_bal ak! bal
ak!_ (largo! largo!), una vecchia mora fu urtata dal suo cavallo,
stramazzò e picchiò il viso contro un sasso. Disgrazia volle che in quel
picchio gli si rompessero gli ultimi due denti anteriori. Rimase un
momento sbalordita; poi si rialzò rabbiosa e convulsa, e prorompendo in
ingiurie e in maledizioni feroci, dopo aver seguitato l'inglese fino a
casa, andò a domandare al Caid, in virtù della legge del taglione, che
facesse rompere due denti al nazareno. Il Caid cercò di pacificarla e la
consigliò a perdonare; ma non venendo a capo di nulla, la congedò
promettendo di farle render giustizia, colla speranza che si sarebbe
calmata a poco a poco e avrebbe desistito dal suo proposito. Ma passati
tre giorni, la vecchia si ripresenta più inferocita che mai, chiede
giustizia, vuole che si pronunzi una sentenza formale contro il
cristiano.--Ricordati,--dice al Caid,--che me l'hai promesso!--E
che!--risponde il Caid;--mi pigli tu forse per un cristiano che mi credi
schiavo della mia parola?--Ogni giorno, per un mese, la mora assetata di
vendetta si presenta alla porta della cittadella, e tanto grida,
strepita e impreca, che il Caid, per liberarsene, si trova costretto ad
esaudirla. Chiama il negoziante, gli espone la querela della vittima, il
diritto che le dà la legge, il dovere che impone a lui la promessa, e lo
prega, per finirla di lasciarsi levare due denti, due qualunque,
benchè, in giusta regola, debbano essere due denti incisivi. L'inglese
si rifiuta per gl'incisivi, pei canini e pei molari; e il Caid è
costretto a rimandare definitivamente la vecchia, ordinando alle guardie
di non lasciarle più metter piede nella Casba.--Sta bene;--dice
essa;--poichè qua non vi son più che mussulmani degenerati, poichè si
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