Marocco - 12

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cuore!


FEZ

Non abbiamo ancora fatto mezzo miglio verso la città, che siamo già
circondati da una folla d'arabi e di mori accorsi da Fez e dalla
campagna, parte a piedi, parte a cavallo a mule ed a asini, a due a due
per cavalcatura, come gli antichi Numidi, smaniosi a tal segno di
vederci che i soldati della scorta, perchè non ci si stringano addosso,
sono costretti a spazzare la strada a colpi di calcio di fucile. Il
terreno essendo basso, la città di Fez, della quale si vedevano le mura
merlate dall'accampamento, ci rimane per un buon pezzo nascosta. Poi,
tutt'a un tratto, riapparisce e vediamo dinanzi alle mura un immenso
formicolìo bianco e porporino, che pare una miriade di gigli e di rose
che tremolino al vento. La città si nasconde daccapo e daccapo
ricompare, ma questa volta vicinissima, e fra noi e le sue mura, il
popolo, l'esercito, la corte, una pompa, uno splendore, una bizzarria,
una bellezza che in quel punto mi fece cadere di mano le briglie, e in
questo momento la penna.
Una schiera di ufficiali a cavallo ci viene incontro di galoppo, saluta,
si divide in due e s'unisce alla scorta.
Dietro costoro, un grosso stuolo di cavalieri vestiti pomposamente,
montati su cavalli bellissimi, preceduti da un moro di alta statura, col
turbante bianco e il caffettano roseo, s'avanza verso di noi. È il gran
cerimoniere Hadje Mohammed Ben Aissa, cogli ufficiali di corte, che dà
il benvenuto all'Ambasciatore in nome del Sultano, e s'accompagna alla
scorta.
Andiamo innanzi, fra due ali di soldati di fanteria che trattengono a
stento la folla.
Che soldati! Sono vecchi, uomini maturi, e ragazzi di quindici, di
dodici, persino di nove anni, vestiti di rosso scarlatto, colle gambe
nude, colle pantofole gialle, schierati, senz'ordine di statura, sopra
una sola riga, coi comandanti dinanzi. Ci presentano, ognuno a modo suo,
i loro fucili rugginosi, colle baionette scontorte. Chi tiene un piede
innanzi, chi sta a gambe larghe, chi col mento sul petto, chi colla
testa chinata sopra una spalla. Alcuni si son messi la giacchetta rossa
sul capo per ripararsi dal sole. Di tratto in tratto v'è un tamburino,
un trombetta, cinque o sei bandiere le une accanto alle altre, rosse,
gialle, verdi, ranciate, tenute come si tengono le croci nelle
processioni. Non si vede nessuna divisione di squadre o di compagnie.
Paiono soldatini di cartone messi in fila da un ragazzo. Vi son dei
neri, dei mulatti, dei bianchi, faccie d'un colore indefinibile; uomini
di statura ciclopica accanto a bimbi che appena possono reggere il
fucile; vecchi con una lunga barba bianca, curvi, che s'appoggiano col
gomito ai vicini; figure selvaggie che fan l'effetto, con
quell'uniforme, di scimmie vestite ed ammaestrate; tutti ci guardano
cogli occhi attoniti e la bocca aperta e si stendono dinanzi a noi in
due file a perdita d'occhio.
Una seconda folla di cavalieri ci viene incontro, a sinistra. È il
vecchio governatore Gilali Ben Amù, seguito da diciotto
sotto-governatori e dal fiore dell'aristocrazia di Fez, tutti vestiti di
bianco da capo a piedi, come uno stuolo di sacerdoti: visi austeri,
barbe nere, caic di seta, bardature dorate. Salutano, ci girano intorno
e s'uniscono alla scorta e alla Corte.
Andiamo innanzi, sempre in mezzo a due schiere di soldati, dietro ai
quali ondeggia una folla bianca e incappucciata che ci divora cogli
occhi. Son sempre gli stessi soldati, per buona parte ragazzi, col fez,
la giacchetta rossa e le gambe nude. Alcuni hanno i calzoncini turchini,
altri bianchi, altri verdi; molti sono in maniche di camicia; chi tiene
il fucile al piede, chi sulla spalla; chi sta avanti, chi sta indietro.
Gli ufficiali son vestiti a capriccio, da zuavi, da turcos, da spahì,
alla greca, all'albanese, alla turca, con divise gallonate e arabescate
d'oro e d'argento, con sciabole a scimitarra, spade, pugnali ricurvi,
pistoloni, daghe, stivali alla scudiera e stivaletti gialli senza
tallone; alcuni color di porpora da capo a piedi, altri tutti bianchi,
altri tutti verdi che paiono mascherati da diavoli. Di tratto in tratto
si vede fra loro un viso europeo che ci guarda con un'espressione di
simpatia e di tristezza. Si vedono fino a dieci bandiere schierate
insieme. Al nostro passaggio, squillano le trombe. Qualche braccio di
donna s'intromette fra le teste di due soldati e s'agita col pugno
chiuso verso di noi in atto di minaccia. Le mura della città par che
s'allontanino via via che andiamo innanzi, e le due schiere di soldati
si allungano dinanzi a noi come due siepi sterminate di roseti vermigli.
Un'altra folla di cavalieri, più pomposi dei precedenti, ci viene
incontro. È il vecchio ministro della guerra. Sid-Abd-Allà ben-Hamed,
nero, montato sopra un cavallo bianco bardato di color celeste; e con
lui i governatori militari della provincia, il comandante del presidio
di Fez, e un folto stato maggiore di generali coronati di turbanti
bianchi come la neve e vestiti di caffettani di cento colori.
Ci rimettiamo in via. Ormai è più di mezz'ora che camminiamo in mezzo ai
soldati e qualcuno ne ha contati oltre a quattro mila. Da una parte è
schierata la cavalleria; dall'altra un'accozzaglia che non ha più nome;
uomini e ragazzi vestiti di cento uniformi diverse, o piuttosto di
brandelli d'uniformi, metà armati e metà senz'armi, colla cappa, senza
cappa, con un cencio intorno al capo, col capo scoperto, scamiciati;
visi del deserto, del litorale dell'Oceano, delle montagne dell'Atlante,
del Rif, della provincia di Sus; teste rapate e teste ornate di lunghe
treccie; colossi e nani, ceffi di belve e faccie di morti--disotterrati,
larve, fantocci, comparse teatrali, gente razzolata Dio sa dove per far
numero e paura. E dietro costoro, su due grandi rialti di terreno che
sorgono a destra e a sinistra della strada, due turbe innumerevoli di
donne velate, che gridano e gesticolano in atto di meraviglia, di
sdegno, d'allegrezza, sollevando i bambini sopra la testa.
Ci avviciniamo alle mura, in direzione d'una porta monumentale,
coronata di merli. Scoppia il suono d'una banda e nello stesso tempo
tutte le trombe e tutti i tamburi dell'esercito prorompono in un fragore
infernale. Allora si sciolgono gli ordini del ricevimento e tutti ci si
affollano intorno, magistrati, generali, cortigiani, ministri,
ufficiali, schiavi; la nostra scorta è scompigliata, i nostri servi
dispersi e noi stessi separati gli uni dagli altri. È un torrente di
turbanti e di cavalli, che ci avvolge e ci travolge con un impeto
irresistibile; un barbaglio di colori, una fantasmagoria di faccie
strane, un frastuono di voci stridule, una furia, una confusione di
battaglia, uno spettacolo grandioso e selvaggio che innamora e
sbalordisce.
§ § § § §
Passiamo per la gran porta, ci guardiamo intorno credendo di veder le
case della città: siamo ancora in mezzo a mura e a torri merlate; a
sinistra v'è una cuba, colla cupola verde, ombreggiata da due palme;
gente intorno alla cuba, ai piedi delle mura, sulle mura, sulle torri,
da ogni parte. Passiamo sotto un'altra porta, ed entriamo finalmente in
una strada fiancheggiata da case.
§ § § § §
Non ricordo che molto confusamente quello che vidi in quel tragitto,
tanto ero sbalordito dallo spettacolo dell'entrata e intento a salvarmi
la vita, poichè si camminava sui pietroni in mezzo a una calca di
cavalli, e guai a chi avesse fatto un capitombolo. Passammo, mi ricordo,
per parecchie strade strette, deserte, fiancheggiate da case molto alte,
salendo, scendendo, soffocati dal polverìo e assordati dallo scalpitìo
dei cavalli; e dopo una buona mezz'ora di cammino, attraversato un
labirinto di vicoli in salita dove ci toccò passare a uno a uno,
scendemmo dinanzi a una piccola porta, in mezzo a due file di soldati
scarlatti che ci presentarono le armi, ed entrammo in casa nostra.
§ § § § §
Fu una sensazione deliziosa.
Era una casa principesca di puro stile moresco con un piccolo giardino
ombreggiato da filari paralleli d'aranci e di limoni. Dal giardino
s'entrava nel cortiletto interno per una porta bassissima, e un
corridoio appena tanto largo da potervi passare una persona.
Tutt'intorno al cortile s'alzavano dodici pilastri bianchi, congiunti da
altrettanti archi a ferro di cavallo, che sostenevano all'altezza del
primo piano una galleria arcata e munita d'una balaustrata di legno. Il
pavimento del cortile, della galleria e delle stanze era tutto uno
splendido musaico a quadrettini smaltati di vivi colori; gli archi
arabescati e dipinti; la balaustrata lavorata a giorno con una
delicatezza finissima; tutto l'edifizio disegnato con un'armonia e una
grazia degna degli architetti dell'Alhambra. Nel mezzo del cortile v'era
una fontana, e un'altra, a tre getti d'acqua, dentro a un vano del muro
rivestito di musaico a stelle e a rosoni. Dal mezzo d'ogni arco pendeva
una grande lanterna moresca. Un braccio dell'edifizio si stendeva lungo
uno dei lati del giardino, e aveva una graziosissima facciata a tre
archi, pure dipinti e arabescati, dinanzi alla quale zampillava una
terza fontana. V'erano altri piccoli cortili e corridoi e stanzuccie e
gl'innumerevoli recessi di tutte le case orientali. Qualche letto di
ferro senza[tn258] coperte e senza lenzuoli, qualche orologio a pendolo,
uno specchio nel cortile, due seggiole e un tavolino per l'Ambasciatore,
e una mezza dozzina di orciuoli e di catinelle, erano tutta la
suppellettile del palazzo. Nelle stanze principali c'erano tappeti
ricamati d'oro appesi alle pareti e materasse bianche distese sul
pavimento. Non una seggiola, non una tavola, non un comodino. Si dovette
far portare il mobilio dell'accampamento. In compenso per tutto fresco,
per tutto gorgoglío d'acqua, un'ombra, una fragranza, un non so che di
molle e di voluttuoso nelle linee, nei colori, nella luce, nell'aria,
che faceva sorridere e pensare. Tutto l'edifizio era circondato da un
muro altissimo, e intorno al muro si stendeva un labirinto di
stradicciuole deserte.
§ § § § §
Appena fummo nel cortile, cominciò un andirivieni di ministri e d'altri
personaggi, ognuno dei quali fece un quarto d'ora di conversazione
coll'Ambasciatore, palpandosi i piedi. Il ministro delle finanze fu
quello che attirò più di tutti la mia attenzione. Era un moro sulla
cinquantina, di aspetto severo, sbarbato, tutto vestito di bianco, con
un grosso turbante. Più lo guardavo e meno mi potevo persuadere che
quell'uomo avesse qualcosa di comune col Minghetti e col Sella. Un
interprete mi disse che aveva un grande ingegno, e addusse per prova che
essendogli stata portata un giorno una di quelle macchinette che fanno
le operazioni aritmetiche, lui aveva fatte le medesime operazioni in un
tempo eguale e cogli stessi risultati. E bisognava vedere con che
espressione di sacro rispetto, Selam, Alì, Civo, e tutti gli altri servi
arabi guardavano quei personaggi, che dopo il Sultano rappresentavano
per loro il più alto grado di scienza, di potenza e di gloria, a cui si
possa pervenire sulla terra!
§ § § § §
Finite le visite, si pigliò possesso del palazzo. I due pittori, il
medico ed io occupammo le camere che davano sul giardino; gli altri,
quelle del cortile. Interpreti, cuochi, marinai, servi, soldati, tutti
trovarono il loro posticino. In poche ore il palazzo cangiò aspetto.
§ § § § §
Assestata ogni cosa, si pensò a visitare la città.
I primi ad uscire furono l'Ussi e il Biseo; poi il Comandante e il
Capitano; io mi riserbai a veder ogni cosa a mente fresca la mattina
seguente. Uscirono a due a due, circondati, come malfattori, da un
drappello di fantaccini armati di fucili e di bastoni. Stettero fuori
un'ora, che mi parve eterna, e tornarono impolverati e grondanti di
sudore come da un campo di battaglia, esprimendo concitatamente,
prima coi gesti che colle parole, una grandissima meraviglia. Le prime
parole furono--gran città--gran folla--moschee immense--santi
nudi--maledizioni--legnate--cose dell'altro mondo. Ma la più saporita
notizia la diede l'Ussi. In una delle strade più frequentate, malgrado
la sorveglianza dei soldati, una ragazza di quindici anni gli s'era
slanciata alle spalle come una furia e gli aveva assestato tra capo e
collo un vigorosissimo pugno gridando:--Maledetti questi Cristiani! Non
c'è più un angolo del Marocco dove non si vengano a cacciare!
Tali furono le prime accoglienze fatte all'Arte italiana fra le mura di
Fez.
§ § § § §
A notte avanzata, feci un giro per il palazzo. Sui pianerottoli, davanti
alle porte delle camere, nel giardino, per le scale c'erano soldati
accovacciati, ravvolti nelle cappe, che dormivano profondamente. Dinanzi
alla piccola porta del cortile russava all'aria aperta il fedele Hamed
Ben Kasen, disteso sopra una stuoia, colla sciabola al fianco. La luce
velata delle lanterne faceva scintillare i musaici dei pavimenti e dei
muri che parevano tempestati di perle, e dava a tutto l'edifizio
l'apparenza misteriosa e magnifica d'una reggia. Il cielo era tutto
stellato, e un vento leggero faceva stormire gli aranci del giardino. Si
sentiva distintamente, nel silenzio della notte, il rumore del Fiume
delle perle, il gorgoglio delle fontane, il[tn261] tic-tac degli
orologi, e di tratto in tratto le voci acute delle sentinelle, che dalle
varie porte esterne del palazzo si davano l'all'erta cantando delle
preghiere. Che belle ore passai, quella notte, col viso all'inferriata
della finestra su cui batteva la luna, pensando alla grande città
sconosciuta che mi si stendeva dintorno, a casa mia, ai miei amici, alle
belle del Sultano, al mondo di là, a mille cose fantastiche e care!
La mattina uscimmo quattro o cinque insieme, accompagnati da un
interprete, e scortati da dieci soldati di fanteria, uno dei quali aveva
ancora i bottoni coll'effigie della Regina Vittoria, poichè molte di
quelle divise rosse son prese usate a Gibilterra dai soldati
dell'esercito inglese. Due ci si misero davanti, due di dietro, tre a
sinistra e tre a destra; i primi armati di fucili, gli altri di bastoni
e di corde a nodi. Faccie che, quando me ne ricordo, benedico il
bastimento che m'ha riportato in Europa.
L'interprete ci domandò che cosa volevamo vedere.--Tutta Fez!--si
rispose.
Ci dirigemmo prima verso il centro della città.
Qui dovrei proprio dire:--_Chi mi darà la voce e le parole!_ Come
esprimere lo stupore, la meraviglia, la pietà, la tristezza che provai
dinanzi a quel grandioso e lugubre spettacolo? Il primo effetto è quello
d'una immensa città decrepita, che si vada sfacendo lentamente. Case
altissime, le quali paion formate di più case sovrapposte, che si
scompongano; scalcinate, screpolate di cima in fondo, puntellate da ogni
parte, senz'altre aperture che qualche buco in forma di feritoia o di
croce; lunghi tratti di strada fiancheggiati da due muri alti e nudi
come muri di fortezza; strade in salita e in discesa, ingombre di
calcinacci, di pietre e di rottami d'edifizi, che svoltano di trenta in
trenta passi; ad ogni tratto un lungo passaggio coperto, buio come un
andito sotterraneo, dove bisogna camminare a tentoni; vicoli senza
uscita, recessi, antri, meandri umidi e sinistri, sparsi di ossami,
d'animali morti e di strame imputridito; tutto ciò rischiarato da una
luce crepuscolare che mette malinconia. In alcuni punti il terreno è
così rotto, il polverio così denso, il fetore così acuto, i moscerini
così fitti, che bisogna fermarsi per riprendere lena. In una mezz'ora di
cammino abbiamo fatto tanti giri che, disegnati, formerebbero uno dei
più intricati arabeschi dell'Alhambra. Di tratto in tratto sentiamo il
rumore d'una ruota da mulino, un mormorio d'acqua, lo strepito d'un
telaio, una cantilena di voci nasali, che ci dicon che venga da una
scuola di bambini; ma non si vede nulla da nessuna parte. Ci avviciniamo
al centro della città; la gente spesseggia; gli uomini si fermano per
lasciarci passare, guardandoci con aria attonita; le donne tornano
indietro o si nascondono; i bambini gridano e scappano; i ragazzi
brontolano e ci mostrano i pugni da lontano, tenendo d'occhio il bastone
dei soldati. Vediamo fontane ornate di ricchi musaici, porte arabescate,
qualche cortile ad archi, qualche resto di bella architettura araba
annerito dal tempo. Ogni momento, a cagione dei passaggi coperti, ci
troviamo al buio; poi intravvediamo un po' di luce; poi di nuovo al
buio. Entriamo in una delle strade principali, larga due metri, piena di
gente. Tutti si voltano e ci si serrano intorno. I soldati gridano,
urtano, picchiano per far largo, e infine si debbono contentare di farci
un baluardo coi loro petti, tenendosi per mano gli uni cogli altri, per
non esser divisi dalla folla. Abbiamo mille occhi addosso, ci sentiamo
mancare il respiro, grondiamo di sudore, andiamo innanzi
lentissimamente, fermandoci ogni tanto per lasciar passare un moro a
cavallo, un asino carico di teste di montone sanguinolente, un cammello
che porta una donna velata. A destra e a sinistra ci sono bazar
affollati; cortili d'alberghi ingombri di mercanzie; porte di moschee,
per le quali si vedono lunghissime fughe d'arcate bianche, e gente
prostrata che prega. Per tutta la strada, fin dove arriva lo sguardo,
non si vedono che cappucci, è tutto bianco, e si direbbe che tutti
camminano in punta di piedi. L'aria è impregnata d'un odore acuto
d'aloé, di spezie, d'incenso, di kif; pare di camminare in una immensa
drogheria. Passano frotte di ragazzi colla testa tignosa e piena di
cicatrici; vecchie deformi, senza un capello, col seno ignudo, che
s'aprono il passo a forza imprecando furiosamente contro di noi; pazzi
quasi nudi affatto, incoronati di fiori e di pennacchi, con un ramo
d'albero in mano, che ridono e cantano, o ripetono continuamente la
medesima parola, ballonzolando davanti ai soldati, che li cacciano via a
spintoni. Svoltando in un'altra strada, incontriamo un santo, un vecchio
smisuratamente pingue, nudo dalla testa ai piedi, che si trascina a
fatica tenendo una mano dove i pittori metton la foglia di fico, e
appoggiandosi coll'altra a una lancia fasciata di panno rosso.
Passandoci accanto, ci guarda di sbieco e brontola non so che cosa. Un
po' più oltre, vediamo quattro soldati che trascinano un disgraziato
tutto lacero e sanguinoso,--un ladro colto sul fatto,--e dietro uno
sciame di ragazzi che gridano:--La mano! La mano! Tagliargli la
mano!--In un'altra strada, incontriamo due uomini che portano una
barella scoperta sulla quale è disteso un cadavere, stecchito come una
mummia, ravvolto in un sacco di tela bianca stretto intorno al collo,
alla vita e alle ginocchia. Io mi domando dove sono, se sogno o son
desto, e se la città di Fez e la città di Parigi si trovano veramente
sul medesimo astro! Entriamo nei bazar. Per tutto c'è folla. Le
botteghe, come a Tangeri, sono tane aperte nel muro. I cambisti sono
seduti in terra, con un mucchio di monete nere dinanzi. Attraversiamo,
pigiati dalla folla, il bazar delle stoffe, quello delle pantofole,
quello della terraglia, quello degli ornamenti di metallo, che formano
tutti insieme un labirinto di stradicciuole coperte da un tetto
sfracellato di canne e di rami d'albero. Passiamo per mercati di verzura
affollati di donne che alzano le braccia per maledirci, e usciamo dalla
parte centrale della città. Daccapo salite, discese, giri, rigiri,
vicoli tetri, passaggi tenebrosi, moschee, fontane, porte arcate, rumor
di mulini, cori di voce nasali, donne che si nascondono, un sudiciume
che ammorba e un polverio che leva il fiato. Usciamo finalmente per una
porta delle mura e facciamo un giro intorno alla città. La città si
stende in forma d'un otto immenso fra due colline, sulla cima delle
quali torreggiano le rovine di due antiche fortezze quadrate. Di là
dalle colline c'è una corona di monti. Il Fiume delle perle divide la
città in due, Fez nuova, sulla riva sinistra, Fez antica, sulla destra;
e una cintura di vecchie mura merlate e di grosse torri, di un fosco
color calcare, rotta in più punti, stringe tutt'intorno la parte antica
e la nuova. Dalle alture si domina collo sguardo tutta la città: una
miriade di case bianche coronate di terrazze, al di sopra delle quali
s'alzano bei minareti lavorati a musaico, palme gigantesche, mucchi di
verzura, torricine merlate, cupolette verdi. A primo aspetto, s'indovina
la grandezza della metropoli antica, di cui la città d'oggi non è più
che lo scheletro. In vicinanza delle porte e sopra le alture, per un
grande spazio la campagna è sparsa di monumenti e di rovine: cube, case
di santo, _zauie_, archi d'acquedotti, sepolcri, ruderi enormi, traccie
di fondamenta che paiono i resti d'una città spianata dal cannone e
divorata dalle fiamme. Tra la città e la più alta delle due colline che
la fiancheggiano, è tutto un giardino, un bosco fitto e intricatissimo
di gelsi, d'olivi, di palme, d'alberi fruttiferi e di pioppi smisurati,
vestiti d'edera e di pampini, dove da ogni parte corrono rigagnoli,
zampillano fontane e s'incrociano canali, fra spalliere altissime di
verzura e di fiori. L'altura opposta è coronata di migliaia d'aloè alti
due volte un uomo. Lungo le mura sono grandi scoscendimenti di terreno,
fossi profondi, ricolmi di vegetazione; frammenti immani di bastioni e
di torri franate; un disordine grandioso e severo di rovine e di verde,
che rammenta i tratti più pittoreschi delle mura di Costantinopoli.
Passiamo dinanzi alla porta del Ghisa, alla porta di Ferro, alla Porta
del Padre delle Cuoia, alla porta nuova, alla porta bruciata, alla porta
da aprirsi, alla porta del Leone, alla porta di Sidi Buxida, alla porta
del Padre dell'Utilità, e rientriamo, per la porta della Nicchia del
burro, nella nuova Fez. Qui sono grandi giardini, vasti spazi aperti,
larghe piazze circondate di mura merlate, di là dalle quali si vedono
altre piazze e altre mura, e porte arcate e torri e ponti, e bellissimi
prospetti lontani di colline e di monti. Alcune porte sono altissime e
hanno i battenti rivestiti di lastre di ferro, tempestate di enormi
chiodi. Avvicinandoci al Fiume delle perle, troviamo un cavallo fradicio
steso in mezzo alla strada. Lungo il muro v'è un centinaio d'arabi
lavandai, che saltellano sopra la biancheria ammucchiata sulla sponda.
Incontriamo pattuglie di soldati, personaggi di corte a cavallo, piccole
carovane di cammelli, frotte di donne della campagna, coi bimbi sospesi
alla schiena, che si coprono il viso passandoci accanto. E finalmente
vediamo dei visi che ci sorridono. Entriamo nel Mellà, il quartiere
degli Ebrei. È una vera entrata trionfale. S'affacciano alle terrazze e
alle porte, scendono nella strada, si chiamano l'un l'altro, accorrono
da tutti i vicoli. Gli uomini capelluti e ravvolti nel loro lungo
vestito, col capo coperto d'un fazzoletto annodato sotto il mento, come
le donne, s'inchinano con un sorriso cerimonioso. Le donne,
bianchissime, rotondette, vestite di panni verdi e rossi gallonati e
ricamati d'oro, ci augurano _buenos dias_ e ci dicono mille cose gentili
coi loro smaglianti occhi neri. Alcuni bimbi ci vengono a baciare le
mani. Per sottrarci a quell'ovazione e al sudiciume delle strade,
prendiamo una via traversa e riusciamo in un campo tutto coperto di
grandi sepolcri di muratura, della forma di parallelepipedi, bianchi
come la neve, che ci dicono essere il cimitero israelitico. Di qui
torniamo in città, e dopo un altro miglio di cammino per strade tortuose
e immonde, bruciati dal sole, saettati da mille sguardi, maledetti da
mille bocche, rientriamo finalmente, colla testa in tumulto e le ossa
rotte, nel palazzo dell'Ambasciatore.
§ § § § §
O Fez!--dice uno storico arabo--tutte le beltà della terra sono riunite
in te! E soggiunge che Fez è stata sempre la sede della saggezza, della
scienza, della pace, della religione; la madre e la regina di tutte le
città del Magreb; che i suoi abitanti hanno l'ingegno più fino e più
profondo degli altri abitanti del Marocco; che tutto quello che è in
essa e intorno ad essa è benedetto da Dio; persino l'acqua del Fiume
delle perle, la quale guarisce dal mal della pietra, immorbidisce la
pelle, profuma i panni, distrugge gl'insetti, rende più dolci (se è
bevuta a digiuno) i piaceri dei sensi e contiene pietre preziose
d'inestimabile valore. E non meno poeticamente è raccontata dagli
scrittori arabi la storia della sua fondazione. Quando gli Abassidi,
sul finire dell'ottavo secolo, si divisero in due fazioni, un principe
della fazione vinta, Edris-ebn-Abd-Allà, si rifugiò nel Magreb, poco
lontano dal luogo dove sorse poi la città di Fez; e qui visse nella
solitudine, pregando e meditando, finchè per la sua origine illustre e
per la sua santa vita, avendo acquistato gran fama in mezzo ai Berberi
della contrada, questi lo elessero loro capo. A poco a poco, colle armi
e coll'alta autorità di discendente d'Alì e di Fatima, egli estese la
sua sovranità sopra una gran parte del paese, convertendo forzatamente
all'islamismo idolatri, cristiani ed ebrei; e pervenne a tal grado di
potenza, che il Califfo d'Oriente Arun-er-Rescid, ingelosito, lo fece
avvelenare da un finto medico, per distruggere con lui il suo impero
nascente. Ma i Berberi diedero solenne sepoltura ad Edris e riconobbero
per Califfo un suo figliuolo postumo Edris-ebn-Edris, il quale salì sul
trono a dodici anni, consolidò ed accrebbe l'opera del padre, e si può
dir che sia stato il vero fondatore dell'Impero del Marocco, il quale
rimase fino alla fine del decimo secolo nelle mani della sua dinastia.
Fu questo medesimo Edris che gettò le prime fondamenta di Fez il tre
febbraio dell'anno 808, «in un vallone posto fra due alte montagne
coperte di ricchi boschi e irrigate da mille ruscelli, sulla riva
destra del Fiume delle perle.» La tradizione spiega in vario modo
l'origine di quel nome. Scavando per le fondamenta si sarebbe trovata
nella terra una grande scure (che si chiama in arabo Fez) del peso di
sessanta libbre, e questa avrebbe dato il nome alla città. Lo stesso
Edris, dice un'altra leggenda, lavorava alle fondamenta in mezzo ai suoi
operai, i quali, in segno di gratitudine, gli offrirono una scure d'oro
e d'argento, ed egli volle perpetuare nel nome della nuova città la
memoria di quell'omaggio. Secondo un altro racconto, il segretario
d'Edris avrebbe domandato un giorno al suo Signore qual nome egli
intendesse di porre alla città.--Il nome, rispose il principe, della
prima persona che incontreremo.--Passò un uomo, lo interrogarono,
rispose che si chiamava Farès; ma essendo balbuziente, pronunziò invece
di Farès, Fez, e il principe ritenne questo nome. Altri dice che si
chiamava _Zef_ una grande città posta sul Fiume delle perle, la quale
esistette mille e ottocento anni e fu distrutta prima che l'Islam
risplendesse sulla terra; ed Edris impose alla sua metropoli il nome
rovesciato della città distrutta. Comunque sia, la città nuova
s'accrebbe rapidamente, e già sul principio del decimo secolo
rivaleggiava di splendore con Bagdad; racchiudeva fra le sue mura la
moschea El-Caruin e quella d'Edris, ancora esistenti, una la più vasta
e l'altra la più venerata dell'Affrica; ed era chiamata la Mecca
dell'occidente. Verso la metà del undicesimo secolo Gregorio IX ci
stabiliva un episcopato. Sotto la dinastia degli Almoadi, aveva trenta
sobborghi, ottocento moschee, novantamila case, diecimila botteghe,
ottantasei porte, vasti ospedali, bagni magnifici, una grande biblioteca
ricca di preziosissimi manoscritti greci e latini; scuole di filosofia,
di fisica, d'astronomia e di lingua, a cui accorrevano dotti e letterati
d'ogni parte d'Europa e Levante; si chiamava l'Atene dell'Affrica, ed
era ad un tempo la sede d'una fiera perpetua, dove affluivano i prodotti
dei tre continenti; e il commercio europeo v'aveva i suoi bazar e i suoi
alberghi, e vi prosperavano, tra mori, arabi, berberi, ebrei, neri,
turchi, cristiani e rinnegati, cinquecentomila abitanti. Ed ora quanto
mutata! Quasi tutti i giardini sono scomparsi, la più parte delle
moschee rovinarono, della gran biblioteca non rimane che qualche volume
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