Marocco - 04

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era così giusto, la voce così espressiva, il volto così parlante che un
barlume del senso, in qualche momento, mi traspariva. Mi parve che
raccontasse un lungo viaggio; imitava il passo del cavallo stanco;
accennava a orizzonti immensi; cercava intorno a sè una goccia d'acqua,
lasciava spenzolare le braccia e la testa come un uomo spossato. Poi, a
un tratto, scopriva qualcosa lontano dinanzi a sè, pareva incerto,
credeva e non credeva ai suoi occhi,--ci credeva,--si rianimava,
affrettava il passo, arrivava, ringraziava il cielo e si buttava in
terra tirando un gran respiro e ridendo di piacere all'ombra d'un'oasi
deliziosa che non sperava più di trovare. Gli uditori stavano là
immobili, senza rifiatare, riflettendo coll'espressione del viso tutte
le parole dell'oratore; e così com'erano in quel punto, con tutta
l'anima negli occhi, lasciavano vedere chiaramente l'ingenuità e la
freschezza di sentimento, che celano sotto l'apparenza d'una durezza
selvaggia. Il contastorie andava a destra e a sinistra, s'avventava,
retrocedeva atterrito, si copriva il viso colle mani, alzava le braccia
al cielo, e via via che s'infervorava e levava la voce, i suonatori
soffiavano e picchiavano con maggior furia, gli ascoltatori gli si
stringevano intorno più ansiosi, finchè il racconto finì in un grido
tonante, gli strumenti saltarono per aria e la folla commossa si
disperse per cedere il posto ad un altro uditorio.
Tre suonatori tenevano intorno a sè un altro cerchio più grande di tutti
gli altri. Le figure, i movimenti e la musica di costoro mi fecero una
singolare impressione. Erano tutti e tre strambi, di statura altissima e
curvi dai piedi alla testa come le figurine grottesche che rappresentano
la ci maiuscola nei titoli di certi giornali illustrati. Uno sonava il
piffero, l'altro un tamburello a sonagli, il terzo uno strumento
stravagante, una specie di clarinetto, mi parve, combinato, non so come,
con due corni da caccia divergenti, che mandavano un suono non mai
sentito. Questi tre sonatori, ravvolti in pochi cenci, stavano stretti
l'un all'altro, di fianco, come se fossero legati, e sonando
continuamente e disperatamente il medesimo motivo, l'unico forse che
sonavano da cinquant'anni, facevano il giro dell'arena. Io non so dire
come si movessero. Era un non so che tra l'andatura e il ballo, certi
scatti come della gallina che becca, certi stringimenti di spalle, fatti
da tutti e tre con una simultaneità macchinale, e così lontani da una
qualunque somiglianza coi movimenti nostri, così nuovi, così bizzarri,
che più li osservavo, e più mi davan da pensare, come se esprimessero
una idea, o avessero la loro ragione in qualche proprietà caratteristica
del popolo arabo, e ci penso ancora sovente. Quei disgraziati, grondanti
di sudore, sonavano e ballonzolavano da più di un'ora, con una serietà
inalterabile, e qualche centinaio di persone li stavano a sentire,
pigiate e immobili, col sole negli occhi, senza dar segno nè di piacere
nè di noia.
Il circolo dove si faceva più strepito era quello dei soldati. Erano
dodici, tra giovani e vecchi, alcuni col caffettano bianco, altri colla
sola camicia, questo col fez, quello col cappuccio, armati di fucili a
pietra focaia, lunghi come lancie, nei quali introducevan la polvere
sciolta, come fanno tutti i soldati nel Marocco, dove non s'usano
cartuccie. Un graduato, vecchio, dirigeva lo spettacolo. Si mettevan sei
da una parte e sei dall'altra, di faccia. A un segnale, cangiavano
vicendevolmente di posto, correndo, e appoggiavano un ginocchio a terra.
Allora uno di essi cantava non so che cosa, con un'acutissima voce in
falsetto, tutt'a trilli e a gorgheggi, che durava parecchi minuti,
ascoltato con un silenzio profondo. Poi, a un tratto, balzavano tutti in
piedi, in circolo, e spiccando un altissimo salto, gettando un grido di
gioia, rovesciavano il fucile e sparavano contro terra. Non si può
immaginare la rapidità, la furia, e quello che aveva di pazzamente
festoso e di diabolicamente simpatico quella ridda tonante e
lampeggiante, intraveduta in mezzo a un nuvolo di polvere saettato dal
sole. Fra gli spettatori, a pochi passi da me, v'era un'arabina di dieci
o dodici anni, non ancora velata, uno dei più bei visetti ch'io abbia
visto a Tangeri, d'un bruno pallido delicatissimo, la quale contemplava
coi suoi begli occhioni celesti pieni di stupore uno spettacolo assai
più meraviglioso per lei che la danza dei soldati: quello che le offrivo
io levandomi i guanti; questa seconda pelle delle mani, come dicono i
ragazzi arabi, che i cristiani si mettono e si tolgono a loro piacere,
senza risentirne il menomo dolore.
Esitai se dovessi andare o no a vedere l'incantatore dei serpenti; ma la
curiosità vinse il ribrezzo. Questi così detti incantatori appartengono
alla confraternita degli Aissaua e dicono di ricevere dal loro patrono
Ben-Aïssa il privilegio di poter sfidare senza pericolo la morsicatura
di qualunque animale più velenoso. Molti viaggiatori, infatti, degni di
pienissima fede, assicurano d'aver visto parecchi di costoro farsi
morsicare a sangue, senz'effetto venefico, da serpenti di cui un momento
dopo venne esperimentato il veleno potentissimo sopra altri animali; e
dicono di non essere riusciti a scoprire di che mezzo si valessero quei
destri ciarlatani per rendere innocua la morsicatura. L'Aissaua che io
vidi, dava uno spettacolo orribile, ma incruento. Era un arabo piccolo,
tarchiato, col viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un
re merovingio e vestito d'una specie di camicia azzurrina che gli
scendeva fino ai piedi. Quando m'avvicinai, saltellava grottescamente
intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la
bocca d'un sacco, dov'erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava,
accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva
essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e
gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s'inginocchiò
davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con
molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò
in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in
tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il
collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla
fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio
di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo
strinse sotto un'ascella. L'orribile bestia rizzava la testa
schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi
movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l'espressione d'una
vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia
che gli fremeva nel corpo; ma non m'accorsi che mordesse mai la mano in
cui era imprigionato. Quando fu stanco di quel lavoro, l'Aissaua strinse
il serpente per la nuca, gli aggiustò un piccolo ferro nella bocca in
modo da fargliela rimanere aperta, e lo mostrò così agli spettatori più
vicini, perchè osservassero i denti; osservazione affatto superflua, se
pure la sostanza venefica rimaneva, perchè non v'era stata morsicatura.
Dopo ciò afferrò il serpente con due mani, si mise la coda in bocca e
cominciò a menar le mandibole: la bestia si scontorceva furiosamente; io
me n'andai inorridito.
In quel momento comparve nel Soc il nostro Incaricato d'affari. Lo
vide dall'alto della collina il vice-governatore, gli corse incontro,
e lo condusse sotto la sua tenda, dove si radunarono tutti i membri
della futura carovana, io compreso. Allora accorsero suonatori e
soldati, si formò un grandissimo semicerchio di arabi davanti
all'apertura della tenda, gli uomini dinanzi, il sesso gentile, a
gruppi, di dietro; e cominciò un concerto indiavolato di danze, di
canti, di grida, di fucilate, che durò più di un'ora, in mezzo a un
denso nuvolo di fumo, al suono d'una musica spietata, fra gli strilli
entusiastici delle donne e dei bambini, con paterna soddisfazione
del vice-governatore e nostro vivo piacere. Prima che finissero,
l'Incaricato d'affari mise qualchecosa di giallo nelle mani d'un
soldato arabo, perchè lo portasse a chi aveva diretto lo spettacolo. Il
soldato tornò poco dopo e riferì, tradotto in spagnuolo, il curioso
ringraziamento del beneficato:--L'ambasciatore d'Italia ha fatto una
buona azione; Allà benedica tutti i peli della sua barba!
La feste durò fino al tramonto. Strana festa! Tre venditori d'acqua pura
bastavano a soddisfare i bisogni di tutta quella folla immobile per una
mezza giornata sotto i raggi del sole d'Affrica. Un marengo era forse il
massimo del denaro messo in giro da quello straordinario concorso di
gente. I soli piaceri erano vedere ed udire. Non uno scandalo amoroso,
nè un ubbriaco, nè una coltellata! Nulla di comune colle feste popolari
dei paesi civili.
§ § § § §
Oltre a godere di tutti questi spettacoli, facevamo, io e i miei futuri
compagni di viaggio, delle frequenti passeggiate nella campagna di
Tangeri, che non è meno curiosa a vedersi che la città. Intorno alle
mura si stende una cintura di giardini e di orti appartenenti la maggior
parte ai ministri e ai consoli, quasi tutti trasandati; ma coperti d'una
vegetazione meravigliosa. Sono lunghe file di aloè, simili a lancie
gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve,
poichè tale è la forma delle loro foglie; la punta delle quali è usata
dagli arabi, colla fibra della foglia medesima, a cucire le ferite. Sono
fichi d'India, _kermus del Inde_, come si chiamano in lingua moresca,
altissimi, di foglie spesse un pollice, che sporgono sui sentieri fin
quasi a impedire il passo; fichi comuni, all'ombra dei quali si
potrebbero rizzare dieci tende; quercie, acacie, leandri, arbusti d'ogni
forma, che intrecciano i loro rami coi rami degli alberi più alti, e
formano coll'edera, le viti, le canne, le siepi, degli ammassi
inestricabili di verzura, sotto i quali spariscono fossi e sentieri. In
molti luoghi bisogna camminare a tentoni. Si passa da un podere
all'altro a traverso le siepi sforacchiate o sopra le cancellate
abbattute, in mezzo all'erbe e ai fiori che s'alzano fino alla cintura
d'un uomo; e non si vede nessuno. Qualche casetta bianca, mezzo nascosta
fra gli alberi, e qualche pozzo a ruota, dal quale, per mezzo di
canaletti incrociati, si spande l'acqua per le terre, sono le sole cose
che diano indizio di proprietà e di lavoro. Molte volte, se non fosse
stato con me il capitano dello stato maggiore, che è una guida
abilissima, mi sarei smarrito in mezzo a quella vegetazione
scompigliata; e infatti ci occorreva spesso di chiamarci l'un l'altro,
come in un labirinto, per non perderci di vista, e godevamo a tuffarci,
a nuotare in quell'immenso verde, ad aprirci la via colle mani, coi
piedi e colla testa, coll'allegra furia di selvaggi tornati dalla
schiavitù alle loro foreste.
Di là da questa cintura di orti e di giardini, non si trovano più nè
alberi, nè case, nè siepi, nè alcun indizio di divisione della campagna.
Sono colline, vallette verdi e piani ondulati dove pascola qualche raro
armento, di cui non si vede il guardiano, e galoppa qualche cavallo
sciolto. Una volta sola mi ricordo d'aver visto lavorare la terra. Un
arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo,
di forma bizzarra, costrutto forse come s'usavano quattromil'anni fa; il
quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e
d'erbaccie. Qualcuno mi assicurò d'aver visto più d'una volta attaccato
all'aratro un asino e una donna, e questo può dare un'idea dello stato
dell'agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la
terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola
cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l'erba
per i pascoli il terz'anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei
primi due. Malgrado questo, la terra s'impoverisce dopo pochi raccolti,
e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che
abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è
mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre
arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte
la semenza che vi si sparge.
La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l'_Ampelusium_ degli
antichi, che forma l'estremità nord-ovest del continente africano: un
monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e
aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle
quali era consacrata ad Ercole: _specus Herculi sacer_. Sulla sommità di
questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto
con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d'Europa.
Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che
manda il suo all'erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di
lassù l'occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime
acque del Mediterraneo, e l'immenso orizzonte dell'Atlantico, il mare
delle tenebre, _Bar-ed-Dolma_, come lo chiamano gli arabi, che flagella
i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino
al capo d'Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle
montagne di Ceuta, i _septem fratres_ dei Romani; e lontano, vagamente,
lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta
del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato
_Favola vile ai naviganti industri_.
In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più
arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e
qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio
importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di
servi armati, il quale, passando, ci lanciava uno sguardo sprezzante. Le
donne s'imbacuccavano con maggior cura che in città, alcune brontolando,
altre voltandoci bruscamente le spalle. Qualche arabo, invece, ci si
fermava dinanzi, ci guardava fisso, mormorava alcune parole quasi in
tuono di chi domanda un favore e poi tirava innanzi senza voltarsi. Da
principio non capivamo che cosa volessero dire. Ci fu poi spiegato che
ci pregavano di domandare a Dio una grazia per loro. È una superstizione
molto sparsa fra gli arabi che la preghiera dei mussulmani essendo
graditissima a Dio, egli suol tardare lungamente ad accordare le grazie
che gli domandano, per godere più a lungo il piacere di sentirsi
pregare; mentre la preghiera d'un infedele, d'un cane, come un cristiano
od un ebreo, gli è tanto molesta, che per liberarsene, l'esaudisce _ipso
facto_. Le sole faccie amiche che incontrassimo erano i ragazzi ebrei,
che giravano a drappelli, a cavallo agli asini, di collina in collina, e
ci gettavano un allegro: _Buenos dias, caballeros!_ passandoci accanto
di galoppo.
§ § § § §
Malgrado però[tn79] la vita varia e nuova che menavamo a Tangeri, s'era
tutti impazienti di partire, per poter essere di ritorno nel mese di
Giugno, prima dei grandi calori. L'Incaricato d'affari aveva mandato un
corriere a Fez ad annunziare che l'ambasciata era pronta; ma dovevano
passare almeno dieci giorni prima che fosse di ritorno. Notizie private
dicevano che la scorta era in viaggio; altre che non era ancora partita;
eran tutte voci incerte e contraddittorie, come se quella Fez sospirata
non fosse a duecento venti chilometri, ma a duemila miglia dalla costa.
E questo, da un lato, ci piaceva, perchè quella passeggiata di quindici
giorni prendeva così, nella nostra immaginazione, l'apparenza d'un lungo
viaggio, e Fez l'attrattiva d'una città misteriosa. Al quale effetto
servivano pure le strane cose che ci dicevano di quella città, del suo
popolo e dei pericoli del viaggio, coloro che v'erano stati con altre
ambasciate. Ci dicevano che erano stati circondati da migliaia di
cavalieri, i quali li salutavano con una tempesta di fucilate a
bruciapelo, a rischio d'accecarli; che s'erano sentiti fischiar le
palle all'orecchio; che a noi italiani assai più probabilmente sarebbe
toccata nel capo, per sbaglio, qualche oncia di piombo, diretta alla
croce bianca della bandiera, la quale parrebbe agli arabi un insulto a
Maometto. Ci parlavano di scorpioni, di serpenti, di tarantole, di
nuvoli di cavallette, di ragni e di rospi enormi che avremmo trovati per
la strada e sotto le tende. Ci descrivevano con foschi colori l'entrata
delle ambasciate in Fez, in mezzo a un turbinio di cavalli, a un'immensa
folla ostile, per strade coperte, oscure, ingombre di rovine e di
carcasse d'animali. Ci preannunziavano un monte di malanni durante il
soggiorno a Fez: languidezze mortali, dissenterie furiose, reumatismi,
zanzare mostruosamente feroci, appetto alle quali erano una vera
dolcezza quelle dei nostri paesi. E infine la nostalgia; al qual
proposito si parlava d'un giovane pittore di Bruxelles, andato a Fez
coll'ambasciata belga, il quale in capo a una settimana era stato preso
da una così disperata tristezza, che l'ambasciatore aveva dovuto
rimandarlo a Tangeri a marcie forzate, per non vederselo morire sotto
gli occhi. Ed era vero. Ma queste notizie non facevano che accrescere la
nostra impazienza. Ed io mi ricordavo ridendo d'una certa scappata
ironica che m'aveva fatto mia madre, dopo aver tentato inutilmente di
distogliermi dal viaggio al Marocco collo spauracchio delle bestie
feroci:--Oh poi, in fin dei conti, hai ragione: che importa essere
divorati da una pantera? Purchè i giornali lo dicano!
Dopo tutto ciò, è facile immaginare che salto si sia fatto sulle
seggiole il giorno che il signor Salomone Aflalo, secondo dracomanno
della Legazione, si affacciò alla porta della sala da pranzo, e disse
con voce sonora:--È arrivata la scorta da Fez.
Colla scorta erano arrivati i cavalli, i muli, i cammelli, i
palafrenieri, le tende, l'itinerario fissato dal Sultano e l'annunzio
che si poteva partire.
Bisognava però aspettare ancora alcuni giorni per lasciare un po' di
riposo agli uomini e alle bestie.
Le bestie erano state ricoverate alla Casba. Il giorno dopo le andammo a
vedere. Erano quarantacinque cavalli, compresi quelli della scorta; una
ventina di mule da sella e più di cinquanta mule da carico, alle quali
se ne aggiunsero poi molte altre noleggiate a Tangeri; i cavalli piccoli
e di forme svelte, come tutti i cavalli marocchini, e le mule robuste;
le selle e i basti coperti di panno rosso; le staffe formate da una
larga lastra di ferro ripiegata ai due lati, in maniera da sostenere ed
abbracciare tutto il piede e servir insieme di sprone e di difesa.
Queste povere bestie erano quasi tutte accovacciate, sfinite più che
dalle fatiche del viaggio, dall'insufficienza del nutrimento, una parte
del quale, forse, era stata secondo l'uso trasformata in metallo dai
conducenti. V'eran là alcuni soldati della scorta. Si avvicinarono e
cominciarono a parlare, ingegnandosi di farci capire coi gesti che il
viaggio era stato faticoso, che avevano patito un gran caldo e una gran
sete, ma che grazie ad Allà erano arrivati sani e salvi. Ve n'erano dei
neri e dei mulatti, tutti ravvolti nella cappa bianca, uomini alti ed
ossuti, faccie ardite, denti ferini, occhiacci che facevano quasi
pensare che non sarebbe stata superflua una seconda scorta, schierata
fra noi e loro, per tutti i casi possibili. Mentre i miei compagni
gesticolavano, io cercai fra le mule quella che aveva negli occhi una
più dolce espressione di generosità e di mansuetudine; era una mula
bianca colla groppa rabescata; decisi di affidare ad essa la mia vita, e
d'allora fino al ritorno, rimasero legate a quella sella tutte le
speranze della letteratura italiana nel Marocco.
Di là andammo al _Soc di barra_, dov'erano state piantate le tende
principali. Fu un gran piacere per noi il vedere quelle casette di tela
dove dovevamo dormire trenta notti in mezzo a solitudini sconosciute, e
vedere e sentire tante cose mirabili, e preparare chi una carta
geografica, chi una relazione ufficiale, chi un quadro, chi un libro,
formando tutti insieme una piccola Italia pellegrinante a traverso
l'Impero dei Sceriffi! Erano tende di forma cilindro-conica, alcune
grandi tanto da contenere più di venti persone, tutte altissime, di tela
doppia, listate di guernizioni turchine e ornate sulla cima di grosse
palle metalliche. La maggior parte appartenevano al Sultano, e chi sa
quante belle del suo serraglio ci avevan dormito sotto nei viaggi da Fez
a Mechinez e da Mechinez a Marocco! In un angolo dell'accampamento,
v'era un gruppo di soldati della scorta, a piedi, e dinanzi a loro un
personaggio sconosciuto che aspettava il ministro. Era un omo sui
trentacinque anni, di aspetto maestoso, mulatto, corpulento, con un gran
turbante bianco, la cappa turchina, i calzoncini rossi, e una sciabola
col fodero di cuoio e il manico di corno di rinoceronte. Il ministro,
arrivato pochi momenti dopo, ce lo presentò. Era il comandante della
scorta; un generale dell'esercito imperiale, di nome Hamed Ben Kasen
Buhamei, il quale doveva accompagnarci a Fez e riaccompagnarci a
Tangeri, e colla sua testa rispondere al Sultano della sicurezza delle
nostre. Ci strinse la mano con molta grazia e ci fece dire
dall'interprete che sperava si sarebbe fatto un buon viaggio. Il suo
viso e le sue maniere mi rassicurarono completamente riguardo ai denti
e agli occhi dei soldati che avevo visti alla Casba. Non era bello; ma
il suo volto esprimeva un'indole mite e un'intelligenza sveglia. Doveva
saper leggere, scrivere e far di conto, essere insomma uno dei più colti
generali dell'esercito, se il ministero della guerra gli aveva affidata
quella delicata missione. In sua presenza si fece la distribuzione delle
tende. Una fu assegnata alla pittura; della più grande, dopo quella
dell'ambasciatore, pigliammo possesso il comandante di fregata, il
capitano di stato maggiore, il viceconsole ed io, e fin d'allora si
previde che sarebbe stata la tenda più chiassosa del campo. Un'altra,
grandissima, fu scelta per sala da pranzo. Poi si fissarono quelle del
medico, degli interpreti, dei cuochi, dei servi, dei soldati della
Legazione. Il Comandante della scorta e i suoi soldati avevano le loro
tende a parte. Altre tende si sarebbero aggiunte il giorno della
partenza. In somma, c'era da prevedere che sarebbe riuscito un
accampamento bellissimo, e io mi sentivo dentro degli accessi precoci di
furore descrittivo.
§ § § § §
Il giorno dopo l'Incaricato d'affari andò col comandante di fregata e
col capitano a far visita al Rappresentante del governo imperiale,
Sidi-Bargas, che esercita in un certo senso l'ufficio di ministro degli
affari esteri a Tangeri. Io m'aggregai a loro.
Ero curioso di veder da vicino un ministro degli affari esteri, il
quale, se gli stipendi non sono stati accresciuti da vent'anni in qua
(cosa poco probabile), riceve dal governo settantacinque lire al mese,
compreso il fondo per le spese di rappresentanza; lauto stipendio,
nondimeno, appetto a quello dei Governatori, che è solamente di
cinquanta. E non è a dire che questa carica sia una _sine cura_ e vi si
possa sobbarcare il primo venuto. Il famoso sultano Abd-Er-Rahman, per
esempio, che regnò dal 1822 al 1859, non vi seppe trovare altr'uomo
adatto che un Sidi-Mohammed-el-Khatib, negoziante di zucchero e di
caffè, che pure facendo il ministro continuava a trafficare regolarmente
a Tangeri e a Gibilterra. Le istruzioni, infatti, che questo ministro
riceve dal suo governo, benchè sieno molto semplici, sono tali da
mettere nell'imbarazzo anche il più sottile diplomatico europeo. Un
console francese le ha formulate con molta precisione:--a tutte le
domande dei consoli, rispondere con promesse;--di queste promesse
differire fino al più tardi possibile l'adempimento;--guadagnar
tempo;--suscitare difficoltà d'ogni natura ai reclamanti,--fare in modo
che, stanchi di reclamare, desistano;--cedere, se minacciano, il meno
che si può;--se poi il cannone se ne immischia, cedere, ma non prima del
momento supremo. Ma convien dire che dopo la guerra di Spagna, e
particolarmente sotto il regno di Mulei-el-Hassen, le cose son molto
cangiate.
Salimmo alla Casba, dov'è la casa del ministro. Una schiera di soldati
faceva ala davanti alla porta. Si attraversò un giardino, e s'entrò in
una sala spaziosa, dove vennero incontro all'Incaricato d'affari il
ministro degli esteri e il governatore di Tangeri.
In fondo alla sala v'era un alcova con un sofà e alcune seggiole; in un
angolo un letto modestissimo; sotto il letto, un servizio da caffè; le
pareti bianche e nude; il pavimento coperto di stuoie.
Sedemmo nell'alcova.
I due personaggi che ci stavano davanti formavano tra loro un contrasto
ammirabile. L'uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel vecchio, colla
barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d'una vivacità
indescrivibile e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere
due file di grossi denti bianchi come l'avorio; un viso che rivelava a
primo aspetto l'astuzia finissima e l'indole meravigliosamente
pieghevole richiesta dalla natura del suo ministero. Gli occhiali, la
tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano, gli
davan quasi l'aria d'un diplomatico europeo. Si vedeva l'uomo avvezzo a
trattare con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a
molti pregiudizii del suo popolo, un mussulmano di manica larga, un moro
inverniciato di civiltà. L'altro, il Caid Misfiui, pareva l'incarnazione
del Marocco. Era un omo d'una cinquantina d'anni, di color bronzino, di
barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia che pareva non avesse
mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le sopracciglia
corrugate; si sarebbe detto che gl'ispiravamo un profondo senso di
ripugnanza. Io lo guardavo di sott'occhio, con diffidenza. Mi pareva che
quell'uomo non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una
testa ai suoi piedi. Tutti e due avevano in capo un gran turbante di
mussolina ed erano ravvolti dalla testa ai piedi in un caïc trasparente.
L'incaricato d'affari presentò a questi due personaggi, per mezzo
dell'interprete, il Comandante di fregata e il capitano. Eran due
ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me,
invece, bisognava spiegare presso a poco che specie di mestiere facessi.
L'Incaricato d'affari lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas
stette un po' pensando e poi disse alcune parole all'interprete il quale
tradusse:
--Sua Eccellenza domanda perchè avendo codesta abilità nella mano,
Vostra Signoria la porta coperta. Vostra Signoria dovrebbe levarsi il
guanto perchè si potesse vedere la mano.
Il complimento era così nuovo per me che non trovai subito una risposta.
--Non è necessario,--osservò l'Incaricato d'affari,--perchè la facoltà
risiede nella mente e non nella mano.
Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s'attacca a una
metafora, non la lascia così facilmente.
--È vero, fece rispondere sua Eccellenza,--ma la mano essendo lo
strumento è anche il simbolo della facoltà della mente.
La discussione si prolungò per qualche altro minuto.
--È un dono d'Allà--conchiuse finalmente Sidi-Bargas.
--Avaro Allà! dissi in cuor mio.
La conversazione durò un pezzo e s'aggirò quasi sempre intorno al
viaggio. Fu una lunga citazione di nomi di governatori, di provincie, di
fiumi, di valli, di monti, di pianure, che avremmo trovato sul nostro
cammino; nomi che mi suonavano all'orecchio come altrettante promesse di
avvenimenti meravigliosi, e mettevano in gran moto la mia immaginazione.
Che cos'era la Montagna rossa? Che avremmo veduto sulle sponde del
Fiume delle Perle? Che omo doveva essere un governatore chiamato Figlio
della cavalla? Il nostro Incaricato fece varie domande riguardo alle
distanze, all'acqua, all'ombra. Sidi-Bargas aveva tutto sulla punta
delle dita, e da questo lato bisogna riconoscere ch'era molto al di
sopra di Visconti Venosta, il quale non sarebbe certo in grado di dire a
un ambasciatore straniero quante sorgenti d'acqua pura e quanti gruppi
d'alberi si trovano sulla strada da Napoli a Roma. Augurò infine un buon
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