Marocco - 13

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tarlato, le scuole son morte, il commercio languisce, gli edifici si
sfasciano, e la popolazione è ridotta a meno assai della quinta parte
dell'antica. Fez non è più che una enorme carcassa di metropoli
abbandonata in mezzo all'immenso cimitero del Marocco.
§ § § § §
La nostra maggiore curiosità, dopo la prima passeggiata per Fez, era di
visitare le due famose moschee El-Caruin e Mulei-Edris; ma essendo
vietato ai cristiani di mettervi piede, ci dovemmo contentare del po'
che se ne vede dalle strade: le porte ornate di musaici, i cortili ad
archi, le navate basse e lunghissime, divise da una foresta di colonne e
rischiarate da una luce misteriosa. Non è però da credere che queste
moschee siano oggi quali erano al tempo della loro gran fama, poichè già
nel secolo decimoquinto, il celebre storico Abd-er-Rhaman ebn-Kaldun,
descrivendo quella d'El-Caruin (che Dio la nobiliti di più in più,
com'egli dice), accenna a parecchi ornamenti che non esistevano più ai
suoi tempi. Le prime fondamenta di questa immensa moschea furono gettate
il primo sabato di Ramadan; l'anno 859 di Gesù Cristo, a spese d'una pia
donna del Kairuan. Era da principio una piccola moschea di quattro
navate; ma l'abbellirono e l'ampliarono a poco a poco governatori, emiri
e sultani. Sulla cima del minareto, innalzato dall'Imam Ahmed ben Aby
Beker, brillava una palla d'oro, tempestata di perle e di pietre
preziose, nella quale era confitta la spada d'Edris-ebn-Edris, fondatore
di Fez. Alle pareti interne erano appesi dei talismani che premunivano
la moschea dai nidi dei topi, degli scorpioni e dei serpenti Il
Mirab--la nicchia rivolta verso la Mecca--era così splendido, che
gl'imam dovettero farlo imbiancare perchè non distraesse i fedeli dalla
preghiera. V'era un pulpito d'ebano ornato d'avorio e di gemme. V'erano
duecento settanta colonne che formavano sedici navate di ventun arco
ciascuna, quindici grandi porte d'entrata per gli uomini e due piccole
per le donne, e mille settecento lampade[tn274a] che nella
ventisettesima notte di Ramadan consumavano tre quintali e mezzo d'olio.
Tutti particolari che lo storico Kaldun reca con grandi[tn274b]
esclamazioni di meraviglia e di gioia, soggiungendo che fra le navate,
il cortile, le gallerie, i vestiboli e le soglie delle porte, misurato
lo spazio palmo per palmo, la moschea potea contenere ventiduemila
settecento persone, e che per pavimentare il solo cortile erano stati
impiegati cinquantaduemila mattoni. «Gloria ad Allà, signore dei mondi,
immensamente misericordioso e re del giorno del giudizio finale!».
Aspettando che il Sultano fissasse il giorno per il ricevimento solenne,
si fecero varie passeggiate, in una delle quali ricevetti
«un'impressione» affatto nuova per me. Ci avvicinavamo alla Porta
bruciata, _Beb-el-Maroc_, per rientrare in città, quando il vice-console
uscì in una esclamazione che mi fece rabbrividire:--Due teste!--Alzai
gli occhi al muro, intravvidi due lunghe striscie di sangue rappreso e
non ebbi cuore di guardar più su. Erano due teste, mi dissero, appese
per i capelli al di sopra della porta; una che pareva d'un giovanetto
d'una quindicina d'anni, l'altra d'un uomo tra i venticinque e i trenta:
tutti e due mori. Si seppe in seguito ch'erano state appese nella notte,
e si diceva che fossero due teste di ribelli delle terre confinanti
coll'Algeria, portate a Fez il giorno avanti. Ma il sangue colato faceva
sospettare che fossero state recise nella città medesima e forse davanti
a quella medesima porta. Comunque fosse, ci fu noto in quella occasione
che le teste dei ribelli sono sempre, dalla terra ribellata, portate
alla sede della corte e presentate al Sultano; dopo di che i soldati
imperiali acciuffano il primo ebreo che incontrano, gli fanno cavare
dalle teste il cervello e riempire il vuoto di stoppa e di sale, e le
appendono a una porta della città. Dopo che son state là qualche
giorno--a Fez, per esempio--un corriere se le mette in un canestro e le
porta a Mechinez, dove sono esposte daccapo, e poi ritolte per essere
portate a Rabatt, e via via, di città in città fin che sian putrefatte.
Non sembra però che questo sia accaduto delle due teste di
Beb-el-Maroc, poichè il giorno dopo, non vedendole più, domandammo a un
servo arabo che cosa ne avessero fatto, ed egli rispose con un
gesto:--Sepolte.--Ma s'affrettò a soggiungere, come per consolarci:--Ce
n'è già per strada molte altre.
§ § § § §
Due giorni prima del ricevimento solenne, fummo invitati a colezione da
Sid-Mussa.
Sid-Mussa non ha il titolo nè di gran vizir, nè di ministro, nè di
segretario; si chiama semplicemente Sid-Mussa; è nato schiavo; è un
mancipio del Sultano, che domani può spogliarlo d'ogni suo avere,
cacciarlo in fondo a una prigione o fare appendere il suo capo ai merli
di Fez, senza renderne conto a nessuno; ma è nello stesso tempo il
ministro dei ministri, l'anima del governo, la mente che tutto abbraccia
e tutto move dall'Oceano alla Muluia e dal Mediterraneo al deserto, e
dopo il Sultano il personaggio più famoso dell'Impero. Si può dunque
immaginare la curiosità che ci fremeva dentro, la mattina che,
circondati, come al solito, di gente armata, e accompagnati dal Caid e
dagl'interpreti, ci recammo, con un lungo codazzo di popolo, a casa sua,
che si trova nella nuova Fez.
Fummo ricevuti alla porta da uno stuolo di servi arabi e neri, ed
entrammo in un giardino chiuso da alti muri, in fondo al quale, sotto
un piccolo portico, aspettava Sid-Mussa, circondato dei suoi ufficiali,
tutti vestiti di bianco.
Il famoso ministro porse tutt'e due le mani, con un atto vivace,
all'Ambasciatore, chinò la testa sorridendo verso di noi e ci fece
entrare in una piccola sala a terreno, dove sedemmo.
Che strana figura! Per un pezzo rimanemmo tutti attoniti a guardarlo. È
un uomo sulla sessantina, mulatto, quasi nero, di mezzana statura; ha
una testa grossissima e oblunga, due occhi lampeggianti che lanciano uno
sguardo astutissimo, un gran naso forcuto, una gran bocca, due file di
denti enormi, un mento smisurato; e malgrado questi tratti ferini, un
sorriso affabile, un'espressione benigna e modi e inflessioni di voce
quanto si può dire cortesi. Ma con nessuna gente quanto coi mori, dice
chi li conosce, è facile ingannarsi giudicando l'animo dall'aspetto. Non
nell'animo però, nella testa di quell'uomo io avrei voluto vedere! Non
ci avrei trovato per certo una grande dottrina. Forse non più che
qualche pagina del Corano, qualche periodo della storia dell'Impero,
qualche vaga nozione geografica dei primi stati d'Europa, qualche idea
di astronomia, qualche regola d'aritmetica. Ma in compenso, che profonda
conoscenza del cuore umano, che prontezza di percezione, che
sottigliezza di scaltrimenti, che trama intricata di faccende
lontanissime da ogni nostra consuetudine, quanti curiosi segreti di
reggia, e chi sa che guazzabuglio di rimembranze d'amori, di supplizi,
d'intrighi, di vicende strane e tremende! E c'era fors'anche, sotto quel
bianco turbante, un concetto della civiltà europea e dello stato del
Marocco, non molto diverso dal nostro; tanto che, se avesse potuto
esprimere il suo pensiero, avrebbe esclamato:--Eh! cari signori, ne sono
più persuaso di voi!--ma era un pensiero imprigionato nel turbante. La
stanza, per stanza moresca, era sontuosamente mobiliata, poichè
conteneva un piccolo sofà, un tavolino, uno specchio e parecchie
seggiole. Le pareti erano decorate di tappeti rossi e verdi, il soffitto
dipinto, il pavimento a musaico. Nulla però di straordinario per la casa
d'un ministro ricchissimo come Sid-Mussa.
Scambiati i complimenti d'uso, fummo condotti nella sala della mensa,
ch'era da un altro lato del giardino.
Sid-Mussa, giusta il suo costume, non venne.
La sala della mensa era, come l'altra, decorata di tappeti rossi e
verdi. In un angolo si vedeva un armadio, con su due mazzi di vecchi
fiori finti, coperti da una campanella di vetro; e accanto all'armadio
uno di quei piccoli specchi colla cornice dipinta a fiori, che si
trovano da noi in tutte le locande di villaggio. Sulla tavola, una
ventina di piatti pieni di grossi confetti bianchi, della forma di palle
e di carrube; le posate e le stoviglie bellissime; molte bottiglie
d'acqua; non una goccia di vino. Sedemmo e fummo subito serviti.
Ventotto piatti senza contare i dolci! Ventotto enormi piatti, ognuno
dei quali sarebbe bastato a sfamare venti persone: di tutte le forme, di
tutti gli odori, di tutti i sapori; pezzi smisurati di montone allo
spiedo, polli impomatati, selvaggina alla ceretta, pesci al cosmetico,
fegatini alla stearina, torte all'unto di sego, legumi in salsa di
sugna, ova in conserva di manteca, insalate trite peste impastate e
combinate a musaico; dolci di cui ogni boccone basterebbe a purgare un
uomo d'un delitto di sangue; e con tutte queste ghiottonerie, grandi
bicchieri d'acqua fresca, nei quali spremevamo dei limoni che c'eravamo
portati in tasca; e poi una tazza di tè giulebbato; e infine uno stuolo
di servi che irruppe nella sala, e innondò d'acqua di rosa noi, la
tavola e le pareti: tale fu la colezione di Sid-Mussa.
Quando ci alzammo da tavola, venne un ufficiale ad annunciare
all'Ambasciatore che Sid-Mussa stava dicendo le sue preghiere, e che
appena finito, avrebbe con grandissimo piacere conferito con lui.
Subito dopo comparve un vecchio tutto tremante, sorretto da due mori, il
quale afferrò le mani all'Ambasciatore e gliele strinse furiosamente
dicendo con grande concitazione:--Benvenuto! Benvenuto! Benvenuto
l'Ambasciatore del Re d'Italia! Benvenuto fra noi! Bel giorno per
noi!--Era il gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della
corte e dei più ricchi proprietari dell'Impero, confidente del Sultano,
possessore d'un grande arém, malato da due anni di dispepsia; il quale
rallegra, si dice, gli ozî del suo Signore con motti arguti e
atteggiamenti comici; facoltà che non traspare affatto dal suo viso
truce e dai suoi modi impetuosi. Dopo di lui comparirono i due figliuoli
di Sid-Mussa; uno di cui ho dimenticato affatto la fisonomia, che
disparve dopo i primi saluti; l'altro, un bellissimo giovane di
venticinque anni, segretario intimo del Sultano: un viso di donna con
due grand'occhi castagni d'una dolcezza indescrivibile; allegro,
disinvolto, irrequieto, che stropicciava continuamente, con tutt'e due
le mani, le falde del suo ampio caffettano aranciato.
Usciti il Bacali e l'Ambasciatore, rimanemmo noi con alcuni ufficiali
seduti sul pavimento, e il segretario del Sultano, seduto, in onor
nostro, sopra una seggiola.
Il simpatico giovane intavolò subito la conversazione per mezzo di
Mohammed Ducali.
Fissò gli occhi in viso all'Ussi e domandò sottovoce chi era.
--È il signor Ussi,--rispose il Ducali,--gran maestro di pittura.
--Dipinge colla macchina?--domandò il giovane.
Voleva dire la macchina fotografica.
--No signore;--rispose l'interprete--dipinge a mano.
Parve che dicesse tra sè:--che peccato!--e rimase un momento sopra
pensiero. Poi disse:--Domandavo.... perchè colla macchina si lavora più
preciso.
Il Comandante pregò il Ducali di domandargli in che punto di Fez si
trovasse la fontana chiamata di Ghalù, dal nome d'un ladro che Edriss,
il fondatore della città, fece inchiodare in un albero vicino. Il
giovane segretario si mostrò altamente meravigliato che il Comandante
sapesse questo particolare storico, e gli fece domandare in che maniera
lo aveva saputo.
--L'ho letto nella storia del Kaldun,--rispose il Comandante.
--Nella storia del Kaldun!--esclamò il giovane.--Avete dunque letto la
storia del Kaldun! Vuol dire dunque che sapete l'arabo! E dove avete
trovato quest'istoria?
Il Comandante rispose che quella storia si trovava in tutte le nostre
città, ch'era un libro conosciutissimo in Europa, che l'avevan tradotto
in inglese, in francese e in tedesco.
--Ma davvero!--esclamò l'ingenuo giovane.--Voi tutti l'avete letta! E
sapete queste cose! Io non me lo sarei mai immaginato!
E non finiva di farne le meraviglie.
A poco a poco la conversazione s'infervorò, ci presero parte anche gli
ufficiali, e riuscimmo a sapere varie cose singolari. L'Ambasciatore
inglese aveva regalato al Sultano due macchine telegrafiche, e fatto
insegnare a parecchie persone della corte la maniera di servirsene; e
già se ne servivano, non pubblicamente, perchè nella città, alla vista
di quei fili misteriosi, sarebbe nato un sottosopra; ma nell'interno del
palazzo imperiale; e non è a dire se il grande ritrovato avesse stupito
tutti. Non però fino al punto che noi potremmo supporre, perchè da
quello che ne avevano inteso dir prima, se n'erano fatto tutti, compreso
il Sultano, un concetto assai più meraviglioso; credevano, cioè, che la
trasmissione del pensiero non si facesse già per mezzo della
trasmissione successiva delle lettere e delle parole; ma tutta d'un
colpo, istantaneamente, in modo che bastasse un tocco per esprimere e
trasmettere issofatto qualsivoglia discorso. Riconoscevano, ciò non
ostante, che la macchina era ingegnosa e che poteva riuscir utile,
particolarmente nei nostri paesi, dove essendoci molta gente e molto
traffico, doveva esserci bisogno di far ogni cosa alla spiccia. Il che
significava in altre parole: che cosa faremmo noi del telegrafo? E a che
termini sarebbe ridotta la politica del nostro Governo, se alle domande
dei rappresentanti degli Stati d'Europa si dovesse risponder subito e in
poche parole? e rinunziare a quella gran scusa dei ritardi e a
quell'eterno pretesto delle lettere smarrite, che sono i corrieri,
grazie a cui si può strascicare per due mesi una quistione che potrebbe
esser risolta in due giorni? Si seppe, oltre a questo, o piuttosto si
capì, che il Sultano è un uomo d'indole mite e di cuore gentile, che
vive austeramente, che ama una donna sola, che mangia senza forchetta,
come tutti i suoi sudditi, e seduto in terra, ma coi piatti posti sopra
una piccola tavola dorata, alta un palmo; che prima d'esser Sultano,
correva il _lab el barod_ coi soldati, ed era uno dei più destri; che
ama il lavoro e fa molte volte egli stesso quello che dovrebbero fare i
suoi servi, fino a incassare le proprie robe nelle occasioni di
partenza; e che infine il popolo lo ama, ma anche lo teme, perchè sa di
certo che quando scoppiasse una grande rivolta, egli sarebbe il primo a
saltare a cavallo e a slanciarsi colla spada nel pugno contro i ribelli.
Ma con che garbo dicevan queste cose! Che bei sorrisi e che bei
movimenti! Che peccato non intendere il loro linguaggio tutto figure e
colori, e non poter leggere e frugare a nostro bell'agio dentro
quell'ingenua ignoranza!
Dopo due ore ricomparvero l'Ambasciatore, Sid-Mussa, il gran sceriffo e
tutti gli ufficiali; ci fu uno scambio interminabile di strette di mano,
di sorrisi, d'inchini, di saluti, di cerimonie, che pareva si ballasse
una contraddanza; e finalmente, passando fra due lunghe ali di servi
attoniti, s'uscì. Uscendo, vedemmo all'inferriata d'una grande finestra
a terreno una decina di visi di donne, nere, bianche e mulatte,
indiademate e scarmigliate; le quali, appena apparimmo, scomparvero
facendo un gran rumore di pantofole e di sottane sbattute.
§ § § § §
Fin dal primo giorno del viaggio, il Sultano Mulei-el-Hassen era, come
ognuno può immaginare, l'oggetto principale della nostra curiosità. Fu
dunque una festa per tutti la sera che l'Ambasciatore ci annunziò il
ricevimento solenne per la mattina seguente. In vita mia, non ho mai
levato le pieghe alla giubba, nè fatto scattare la molla del gibus, con
più profonda compiacenza che in quella occasione.
Quella gran curiosità derivava, in parte, dalla storia della sua
dinastia. Si desiderava di vedere un volto di quella terribile famiglia
dei Sceriffi Fileli, a cui gli storici danno il primato del fanatismo,
della ferocia e dei delitti su tutte le dinastie che regnarono nel
Marocco. Sul principio del secolo decimosettimo, alcuni abitanti del
Tafilet, provincia dell'Impero che confina col deserto, dalla quale gli
sceriffi di quella dinastia prendono il nome di Fileli, condussero dalla
Mecca nel loro paese uno sceriffo chiamato Alì, nativo di Iambo, e
discendente di Maometto per Hassen, secondo figliuolo d'Alì e di Fatima.
Il clima della provincia di Tafilet, poco dopo il suo arrivo, riprese
una regolarità che da qualche tempo aveva perduta; i datteri crebbero in
grande abbondanza; il merito ne fu attribuito ad Alì; Alì venne eletto
re, sotto il nome di Mulei-Sceriffo; i suoi discendenti allargarono, a
poco a poco, colle armi, il dominio dell'avo; s'impadronirono di Marocco
e di Fez, scacciarono la dinastia dei sceriffi Saadini, e regnarono,
fino ai nostri giorni, su tutto il paese compreso fra la Muluia, il
deserto ed il mare. Sidi-Mohammed, figlio di Mulei-Sceriffo, regnò con
sapiente clemenza; ma dopo di lui il trono dei Sceriffi s'affondò nel
sangue. El Rescid governa col terrore, ruba l'ufficio al carnefice,
lacera di propria mano le mammelle alle donne perchè rivelino il
nascondiglio dei tesori dei mariti. Mulei Ismaele, il principe
lussurioso, l'amante di ottomila donne e padre di mille duecento figli,
il fondatore del corpo famoso delle guardie nere, il galante sultano che
chiede in isposa a Luigi XIV la figliuola della duchessa La Valliére, fa
appendere diecimila teste ai merli di Marocco e di Fez. Mulei Ahmed el
Dehebi, avaro e crapulone, ruba i gioielli alle donne di suo padre,
s'istupidisce col vino, fa strappare i denti alle sue belle e recidere
il capo a uno schiavo che ha troppo premuto il tabacco nella sua pipa.
Mulei Abd-Allà, vinto dai Berberi, fa sgozzare, per sfogar la sua
rabbia, gli abitanti di Mechinez, aiuta il carnefice a decapitare gli
ufficiali del suo valoroso esercito sconfitto, e inventa l'orribile
supplizio di cucir l'uomo vivo dentro un toro sventrato perchè si
putrefacciano insieme. Appare migliore della propria razza
Sidi-Mohammed, suo figliolo, il quale si circonda di rinnegati
cristiani, cerca la pace e ravvicina il Marocco all'Europa. Poi,
daccapo, Mulei Yezid, violento, crudele e fanatico, che per pagare i
suoi soldati, gli sguinzaglia al saccheggio dei quartieri degli Ebrei in
tutte le città dell'Impero; Mulei Hesciam, che dopo un regno di pochi
giorni, va a morire in un santuario; Mulei Soliman, che distrugge la
pirateria e ostenta amicizia all'Europa, ma con arte astuta segrega il
Marocco da tutti gli Stati civili, e si fa portare ai piedi del trono la
testa degli ebrei rinnegati a cui è sfuggita una parola di rammarico
sulla loro abjura forzata; Abd-er-Rhaman, il vinto d'Isly, che fa
calcinar vivi i congiurati nelle mura di Fez; e infine Sidi-Mohammed, il
vinto di Tetuan, che per inculcare nei suoi popoli il rispetto e la
devozione, fa portare per i _duar_ e per le città le teste dei suoi
nemici confitte nei fucili dei suoi soldati. Nè son queste le maggiori
calamità che affliggono l'Impero sotto la sciagurata dinastia dei
Fileli. Sono guerre colla Spagna, il Portogallo, l'Olanda,
l'Inghilterra, la Francia, i Turchi d'Algeri; insurrezioni feroci di
berberi, spedizioni disastrose nel Sudan, rivolte di tribù fanatiche,
ammutinamenti delle guardie nere, persecuzioni di cristiani; guerre
accanite di successione tra padre e figlio, tra zii e nipoti, tra
fratelli e fratelli; l'Impero a volta a volta smembrato e ricomposto;
Sultani cinque volte scoronati e cinque volte rimessi in trono; vendette
snaturate tra principi consanguinei, gelosie di donne e delitti orrendi,
e miseria immensa, e decadenza precipitosa alla barbarie antica; e in
ogni tempo questo principio trionfante: che non potendo assidersi la
civiltà europea se non sulle rovine di tutto l'edifizio politico e
religioso del Profeta, l'ignoranza è la miglior salvaguardia
dell'Impero, e la barbarie un elemento necessario di vita. Con
quest'aureola storica ci si presentava alla fantasia il giovine Sultano
a cui stavamo per comparire dinanzi.
Alle otto della mattina, l'Ambasciatore, il vice-console, il signor
Morteo, il Comandante e il Capitano, vestiti delle loro splendide
uniformi, erano già radunati nel cortile, in mezzo a una folla di
soldati, fra i quali il caid, tutti in pompa magna. Noi soli, i due
pittori, il medico ed io, tutti e quattro in giubba, gibus e cravatta
bianca, non osavamo uscire dalle stanze, per timore che il nostro
bizzarro vestire, forse non mai visto a Fez prima d'allora, facesse
ridere il pubblico.--Vada prima lei--no, tocca a lei--no, tocca a
loro--; per un quarto d'ora non si fece altro discorso, l'uno cercando
di spinger l'altro fuori della porta. Finalmente, dopo una savia
osservazione del dottore, che disse:--L'unione fa la forza--; uscimmo
tutti e quattro insieme, stretti in un gruppo, col capo basso e il
cappello sugli occhi. La nostra comparsa nel cortile destò una viva
meraviglia fra i soldati, i custodi e i servi del palazzo, alcuni dei
quali si nascosero dietro i pilastri per ridere al sicuro. Ma fu ben
altra cosa per la città. Montammo tutti a cavallo e ci dirigemmo verso
la porta della Nicchia del burro, preceduti da un drappello di
fantaccini dalla divisa rossa, seguiti da tutti i soldati della
legazione, fiancheggiati da ufficiali, interpreti, cerimonieri e
cavalieri della scorta di Ben-Kasen-Buhammei. Era un bellissimo
spettacolo quella mescolanza di cappelli cilindrici e di turbanti
bianchi, di uniformi diplomatiche e di caffettani rosei, di spadine di
gala e di sciaboloni barbareschi, di guanti canarini e di mani nere, di
calzoni dorati e di gambe nude; e lascio considerare che figura ci
facessimo noi quattro, vestiti da ballo, a cavallo a una mula, seduti
sopra una sella rossa alta come un trono, grondanti di sudore e coperti
di polvere appena usciti di casa. Le strade erano piene di gente. Al
nostro apparire tutti si fermavano e facevano ala. Guardavano il
cappello piumato dell'Ambasciatore, i cordoni d'oro del capitano, le
medaglie del Comandante, e non davano alcun segno di meraviglia. Ma
quando passavamo noi quattro, ch'eravamo gli ultimi, era prima uno
stralunamento d'occhi e poi un esilararsi di volti che metteva un vero
dispetto. Accanto a noi cavalcava Mohammed-Ducali: lo pregai di tradurmi
qualcuna delle osservazioni che gli riuscisse di cogliere a volo. Un
moro, in mezzo a un crocchio, disse non so cosa, a cui mi parve che gli
altri assentissero. Il Ducali diede in uno scroscio di risa e mi
notificò che quella brava gente ci credeva esecutori di giustizia.
Alcuni, forse perchè il nero è un colore odiato dai mori, ci guardavano
con un'aria quasi di disprezzo e di sdegno. Altri scrollavano il capo in
segno di commiserazione.--Signori,--disse allora il medico,--se non
sappiamo farci rispettare, è colpa nostra; abbiamo le armi;
serviamocene; io darò per il primo l'esempio.--Così dicendo, si tolse il
gibus, lo schiacciò e passando dinanzi a un gruppo di mori che
sorridevano, lo fece scattare improvvisamente. La meraviglia e il
turbamento di quella gente, alla vista di quello scatto misterioso, non
si può esprimere. Tre o quattro diedero un passo indietro e slanciarono
sul diabolico cappello uno sguardo di profonda diffidenza. I pittori ed
io, incoraggiati[tn290] dall'esempio, lo imitammo, e così a furia di
pugni nel gibus, arrivammo, rispettati e temuti, alle mura delle città.
Fuori della porta della Nicchia del Burro erano schierati sul passaggio
dell'ambasciata duemila soldati di fanteria, in gran parte ragazzi, che
presentarono le armi, a modo loro, gli uni dopo gli altri, e passati
noi, si misero la divisa sulla testa per ripararsi dal sole.
Passammo un piccolo ponte che accavalcia il Fiume delle perle e ci
trovammo nel luogo destinato al ricevimento, dove si discese tutti da
cavallo.
Era una vastissima piazza rettangolare, chiusa su tre lati da alte
muraglie merlate e da grosse torri; sul quarto lato, dal Fiume delle
perle. Nell'angolo più lontano da noi s'apriva una stradicciuola,
fiancheggiata da due muri bianchi, che conduceva ai giardini e alle case
del Sultano, completamente nascoste dai bastioni.
La piazza, quando v'arrivammo, presentava un aspetto ammirabile.
Nel mezzo v'era una folla di generali, di cerimonieri, di magistrati, di
nobili, d'ufficiali, di schiavi, arabi e neri, tutti vestiti di bianco,
divisi in due grandi schiere, l'una di fronte all'altra, alla distanza
d'una trentina di passi.
Dietro una di queste schiere, dalla parte del fiume, erano disposti in
fila tutti i cavalli del Sultano, grandi e bellissimi, bardati di
velluto ricamato d'oro; ciascuno tenuto da un palafreniere armato. A
un'estremità della schiera dei cavalli, c'era una piccola carrozza
dorata, che la regina d'Inghilterra regalò all'Imperatore; il quale la
fa mettere in mostra in tutti i ricevimenti.
Dietro i cavalli, e dietro l'altra schiera dei personaggi della corte,
si stendevano due file lunghissime di guardie dell'Imperatore, vestite
di bianco.
Tutt'intorno alla piazza, ai piedi delle mura e lungo la riva del fiume,
tremila soldati di fanteria che apparivano appena come quattro
lunghissime strisce d'un color rosso fiammante; e sull'altra riva del
fiume, una folla immensa di popolo, tutta bianca.
Nel mezzo della piazza eran schierate le casse contenenti i regali del
Re d'Italia: un Ritratto del re stesso, specchi, quadri di musaico,
candelabri, seggioloni.
Noi ci andammo a mettere vicino alle due schiere dei personaggi, in modo
da formar con esse un quadrato aperto verso il lato della piazza donde
doveva venire il Sultano. Dietro di noi v'eran le casse; dietro le
casse, tutti i soldati dell'ambasciata schierati. Da un lato Mohammed
Ducali, il comandante della scorta, Salomone Aflalo, e i marinai in
uniforme.
Un cerimoniere di faccia arcigna, armato d'un nodoso bastone, ci schierò
su due righe; il Comandante, il capitano e il viceconsole[tn292],
davanti; il medico, i pittori ed io, dietro. L'ambasciatore stette
cinque o sei passi davanti a noi, col signor Morteo, che doveva fare da
interprete.
Tutti e sette, senz'accorgercene, ci avanzammo a poco a poco d'alcuni
passi.
Il cerimoniere ci fece tornare indietro e c'indicò col bastone il punto
preciso dove dovevamo restare.
Quella esigenza ci fece specie, tanto più che ci parve di veder brillare
negli occhi del cerimoniere un risolino astuto. Nello stesso punto
sentimmo un vivace bisbiglio che veniva dall'alto. Guardammo in su, e
vedemmo nei bastioni, a una certa altezza, quattro o cinque finestre,
chiuse da persiane verdi, dietro le quali si muovevano confusamente
molte teste. Erano teste di donna; il bisbiglio veniva di là; le
finestre appartenevano a una specie di loggia, che per un lungo
corridoio comunicava coll'arem del Sultano; e il cerimoniere ci faceva
stare in quel certo punto per ordine del Sultano stesso, al quale le
donne avevano chiesto di poter vedere i cristiani. Che peccato non aver
sentito quello che dicevano dei nostri cappelli a staio e dei nostri
vestiti a coda di rondine!
Il sole era ardentissimo, nella vasta piazza regnava un profondo
silenzio, tutti gli occhi erano rivolti dalla stessa parte. Credo che in
quei momenti ai miei compagni, come a me, batteva il cuore più forte.
Aspettammo circa dieci minuti.
All'improvviso, corse un fremito per tutto l'esercito, s'intese un suono
di banda, le trombe squillarono, i personaggi della corte si curvarono
profondamente, le guardie, i palafrenieri e i soldati misero un
ginocchio in terra, e da tutte le bocche uscì un grido prolungato e
tonante:--Dio protegga il nostro Signore!
Il Sultano s'avanzava verso di noi.
Era a cavallo, seguito da una turba di cortigiani a piedi, uno dei quali
sorreggeva sopra il suo capo un enorme parasole.
Arrivato a pochi passi dall'Ambasciatore, si fermò; una parte del suo
seguito chiuse il quadrato; gli altri gli rimasero intorno.
Il cerimoniere del bastone gridò ad alta voce:--L'Ambasciatore d'Italia!
L'Ambasciatore, accompagnato dall'interprete, col capo scoperto,
s'avvicinò al Sultano.
Questo gli disse in arabo:--Benvenuto! Benvenuto! Benvenuto!--Poi gli
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