Marocco - 19

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Uscendo dalla porta della Nicchia del burro, ebbi un primo saggio delle
manovre dell'artiglieria. Uno stuolo di soldati, vecchi, di mezza età e
ragazzi, tutti vestiti di rosso, correvano dietro a un cannoncino tirato
da una mula. Era uno dei dodici cannoni di campagna che il governo
spagnuolo regalò al Sultano Sid-Mohammed dopo la guerra del 1860. Di
tratto in tratto la mula scivolava o deviava o s'arrestava, e tutta
quella ragazzaglia si metteva a urlare e a picchiare, ballando e
sghignazzando, come se conducesse un carro da carnevale. In un tragitto
di cento passi, si saranno fermati dieci volte. Ogni momento seguiva
un'avaria: ora cadeva il secchiolino, ora lo scovolo, ora non so che
altro; poichè tutto era appeso all'affusto. La mula andava innanzi a zig
zag, a suo capriccio, o piuttosto dove la spingeva il cannone scendendo
impetuosamente dai rialti del terreno; tutti davano ordini, nessuno
obbediva; i grandi scappellottavano i piccoli, i piccoli
scappellottavano i piccolissimi, e questi si scappellottavano fra loro;
e il cannone rimaneva presso a poco allo stesso posto. Era una scena che
avrebbe messo la febbre terzana al generale Lamarmora.
Sulla riva sinistra del Fiume delle perle, v'erano circa due mila
soldati di fanteria, parte sdraiati per terra, parte ritti in crocchi.
Nella piazza, chiusa tra il fiume e le mura, tirava al bersaglio
l'artiglieria; quattro cannoni, dietro ai quali stava un gruppo di
soldati, e ritta in mezzo a loro una figura alta e bianca,--il
Sultano,--di cui però, dal luogo dov'ero, discernevo appena i contorni.
Mi parve che di tratto in tratto parlasse agli artiglieri in atto di dar
consigli. Dalla parte opposta della piazza, vicino al ponte, v'era un
gruppo di mori, d'arabi, di neri, uomini e donne, gente di città e gente
di campagna, signori e pezzenti, tutti stretti in un gruppo, che
aspettavano, mi fu detto, d'esser chiamati ad uno ad uno dinanzi al
Sultano, a cui dovevano chieder favori o giustizia; poichè[tn419] il
Sultano dà udienza tre volte la settimana a chiunque faccia domanda di
parlargli. Parte di quella povera gente era forse venuta da città o da
terre lontane a lagnarsi delle angherie dei governatori o a domandar
grazia per i loro parenti sepolti in un carcere. V'erano donne cenciose
e vecchi cadenti; tutti visi stanchi e tristi, su cui si leggeva il
desiderio impaziente e insieme la paura di dover comparire dinanzi al
Principe dei Credenti, al giudice supremo, che avrebbe in pochi momenti,
con poche parole, deciso forse della sorte di tutta la loro vita. Non mi
parve che avessero nulla nelle mani o ai loro piedi, e per questo credo
che il Sultano regnante abbia tolto l'uso, che c'era altre volte, di
accompagnare ogni domanda con un regalo; il quale non veniva sdegnato,
qualunque fosse, ed era qualche volta un paio di polli o una dozzina
d'ova.
Girai in mezzo ai soldati. I ragazzi erano divisi in gruppi di trenta o
quaranta e si divertivano a inseguirsi o a saltarsi gli uni gli altri,
appoggiandosi le mani sulle spalle. In alcuni gruppi però il
divertimento consisteva in una specie di pantomima, che, appena ne capii
il significato, mi fece rabbrividire. Rappresentavano l'amputazione
delle mani, il taglio della testa col coltello ed altri supplizi ai
quali probabilmente avevano assistito parecchie volte. Un ragazzo faceva
da caid, uno da boia, uno da vittima; questo, quando gli era tagliata la
mano, fingeva di tuffar il moncherino nel catrame; un altro raccoglieva
la mano recisa e la buttava in pasto ai cani; e tutti gli spettatori
ridevano. Le faccie patibolari che avevan la maggior parte di quei
soldatuccoli, non si possono descrivere. Ve n'era di tutte le sfumature
dal nero d'ebano fino al giallo d'arancio, e non uno, neppure fra i più
piccoli, che conservasse l'espressione della ingenuità infantile: avevan
tutti qualchecosa di duro, di sfrontato, di beffardo, di cinico, che
metteva pietà, piuttosto che sdegno. E non c'è bisogno di grande
perspicacia per capire che non potrebb'essere altrimenti. Degli uomini,
la maggior parte sonnecchiavano distesi in terra; altri ballavano alla
negra in mezzo a un circolo di spettatori, facendo ogni sorta di smorfie
e di lazzi; altri tiravano di scherma colle sciabole, nello stesso modo
che i tiratori di Tangeri, saltellando con atteggiamenti da danzatori di
corda. Gli ufficiali, tra cui molti rinnegati, che si riconoscevano al
viso, alla pipa, e a un non so che di ricercato nel vestimento,
passeggiavano in disparte, e quando gl'incontravo, sfuggivano i miei
sguardi. Di là dal ponte, in un luogo appartato, c'era una ventina
d'uomini ravvolti in cappe bianche, distesi in terra gli uni accanto
agli altri, immobili come statue. Mi avvicinai: vidi che avevano le
gambe e le braccia strette da grossissime catene. Erano condannati per
delitti comuni che l'esercito si trascina sempre con sè, per esporli
alla berlina. Al mio avvicinarsi, tutti si voltarono e mi fissarono in
viso uno sguardo che mi fece tornare indietro.
Uscii di mezzo ai soldati e m'andai a riparare all'ombra d'una palma,
sopra un rialto di terreno, di dove si dominava tutto lo spianato.
Ero là da pochi minuti, quando vidi un ufficiale staccarsi da un
crocchio, e venir verso di me lentamente, guardando qua e là e
canterellando, come per non farsi scorgere.
Era un omo piccolo, tarchiato, vestito presso a poco alla zuava, col
fez, senz'armi. Poteva avere una quarantina d'anni.
Quando lo vidi da vicino, provai un senso di ribrezzo. Non ho mai visto
nella gabbia di nessuna corte d'Assisie una faccia più perfida di
quella. Avrei giurato che aveva sulla coscienza almeno dieci omicidii,
accompagnati da insulti al cadavere.
Si fermò a due passi da me, mi fissò con due occhi vitrei e disse
freddamente:
--_Bonjour, monsieur._
Gli domandai s'era francese.
--Sì,--rispose.--Son venuto da Algeri. Son qui da sette anni. Son
capitano nell'esercito del Marocco.
Non potendo fargli i miei complimenti, non risposi.
--_C'est comme ça_,--continuò con un fare spigliato.--Sono andato via da
Algeri perchè non mi ci potevo più vedere. _J'etais obligé de vivre dans
un cercle trop étroit_ (voleva forse dire il capestro). La vita
all'europea non si confaceva alla mia indole. Sentivo bisogno di
cangiar paese.
--Ed ora siete contento? domandai.
--Contentissimo, rispose con affettazione.--Il paese è bello, Mulei el
Hassen è il migliore dei Sultani, il popolo è buono, son capitano, ho
una botteguccia, esercito una piccola industria, vado alla caccia, vado
alla pesca, faccio escursioni sulle montagne, godo della più grande
libertà. Non ritornerei in Europa, vedete, per tutto l'oro del mondo.
--Non desiderate nemmeno di rivedere il vostro paese? Avete dimenticato
affatto anche la Francia?
--M'importa assai della Francia!--rispose.--Per me non esiste più
Francia. La mia patria è il Marocco.
E diede una scrollata di spalle.
Quel cinismo mi rivoltò; non ci potevo quasi credere; mi venne la
curiosità di scrutarlo più addentro.
--Da quando avete lasciato l'Algeria,--gli domandai,--non avete più
avuto notizia degli avvenimenti d'Europa?
--_Pas un mot_,--rispose.--Qui non si sa nulla di nulla, ed io sono
contentissimo di non saper nulla.
--Non sapete dunque che c'è stata una gran guerra tra la Francia e la
Prussia.
Si scosse.
--_Qui a vaincu?_--domandò con una certa vivacità, fissandomi negli
occhi.
--La Prussia,--risposi.
Fece un atto di sorpresa.
Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia,
l'invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie.
Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si
riscosse e disse con un certo sforzo:--_C'est égal... je n'ai plus de
patrie... ça ne me regarde pas..._
E riabbassò la testa.
Io lo osservavo, se n'accorse.
--_Adieu, monsieur_,--disse improvvisamente, con voce alterata, e se
n'andò a passi lesti.
--Tutto non è dunque morto ancora!--pensai, e me ne sentii rallegrato.
Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano
s'era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d'una torre, e i
soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz'armi, alla
distanza di circa venti passi l'un dall'altro. Non essendoci nè accanto
al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i
nomi, come si fa da noi, per accertare l'esistenza di tutti i soldati
segnati nei ruoli (e si dice che nell'esercito marocchino non esiston
ruoli), non capii che scopo potesse avere quella rassegna, fuor che di
ricreare l'Imperatore; e fui tentato di riderne. Ma un secondo pensiero,
il pensiero di ciò che v'era di primitivo e di poetico in quel monarca
affricano, sommo sacerdote e principe assoluto, giovane, semplice,
gentile, che stando tre ore solo all'ombra d'una tenda, si faceva tre
volte la settimana passare dinanzi ad uno ad uno i suoi soldati, e
ascoltava le preghiere e i lamenti dei suoi sudditi sventurati, m'ispirò
invece un sentimento di profondo rispetto. E poichè era quella l'ultima
volta che lo vedevo:--Addio, gli dissi andandomene, con un vivo slancio
di simpatia;--addio, bello e nobile principe!--e quando la sua graziosa
figura bianca scomparve per sempre ai miei occhi, sentii un moto dentro,
come se in quel momento stesso mi si stampasse per sempre nel cuore.
* * * * *
Nove giugno: ultimo del soggiorno dell'Ambasciata italiana in Fez. Tutte
le domande dell'Ambasciatore sono state esaudite, accomodati gli affari
del Ducali e dello Scellal, fatte le visite di congedo, subíto l'ultimo
pranzo di Sid-Mussa, ricevuti i regali d'uso del Sultano: un bel cavallo
nero, con una enorme sella di velluto verde, gallonata d'oro,
all'Ambasciatore; sciabole dorate e damascate ai membri ufficiali
dell'Ambasciata; una mula al secondo dracomanno. Le tende e le casse son
partite stamattina, le stanze son vuote, le mule son pronte, la scorta
ci attende alla porta della Nicchia del burro, i miei compagni
passeggiano nel cortile aspettando l'ora della partenza, ed io seduto
per l'ultima volta sul mio letto imperiale, noto, col quaderno sulle
ginocchia, le mie ultime impressioni di Fez. Quali sono? Che cosa ha
finito per lasciarmi, in fondo all'anima, lo spettacolo di questa città,
di questa gente, di questo stato di cose? Se appena penetro col pensiero
sotto l'impressione gradevole della meraviglia e della curiosità
soddisfatta, trovo una mescolanza di sentimenti diversi, che mi lasciano
l'animo incerto. È un sentimento di pietà che mi desta la decadenza,
l'avvilimento, l'agonia di questo popolo guerriero e cavalleresco, che
lasciò una così luminosa traccia nella storia delle scienze e delle
arti, ed ora non serba nemmen più la coscienza della sua gloria passata.
È un sentimento d'ammirazione per quello che rimane in lui di forte e di
bello, per la maestà virile e graziosa del suo aspetto, del suo vestire,
dei suoi modi, delle sue cerimonie; per tutto ciò che presenta ancora
d'anticamente semplice la sua vita triste e silenziosa. È un sentimento
di sconforto al vedere tanta barbarie a così poca distanza dalla
civiltà, e come in questa civiltà sia così sproporzionata la forza di
innalzarsi a quella di espandersi, se in tanti secoli, pure crescendo
sempre nella sua sede, non riuscì a fare da questa parte duecento miglia
di cammino. È un sentimento di sdegno pensando che al grande interesse
dell'incivilimento di questa parte dell'Affrica, prepongono gli Stati
civili i loro privati e piccoli interessi mercantili, e scemando così
nel concetto di questo popolo, collo spettacolo delle loro meschine
gelosie, l'autorità propria, e quella della civiltà che gli voglion
portare, rendono sempre più lenta e più difficile l'impresa comune.
Infine è un sentimento di piacere vivissimo pensando che in questo paese
mi son formato nella testa un altro mondicino, popolato, animato, pieno
di nuovi personaggi che mi vivranno nella mente per tutta la vita, che
evocherò a mio piacere, e m'intratterrò con essi, e mi parrà di rivivere
in Affrica. Senonchè da questo lieto sentimento ne nasce uno triste, il
sentimento inevitabile che getta un'ombra su tutte le ore serene e una
goccia d'amaro in tutti i piaceri... quello che mi espresse il
negoziante moro per dimostrarmi la vanità di questo grande affaccendarsi
dei popoli civili a studiare, a cercare, a scoprire; e allora questo bel
viaggio non mi par più che il passaggio rapidissimo d'una bella scena in
uno spettacolo d'un'ora, che è la vita; e la matita mi cade di mano e mi
piglia un nero sconforto... Ah! la voce di Selam che mi chiama! Si parte
dunque! Si ritorna alla tenda, alle cariche guerriere, alle grandi
pianure, alla gran luce, all'allegra e sana vita dell'accampamento.
Addio, Fez! Addio, sconforto! Il mio mondicino affricano torna a
illuminarsi di color di rosa.


MECHINEZ

Dopo ventiquattro giorni di vita cittadina, la carovana mi fece
l'impressione viva d'uno spettacolo nuovo. Eppure nulla era mutato,
eccetto che, in mezzo a noi, accanto a Mohammed Ducali, cavalcava il
moro Scellal, il quale, benchè i suoi affari fossero stati accomodati
amichevolmente, credeva più prudente ritornare a Tangeri sotto le ali
dell'Ambasciatore, che rimanere a Fez sotto quelle del suo Governo.
Oltre a ciò, un osservatore acuto avrebbe notato sui nostri visi, se
pessimista, un certo dispetto, se ottimista, una certa serenità, che
derivava dalla coscienza, profonda in tutti, di non aver lasciato nella
illustre capitale dell'Impero nessuna bella malinconica, nessun marito
offeso, nessuna famiglia sconvolta, nemmeno un lembo d'un caic femminino
profanato. A tutti poi brillava sul viso il pensiero del ritorno, per
quel po' che se ne poteva vedere sotto gli ombrelli, i veli, i
fazzoletti, di cui la maggior parte s'erano coperti la testa per
ripararsi dal sole ardentissimo e dal polverio soffocante. Ahimè! Questo
era il gran cangiamento! Il sole di maggio s'era cangiato in sole di
giugno, il termometro segnava quarantadue gradi al momento della
partenza, e dinanzi a noi si stendevano duecento miglia di terra
affricana. Questo pensiero ci amareggiava non poco la soddisfazione di
partire da Fez senza rimorsi.
§ § § § §
Per tornare a Tangeri, dovevamo andare a Mechinez; di qui a Laracce; da
Laracce, lungo la costa dell'oceano, ad Arzilla, e da Arzilla a
Ain-Dalia, dove c'eravamo accampati la prima volta.
§ § § § §
Impiegammo tre giorni per andare a Mechinez che è distante da Fez circa
cinquanta chilometri.
Il paese non ci presentò, per quel tratto, varietà notevoli da quello
che avevamo visto andando a Fez: sempre quei campi d'orzo e di grano, in
molti dei quali si cominciava a mietere; quei duar neri, quei vasti
spazi coperti di lentischi e di palme nane, quelle grandi ondulazioni di
terreno, colline rocciose, piccoli torrenti asciutti, palme solitarie,
_cube_ bianche, una splendida pace e una tristezza infinita. Ma a
cagione della vicinanza delle due grandi città, incontrammo più gente
che non ne avessimo mai incontrata sulla via da Tangeri a Fez: carovane
di cammelli, grandi armenti, negozianti che conducevano al mercato di
Fez stormi di cavalli bellissimi; santi che predicavano al deserto,
corrieri a piedi e a cavallo, gruppi di arabe armate di falce che
andavano alla mietitura, e parecchie ricche famiglie moresche che si
recavano a Fez con tutte le loro masserizie e tutti i loro servi. Una di
queste, la famiglia d'un ricco negoziante di Mechinez, che il Ducali
riconobbe, formava una lunga carovana. Venivano innanzi due servi armati
di fucile; e dietro a loro il capo della famiglia, un bell'uomo
d'aspetto severo, con barba nera e turbante bianco, a cavallo a una mula
elegantemente bardata; il quale con una mano teneva le redini e
tratteneva un bimbo di due o tre anni seduto sul dinanzi della sella;
coll'altra stringeva le mani d'una donna completamente velata,--forse la
sua sposa favorita,--che gli stava alle spalle, a cavalcioni alla mula,
tutta raggomitolata, abbracciandolo sotto le ascelle (forse per paura di
noi) come se lo volesse soffocare. Altre donne, tutte col viso coperto,
a cavallo ad altre mule, venivan dietro al padrone; parenti armati,
ragazzi, serve nere con bimbi in braccio, servi arabi a piedi, con
fucili sulle spalle; mule ed asini carichi di materasse, di guanciali,
di coperte, di piatti, d'involti; e infine altri servi a piedi che
portavano gabbie con dentro canarini e pappagalli. Le donne, passandoci
accanto, si ravvolsero meglio la testa nel caic, il negoziante non ci
guardò, i parenti ci diedero un'occhiata diffidente, e due bambini si
misero a piangere. Da questi spettacoli, però, ci distrasse il terzo
giorno un avvenimento assai triste. Il povero dottore Miguerez, assalito
alla seconda tappa da dolori di sciatica atrocissimi, dovette essere
trasportato a Mechinez sopra una lettiga fabbricata alla meglio con una
branda e due travi di tenda, e appesa alla groppa di due mule; e questo
mise in tutti una profonda tristezza. La carovana si divise in due. Non
si può dire quanto stringesse il cuore il vedere, come vedevamo spesso,
apparire dietro di noi sulla sommità d'un'altura e scendere lentamente
quella lettiga, circondata di soldati a cavallo, di mulattieri, di
servi, d'amici, tutti gravi e silenziosi come un corteo funebre; e di
tratto in tratto fermarsi e chinarsi tutti sull'infermo; e poi
rimettersi in cammino, accennando a noi lontani che il nostro povero
amico peggiorava! Era uno spettacolo doloroso, ma ad un tempo bello e
gentile, che dava a tutta la carovana l'aspetto della scorta afflitta
d'un Sultano ferito.
Il primo giorno ci accampammo ancora nella pianura di Fez; il secondo
sulla riva destra del fiume Mduma, a cinque ore circa da Mechinez. Qui
seguì un caso piacevolissimo. Verso sera andammo tutti sulla riva del
fiume, a un mezzo miglio dall'accampamento, vicino a un gran _duar_, di
cui ci venne incontro tutta la popolazione. Là c'era un ponte di
muratura, di un sol arco, di stile arabo, vecchio, ma, salvo pochi
guasti, ancora intero e saldo; e accanto a questo gli avanzi d'un altro
ponte, parte incastrati nelle rive alte e rocciose, parte ammucchiati in
fondo al letto del fiume. Sulla riva sinistra, a un cinquanta passi dal
ponte, c'era una gran muraglia diroccata, alcune traccie di fondamenta,
qualche macigno, qualche grossa pietra tagliata che pareva avesse
appartenuto ad un edifizio ragguardevole. Tutt'intorno la campagna era
deserta. Erano i resti, si diceva, d'una città araba chiamata Mduma,
fabbricata sulle rovine d'un'altra città, anteriore all'invasione
mussulmana. Perciò ci mettemmo a cercare tra i ruderi se mai rimanesse
qualche indizio di costruzione romana; ma non trovammo o non
riconoscemmo nulla, con manifesta soddisfazione degli arabi, i quali
credevano senza dubbio che cercassimo, sulla fede dei nostri libracci
diabolici, qualche tesoro nascosto là dai _Rumli_ (romani), di cui,
secondo loro, tutti i cristiani sono discendenti diretti. Il capitano di
Boccard, però, ripassando sul ponte per tornare all'accampamento, vide
giù nel fiume, sulla punta d'un enorme macigno di forma quasi
piramidale, alcune piccole pietre quadrate, su cui pareva che fossero
incisi dei caratteri; e il fatto che si trovassero là, come se ci
fossero state poste perchè si vedessero dal ponte, avvalorava quella
supposizione. Il capitano manifestò l'intenzione d'andar a vedere. Tutti
lo sconsigliarono. Le rive del fiume erano ripidissime, il fondo tutto
ingombro di pietroni acuti e molto discosti l'uno dall'altro, la
corrente rapida, il macigno su cui eran le pietre, altissimo e di
accesso o impossibile o pericoloso. Ma il capitano di Boccard è una di
quelle testine che quando han fissato il chiodo in un'impresa rischiosa,
è finita: o s'ammazzano o ne vengono a capo. Non avevamo ancora finito
di dir no, ch'egli scendeva già, così come si trovava, cogli stivali
alla scudiera e gli sproni, giù per la riva del fiume. Un centinaio
d'arabi stavano a vedere, parte schierati sull'alto delle due rive,
parte appoggiati alle spallette del ponte. Appena capirono dove il
capitano voleva andare, parve a tutti così disperata l'impresa che si
misero a ridere. Quando poi lo videro soffermarsi sulla sponda, e
guardare qua e là in cerca d'un passaggio, credendo che gli mancasse
l'animo, diedero in un'altra risata più insolentemente sonora.--Nessuno
di noi,--disse un di loro ad alta voce,--è mai riuscito a salire là
sopra: staremo a vedere se ci riesce un nazareno.--E certo nessun altro
di noi italiani ci sarebbe salito; ma quello che ci si provava, era per
l'appunto il più svelto personaggio dell'Ambasciata. Le risa degli arabi
gli diedero l'ultima spinta. Spiccò un salto, disparve in mezzo agli
arbusti, ricomparve ritto sopra un sasso, si rinascose, e così, di
pietrone in pietrone, saltando come un gatto, strisciando,
arrampicandosi, rischiando dieci volte di cader nel fiume o di spezzarsi
la testa, riuscì ai piedi del macigno, e senza prender fiato,
aggrappandosi a tutti gli sterpi e a tutti gli incavi, salì sulla
sommità e vi si drizzò come una statua. Noi tirammo un gran respiro, gli
arabi rimasero attoniti, l'onore italiano era salvo. Il capitano, da
nobile vincitore, non degnò nemmeno d'uno sguardo i suoi avversarii
scornati, e appena riconosciuto che le supposte pietre istoriate non
erano che frantumi di calcestruzzo delle spallette del ponte, scese giù
da un'altra parte, e in pochi salti riafferrò la riva dove fu ricevuto
cogli onori del trionfo.
§ § § § §
Il tragitto dalla Mduma a Mechinez fu un seguito d'inganni e di
disinganni ottici così singolari, che se non fosse stato il caldo
soffocante, ce ne saremmo immensamente divertiti. A due ore infatti, o
poco più, dall'accampamento, vedemmo lontano in mezzo a una vastissima
pianura nuda, biancheggiare vagamente i minareti di Mechinez, e ci
rallegrammo pensando che ci saremmo presto arrivati. Ma quella che ci
pareva pianura, non era invece che una successione interminabile di
vallette parallele, separate da larghe onde di terreno tutte eguali
d'altezza, che presentavano l'aspetto d'una superficie continua; per
cui, andando innanzi, la città si nascondeva e ricompariva
continuamente, come se facesse capolino; e oltre a ciò, le valli essendo
dirupate, rocciose e non attraversabili che per sentieri serpeggianti e
difficili, il cammino da farsi era almeno doppio di quello che, a primo
aspetto, avevamo giudicato; e sembrava che la città s'allontanasse via
via che ci avanzavamo; e in ogni valle si apriva il cuore alla speranza,
e sopra ogni altura si tornava a disperare, e sonavan voci alte e fioche
e sospiri lamentevoli e irosi propositi di rinunzia a qualunque futuro
viaggio nell'Affrica, fatto con qualunque scopo e in qualunque
condizione; quando, come Dio volle, uscendo da un bosco d'olivi
selvatici, ci vedemmo dinanzi all'improvviso la città sospirata, e
tutti i lamenti morirono in una esclamazione di meraviglia.
§ § § § §
Mechinez, distesa sopra una lunga collina, circondata di giardini,
stretta da tre ordini di grosse mura merlate, coronata di minareti e di
palme, allegra e maestosa come un sobborgo di Costantinopoli, si
presentava intera al nostro sguardo, disegnando le sue mille terrazze
bianche sull'azzurro del cielo. Non un nuvolo di fumo usciva da quella
moltitudine di case, non si vedeva un'anima viva nè sulle terrazze nè
davanti alle mura, non si sentiva il più leggero rumore: pareva una
città disabitata, o una immensa scena di teatro.
§ § § § §
Fu rizzata subito la tenda della mensa in mezzo a un campo nudo, a
ducento passi da una delle quindici porte della città, e pochi minuti
dopo ci sedemmo per saziare, come dicono i prosatori eleganti, «il
naturale talento di cibo e di bevanda.»
Appena eravamo seduti, uscì dalla porta della città e s'avanzò verso
l'accampamento un drappello di cavalieri pomposamente vestiti, preceduti
da una schiera di soldati a piedi.
Era il Governatore di Mechinez coi suoi parenti e i suoi ufficiali.
A venti passi dalla tenda, scesero dai loro cavalli bardati di tutti i
colori dell'iride, e si slanciarono verso di noi gridando tutti
insieme:--Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!--Il governatore era un
giovane di fisonomia dolce, d'occhi neri, di barba nerissima; tutti gli
altri, uomini tra i quaranta e i cinquanta, d'alta statura, barbuti,
vestiti di bianco, lindi, profumati, che parevano usciti da uno
scatolino. Strinsero le mani a tutti, girando intorno alla tavola a
passo di contraddanza e sorridendo graziosamente, e poi si radunarono
daccapo dietro al Governatore. Uno d'essi, vedendo per terra un briciolo
di pane, lo raccolse e lo rimise sulla tavola dicendo alcune parole che
significavano probabilmente:--Scusate: il Corano condanna il
disperdimento del pane: io faccio il mio dovere di buon Mussulmano.--Il
Governatore offerse a tutti l'ospitalità in casa sua, che venne
acettata. Non rimanemmo nell'accampamento che i pittori ed io, ad
aspettare che scemasse il caldo per andare in città.
§ § § § §
Selam ci tenne compagnia, raccontandoci le meraviglie di Mechinez.
--A Mechinez ci sono le più belle donne del Marocco, i giardini più
belli dell'Affrica e il palazzo imperiale più bello del mondo.--Così
cominciò. E Mechinez gode infatti questa fama nell'Impero. Mechinesina è
sinonimo di bella e mechinesino di geloso. Il palazzo imperiale,
fondato da Mulei-Ismaele, che nel 1703 ci teneva quattromila donne e
ottocento sessantasette figliuoli, aveva due miglia di circuito ed era
ornato di colonne di marmo fatte venire in parte dalle rovine della
città di Faraone, vicina a Mechinez, in parte da Livorno e da Marsiglia.
V'era un grande alcazar dove si vendevano i più preziosi tessuti
d'Europa, un vasto mercato riunito alla città da una strada ornata di
cento fontane, un parco d'olivi immenso, sette grandi moschee, un
formidabile presidio d'artiglieria che teneva in freno i berberi delle
vicine montagne, un tesoro imperiale di cinquecento milioni di lire, e
una popolazione di cinquantamila abitanti che erano considerati come i
più colti e i più ospitali dell'Impero.
Selam ci descrisse con voce bassa e con gesti misteriosi il luogo dov'è
rinchiuso il tesoro, che nessuno sa quanto sia; ma che certo dev'essere
di molto scemato dopo le ultime guerre, se pure è ancora tale da
meritare il nome di tesoro.--Dentro il palazzo del Sultano,--disse,--c'è
un altro palazzo, tutto di pietra, che riceve la luce dall'alto ed è
circondato da tre giri di muraglie. Si entra per una porta di ferro, si
trova un'altra porta di ferro e poi c'è ancora una porta di ferro. Dopo
queste tre porte, c'è un corridoio basso e oscuro, dove bisogna passare
coi lumi, e il pavimento è di marmo nero, le pareti nere, la vôlta nera,
e l'aria ha odore di sepolcro. In fondo al corridoio, v'è una gran sala,
e nel mezzo della sala, un'apertura, che mette in un sotterraneo
profondo, dove trecento neri gettano quattro volte all'anno, a palate,
le monete d'oro e d'argento che manda il Sultano. Il Sultano sta a
vedere. I neri che lavorano nella sala sono chiusi nel palazzo per tutta
la vita. Quelli che lavorano nel sotterraneo non ne escono che morti. E
intorno alla sala vi sono dieci vasi di terra, che contengono le teste
di dieci schiavi che una volta tentarono di rubare. E Mulei-Soliman
faceva tagliare la testa a tutti, appena i denari erano al posto. E
nessun uomo è mai uscito vivo da quel palazzo fuor che il Sultano nostro
signore.--
E raccontava questi orrori, senza dar il menomo segno d'indignazione,
anzi quasi con un accento ammirativo, come se fossero cose sovrumane e
fatali, di cui un uomo non dovesse giudicare nè provare altro sentimento
che un misterioso rispetto.
--C'era una volta un re di Mechinez,--ripigliò poi colla sua
inalterabile gravità, stando sempre ritto dinanzi alla nostra tenda, con
una mano sull'impugnatura della sciabola;--il quale voleva fare una
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