Marocco - 10

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rivolta sanguinosa scoppiata nell'estate del 1873, quando salì al trono
il Sultano regnante, la quale cominciò col saccheggio della casa del
Governatore, a cui rubarono perfino le donne. Il latrocinio è il loro
mestiere principale. Si raccolgono in bande, a cavallo, armati, e fanno
delle scorrerie di là dal Sebù o nelle altre terre vicine, rubando
quanto possono portare o trascinare, e ammazzando, per precauzione,
quanti incontrano. Sono disciplinati, hanno dei capi, degli statuti, dei
diritti riconosciuti, in un certo senso, persino dal Governo, il quale
si serve qualche volta di loro per riavere quello che gli è stato
rubato. Rubano per via d'imposte forzate. La gente depredata, invece di
sciupare il tempo in ricerche e in ricorsi, ricupera l'aver suo pagando
una somma convenuta al capo dei ladri. Per i ragazzi, specialmente, è
ammesso come cosa naturalissima che debbano tutti rubare. Se si pigliano
una palla nella schiena o si fanno spezzare il capo da una sassata,
peggio per loro; si sa che nessuno vuol lasciarsi rubare; e poi non c'è
rosa senza spine. I padri lo dicono ingenuamente: un figliuolo di otto
anni rende poco, uno di dodici anni assai di più, uno di sedici molto.
Ogni ladro ha il suo genere proprio: c'è il ladro di biade, il ladro di
bestie bovine, il ladro di cavalli, il ladro di mercato, il ladro di
_duar_[2], il ladro di strada. Ci sono persino i ladri che riscuotono
un'imposta fissa da tutte le donne che fanno derrata di sè, non rare
nemmeno fra quelle tribù vagabonde. Per le strade, assaltano
particolarmente gli Ebrei, ai quali è proibito di portar armi. Ma il
latrocinio più comune è quello a danno dei _duar_. In questo sono
artisti insuperabili, non solo fra i Beni-Hassen, ma in tutto il
Marocco. Vanno a rubare a cavallo, e la grand'arte consiste più nella
rapidità che nell'accortezza, più nel non lasciarsi raggiungere che nel
non lasciarsi vedere. Passano, afferrano e dispaiono, senza dar tempo
alla gente di riconoscerli. Son furti a volo, fulminei, giochi di
prestidigitazione equestre. Rubano pure a piedi e anche in questo son
maestri. S'introducono nei _duar_, nudi, perchè i cani non abbaiano agli
uomini nudi; insaponati da capo a piedi, per sguisciare dalle mani di
chi li afferri; con un fascio di fronde tra le braccia, perchè i
cavalli, pigliandoli per alberi, non si spaventino. I cavalli sono la
preda più ghiotta. Vi si attaccano al collo, stendono le gambe sotto il
ventre, e via come saette. La loro audacia è incredibile. Non c'è
accampamento di carovana, sia anche d'un pascià o d'un'ambasciata, dove
non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza. Strisciano,
guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d'erba, di paglia, di
foglie, vestiti di pelli di montone, in apparenza d'accattoni, di
malati, di pazzi, di soldati, di santi. Rischian la vita per un pollo,
fanno dieci miglia per uno scudo. Giunsero persino a rubare dei
sacchetti di denaro sotto il capo ad ambasciatori che dormivano. E
appunto quella notte, malgrado la catena delle sentinelle, rubarono un
montone legato al letto del cuoco, il quale, accortosi la mattina del
furto, stette una mezz'ora immobile davanti alla tenda, colle braccia
incrociate, e lo sguardo fisso all'orizzonte, esclamando di tratto in
tratto:--_Ah! madona santa, che pais! che pais! che pais!_
§ § § § §
Ho nominato i _duar_: non si può parlare del Marocco senza descriverli,
e lo posso fare ampiamente con quello che vidi, e quello che ne seppi
dal signor Morteo, il quale ci vive in mezzo da vent'anni.
§ § § § §
Questo signor Morteo, fra parentesi, è un singolare stampo d'uomo.
Genovese di nascita, ancora giovane, marito d'una bella inglese, padre
di due bambini vezzosissimi e ricco da poter vivere splendidamente in
qualunque città d'Europa, se ne sta invece, relegato volontario, a
Mazagan, piccola città posta sulla riva dell'Atlantico, a duecento
chilometri da Marocco, in mezzo agli arabi e ai mori, non occupato
d'altro che della sua famiglia e del suo commercio, non vedendo, per
mesi e mesi, la faccia d'un europeo, e non serbando col mondo civile
altra relazione che quella d'abbonato a due giornali illustrati. Di
tempo in tempo viene a fare un giro in Italia o in Francia, ma vi
s'annoia appena arrivato, e dai palchetti della Scala e del Grand-Opéra
sospira la sua casetta moresca bagnata dalle onde dell'oceano, i suoi
armenti, i suoi _duar_, la vita ignorata e tranquilla della sua seconda
patria affricana. In quel paese, dove, non è molto, un agente consolare
di Francia, preso da una malinconia disperata, diventò pazzo, e un altro
cercò di seppellirsi vivo nelle sabbie della marina; egli non ha mai
avuto un giorno di _spleen_. Parla l'arabo, mangia all'araba, vive tra
gli arabi, li studia, li ama, li difende; ha contratto qualcuno dei loro
difetti e parecchie delle loro buone qualità; non ha più d'europeo,
insomma, che la famiglia, il vestito e la pronuncia genovese.
Contuttociò, egli non avrebbe potuto mostrarsi più amabilmente italiano
di quel che fece dal primo all'ultimo giorno del viaggio. Interprete,
intendente, guida, compagno, riuscì caro ed utile a tutti, e nessuno
dissentì mai da lui che sopra un punto: noi auguravamo al Marocco la
civiltà; egli sosteneva che la civiltà avrebbe reso quel popolo due
volte più tristo e quattro volte più infelice; e bisogna confessare che,
sebbene avesse torto, s'era qualche volta tentati di dargli ragione.
§ § § § §
Il _duar_ è formato ordinariamente da dieci, quindici o venti famiglie,
che per lo più son legate fra loro da un vincolo di parentela; e ogni
famiglia ha una tenda. Le tende sono disposte in due ordini paralleli,
distanti una trentina di passi l'uno dall'altro, in modo che formano nel
mezzo una specie di piazzetta rettangolare, aperta alle due estremità.
Queste tende sono quasi tutte eguali. Consistono in un gran pezzo di
stoffa nera o color di cioccolatte, tessuta con fibre di palme nane o
con pelo di capra e di cammello; la quale è sostenuta da due pali o due
grosse canne, unite insieme da una traversa di legno, che regge il
tetto. La loro forma è ancora quella delle abitazioni dei Numidi di
Giugurta, che il Sallustio paragonava a una nave rovesciata colla carena
in alto. Nell'inverno e nell'autunno, la tela è distesa fino a terra e
fissata per mezzo di corde a pioli, in maniera che non v'entri nè vento
nè acqua. In estate, è lasciata tutt'intorno una larga apertura per la
circolazione dell'aria, protetta da una piccola siepe di giunchi, di
canne o di rovi secchi. Con questo mezzo, le tende sono più fresche in
estate e meglio chiuse nella stagione piovosa, che le stesse case
moresche delle città, le quali non hanno nè usci nè vetrate. L'altezza
massima d'una tenda è di due metri e mezzo; la massima lunghezza di
dieci; quelle che superano questa misura appartengono a qualche sceicco
opulento, e son rare. Una parete di giunchi divide la casetta in due
parti: di qua dormono il padre e la madre, di là i figliuoli e il
rimanente della famiglia. Una o due stuoie di vimini, un cassone di
legno variopinto e arabescato, in cui tengono la roba; uno specchietto
rotondo di Trieste o di Venezia, un alto treppiedi di canna, che
ricoprono d'un caic, per lavarvisi sotto; due pietre per macinare il
grano, un telaio della forma di quei dei tempi d'Abramo, un rozzo lume
di latta, qualche vaso di terra, qualche pelle di capra, qualche piatto,
una rocca, una sella, un fucile, un pugnalaccio, sono tutta la
suppellettile d'una di queste case. In un angolo v'è una chioccia e una
covata di pulcini; davanti all'entrata un fornello, formato di due
mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi
rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il
grano. In quasi tutti i grandi _duar_ v'è una tenda appartata dove sta
il maestro di scuola, al quale il _duar_ dà cinque lire il mese, oltre a
molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere
centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li
sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la
scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori,
dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che
hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent'anni, per andar
poi a compiere gli studi in una città, e diventare _taleb_, che
significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa
sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che
si fa in questi _duar_ è semplicissima. All'alba, tutti si levano,
dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il
latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e
di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini
vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le
donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna, macinano il grano,
tessono le rozze stoffe di cui si vestono esse e i loro uomini, fanno le
corde delle tende con fibre di palma nana, mandano da mangiare ai
mariti, e preparano il cuscussù per la sera. Il cuscussù è mescolato con
fave, zucche, cipolle e altri erbaggi; qualchevolta inzuccherato, pepato
e condito con sugo di carne; nei giorni di scialo, mangiato con carne.
Tornati gli uomini, cenano e per lo più, al tramonto del sole, vanno a
dormire. Qualche volta, dopo cena, un vecchio racconta una storia in
mezzo a una corona di parenti. Durante la notte il _duar_ rimane immerso
nel silenzio e nelle tenebre: solo qualche famiglia tiene davanti alla
tenda un lumicino acceso, che serve di richiamo ai viaggiatori
smarriti.--Il vestire degli uomini e delle donne non è che una camicia
di tela di cotone, una cappa e un caic grossolano. Le cappe e i caic non
li lavano che tre o quattro volte l'anno, in occasione delle feste
solenni, per cui son quasi sempre del colore della loro pelle o più
neri. La pulizia del corpo è più curata, poichè senza far le abluzioni
prescritte dal Corano, non potrebbero pregare. Le donne per di più si
lavano ogni mattina tutta la persona, nascondendosi sotto il treppiedi
coperto col caic. Ma lavorando come fanno, e dormendo come dormono, son
sempre sudici a un modo, benchè facciano uso, miracolo! del sapone. Nei
ritagli di tempo molti giocano alle carte, e quando non giocano, un gran
divertimento degli uomini è di stendersi supini in terra e di
sballottare i loro bambini; per i quali però si raffreddano via via che
diventan grandi, e così è dei figliuoli per loro. Molti di questi figli
del _duar_, giungono all'età di dieci o quattordici anni senz'aver mai
visto una casa, ed è curioso il sentir raccontar dai mori o dagli
europei delle città, che li prendono al proprio servizio, lo
sbalordimento che provano entrando per la prima volta in una stanza:
come palpano le pareti, come pestano il pavimento, con che viva emozione
s'affacciano alle finestre e ruzzolano giù per le scale.--Gli
avvenimenti principali, in questi villaggi erranti, sono i matrimoni. I
parenti e gli amici della sposa, con grande strepito di fucilate e di
grida la conducono, seduta sulla groppa d'un cammello, al _duar_ dello
sposo, ravvolta in una cappa bianca o turchina, tutta profumata, colle
unghie tinte di henné e le soppraciglia nere di sughero bruciato, e per
lo più ingrassata, per quell'occasione, con un erba particolare chiamata
_ebba_, di cui fanno grande uso le ragazze. Il _duar_ dello sposo, dal
canto suo, invita alla festa i _duar_ vicini, da cui accorrono spesso
cento o duecento uomini a cavallo, armati di fucile. La sposa scende
dal cammello dinanzi alla tenda del suo futuro marito, siede sopra una
sella infronzolita e infiorata, ed assiste alla festa. Mentre gli uomini
fanno il _giuoco della polvere_, le donne e le ragazze, disposte in
circolo davanti a lei, saltellano al suono d'un tamburo e d'un piffero,
intorno a un caic disteso in terra, nel quale ogni invitato, passando,
butta una moneta per gli sposi, e un banditore annunzia ad alta voce
l'offerta, facendo un buon augurio all'oblatore. Verso sera, il ballo
cessa, i fucili tacciono, tutti siedono in terra, vengon portati enormi
piatti di cuscussù, polli arrosto, montoni allo spiedo, tè, dolci,
frutta; e la cena si prolunga fino a mezzanotte. Il giorno seguente, la
sposa vestita di bianco, con una ciarpa rossa stretta intorno al viso,
che le nasconde la bocca, e il cappuccio tirato sul capo, accompagnata
dai parenti e dagli amici, va per i _duar_ vicini a raccoglier un'altra
volta denaro. E dopo questo, lo sposo ritorna ai campi, la sposa va alla
macina, e l'amore vola via. Quando uno muore, ripetono le danze. Il
parente più prossimo del defunto ne ricorda le virtù; gli altri,
affollati intorno a lui, danzano con gesti e atteggiamenti dolorosi, si
coprono di fango, si graffiano il viso, si stracciano i capelli; poi
lavano il cadavere, lo ravvolgono in una tela nuova, lo portano, sopra
una barella, al cimitero, e lo sepelliscono appoggiato sul lato destro,
col viso rivolto a oriente.--Questi sono i loro usi e i loro costumi,
per dire così, patenti; ma gl'intimi chi li conosce? Chi può seguire i
fili di cui s'ordisce la trama della vita d'un _duar_? Chi può sapere
come parla il primo amore, come s'intrica il pettegolezzo, in che strana
forma, con che strani accidenti si producano e lottino l'adulterio, la
gelosia, l'invidia; che virtù brillino, che sacrifizi si compiano, che
abbominevoli passioni imperversino fra quelle pareti di tela? Chi può
rintracciare l'origine delle loro favolose superstizioni? Chi può
chiarire quel bizzarro miscuglio di confuse tradizioni pagane e
cristiane: le croci segnate sulla pelle, la vaga credenza ai satiri di
cui trovano le orme forcute sulla terra, la bambola portata in trionfo
al primo spuntare del grano, il nome di Maria invocato in soccorso delle
partorienti, le danze circolari che rammentano i riti degli adoratori
del sole?--Una sola cosa loro è certa e manifesta: la miseria. Vivono
degli scarsi prodotti della terra mal coltivata, scemati ancora da
imposte gravissime e mutevoli, riscosse dal Sceicco, o capo del _duar_,
eletto da loro e direttamente sottoposto al Governatore della provincia.
Rimettono al Governo, in danaro o in natura, la decima parte del
raccolto, e una lira in media per ogni bestia. Pagano cento lire l'anno
per ogni tratto di terreno corrispondente al lavoro di due buoi. Fanno
al Sultano, nelle principali feste annuali, un regalo obbligatorio, che
equivale presso a poco a un'imposta di cinque lire per tenda. Sborsano
denaro o forniscon viveri, ad arbitrio dei governatori, quando passa il
Sultano, un pascià, un'ambasciata, un corpo di soldati. Oltre a ciò,
chiunque abbia denari è esposto alle estorsioni dei Governatori, non
velate, non scusate da alcun pretesto, ma sfacciatamente violente. Aver
fama di agiato è una sventura. Chi ha un piccolo peculio, lo sotterra,
spende di nascosto, finge la miseria e la fame. Nessuno accetta in
pagamento uno scudo annerito, anche se è certo che sia buono, perchè può
parer levato di sotto terra e mettere in sospetto chi dà la caccia ai
tesori. Quando un agiato muore, i parenti, per scongiurare la rapina,
offrono un regalo al Governatore. Offrono regali per chieder giustizia,
per prevenire le persecuzioni, per non esser ridotti a morir di fame. E
quando finalmente la fame li strazia e la disperazione li accieca,
disfan le tende, impugnano i fucili e lanciano il grido della rivolta.
Che succede allora? Il Sultano sguinzaglia tremila furie a cavallo a
seminare la morte nel paese ribelle. Questi tagliano teste, predano
armenti, ruban donne, incendiano messi, riducon la terra un deserto
coperto di cenere e di sangue, e ritornano ad annunziare alla reggia
che la ribellione è domata. Se poi la ribellione si allarga, e mandando
a vuoto le arti con cui il Governo tenta di smembrarne le forze,
disperde gli eserciti e riman padrona del campo, che vantaggio ne
ricava, fuorchè quei brevi giorni di libertà guerresca, che le costan
migliaia di vite? Eleggeranno un altro Sultano, e provocheranno una
guerra dinastica tra provincie e provincie, a cui terrà dietro un
dispotismo peggiore; ciò che da dieci secoli accade.
§ § § § §
La mattina del 10 la carovana si mise in cammino, all'alba, accompagnata
dai trecento cavalieri dei Beni-Hassen e dal loro Governatore Abd-Allà,
_servo di Dio_.
Per tutta quella mattina si continuò a camminare in pianura, in mezzo a
campi d'orzo, di grano e di saggina, interrotti da grandi spazi coperti
di finocchio selvatico e di fiori, e sparsi di gruppi d'alberi e di
tende nere, le quali di lontano presentavano l'aspetto di quei grandi
mucchi di carbone che si vedono tratto tratto per la maremma toscana.
Incontravamo più sovente che nei giorni innanzi, armenti, cavalli,
cammelli, brigatelle d'arabi. Lontano, dinanzi a noi, si stendeva una
catena di monti d'un color cenerino delicatissimo, e a mezza distanza,
fra i monti e la carovana, biancheggiavano due _cube_, la prima
illuminata dal sole, la seconda, visibile appena. Erano le cube di
Sidi-Ghedar e di Sidi-Hassem, fra le quali passa il confine della terra
dei Beni-Hassen. Presso alla cuba più lontana si doveva piantare quel
giorno l'accampamento.
Molto prima però di giungere al confine, il Governatore Sidi-Abd-Allà,
che fin dal momento della partenza pareva pensieroso e irrequieto, si
avvicinò all'Ambasciatore e fece cenno di voler parlare.
Mohamed Ducali accorse.
--L'Ambasciatore d'Italia mi perdonerà--disse il fiero Governatore--se
io oso domandargli il permesso di tornar indietro colla mia scorta.
L'ambasciatore domandò perchè.
--Perchè,--rispose Sidi-Abd-Allà corrugando i suoi grandi sopraccigli
neri,--la mia casa non è sicura.
Nientemeno! pensammo noi. A due miglia di distanza! Che delizia di
mestiere ha da essere quello di governare i Beni-Hassen!
L'Ambasciatore acconsentì; Sidi-Abd-Allà gli prese la mano e se la
strinse sul petto con una energica espressione di gratitudine. Ciò
fatto, voltò il cavallo, e quella turba variopinta, cenciosa, terribile,
slanciati i cavalli a briglia sciolta, in pochi momenti non fu più che
un nuvolo di polvere all'orizzonte.

NOTE:
[2] Si chiama _duar_ un accampamento d'arabi.


SIDI-HASSEM

La provincia dove stava per entrare la carovana, era una specie di
colonia, divisa in poderi fra un gran numero di famiglie di soldati, in
ognuna delle quali il servizio militare è obbligatorio per tutti i figli
maschi; anzi ogni figliuolo nasce, per così dire, soldato, serve, come
può, fin dall'infanzia, e riceve una paga fissa prima di essere in grado
di maneggiare il fucile. Di più queste famiglie militari vanno esenti
dalle imposte, e la loro proprietà è inalienabile fin che esiste la
progenitura mascolina. Costituiscono perciò una milizia regolare,
disciplinata e fedele, colla quale il governo può tranquillamente
_divorare_, giusta l'espressione del paese, una qualunque provincia
ribelle senza temere che gli ciurli nel manico; e si potrebbe dire una
milizia d'esattori, che rende al governo assai più di quello che gli
costa, poichè nel Marocco l'esercito serve specialmente alle finanze, e
l'ordigno principale della macchina amministrativa è la spada.
Appena oltrepassato il confine dei Beni-Hassen, si vide lontano uno
stormo di cavalieri che venivano di galoppo verso di noi, preceduti da
una bandiera verde.
Cosa insolita, erano schierati in due lunghissime linee, l'una dietro
l'altra, cogli uffiziali dinanzi.
A venti passi da noi, si arrestarono bruscamente tutti in un punto.
Il loro comandante, un grosso vecchio dalla barba bianca, d'aspetto
benevolo, con un turbante altissimo, porse la mano all'ambasciatore
dicendo:--Siate il benvenuto! Siate il benvenuto!--e quindi a
noi:--Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!
Ci rimettemmo in cammino.
I nuovi cavalieri erano molto diversi dai Beni-Hassen. Avevano i vestiti
più puliti e le armi più lucide; quasi tutti gli stivali gialli,
ricamati di filo rosso; le sciabole col manico di corno di rinoceronte,
le cappe turchine, i caffettani bianchi, le cinture verdi. Molti eran
vecchi, ma di quei vecchi pietrificati, per i quali pare che sia
cominciata l'eternità; parecchi giovanissimi; due, fra gli altri, non
più che decenni, belli, pieni di vita, che ci guardavano con un'aria
sorridente come per dire:--Via, non siete poi quelle faccie patibolari
che c'eravamo figurate!--V'era un vecchio nero di tale statura, che,
stendendo le gambe fuori dalle staffe, avrebbe quasi toccato terra coi
piedi. Uno degli uffiziali aveva le calze.
Dopo mezz'ora di cammino, incontrammo un altro drappello, colla bandiera
rossa, comandato pure da un vecchio caid, che s'unì al primo; e via via,
andando innanzi, altri gruppi di quattro, otto, quindici cavalieri,
ognuno colla bandiera, che vennero tutti a ingrossare la scorta.
Quando la scorta fu completa, cominciarono le solite cariche.
Si vedeva ch'eran soldati regolari: si raggruppavano e si scioglievano
con più ordine di tutti quelli che avevamo visti fino allora. Facevano
un nuovo gioco. Uno si slanciava innanzi a briglia sciolta; un altro
dietro subito ventre a terra. A un tratto il primo si rizzava sulle
staffe, si voltava indietro con tutto il busto e sparava il fucile nel
petto a quello che l'inseguiva, il quale, nello stesso punto, scaricava
una fucilata a lui contro il fianco, in modo che se si fossero tirati a
palla, sarebbero tutti e due precipitati di sella morti nello stesso
momento. A uno, andando di carriera, il cavallo gli cadde sotto, e lo
sbalzò al di sopra della sua testa ad una tale distanza, che per un
momento credemmo che si fosse ammazzato. Quello invece, in un batter
d'occhio, risaltò in sella e tornò alla carica più indiavolato di prima.
Ognuno lanciava il suo grido.--Guardatevi! Guardatevi!--Siate tutti
testimoni!--Son io!--Ecco la morte!--Meschino me! (uno a cui era mancato
il colpo)--Largo al barbiere!--(Era il barbiere dei soldati)--E un altro
gettò questo curioso grido:--_Alla mia dipinta!_--che fece ridere tutti
i suoi compagni. Gl'interpreti ci spiegarono che voleva dire: alla mia
amante che è bella come se fosse dipinta; cosa strana per gente che non
solo ha in orrore la pittura di figura, ma non ne ha neppure un'idea
chiara. I due ragazzi fecero una carica insieme gridando:--Largo ai
fratelli!--e spararono in terra curvando la testa fin quasi a toccare la
sella.
Così arrivammo in vicinanza della _cuba_ di Sidi-Hassem, dove si doveva
piantare il campo.
§ § § § §
Povero Hamed-Ben Kasen Buhamei! Finora io non ne ho parlato che di volo;
ma ricordandomi che quella mattina lo vidi, lui generale dell'esercito
dei Sceriffi, aiutare i servi a piantare i piuoli della tenda
dell'Ambasciatore, sento il bisogno di esprimergli la mia ammirazione e
la mia gratitudine. Che buona pasta di generale! Dal giorno della
partenza egli non aveva ancor fatto bastonare nè un soldato nè un servo;
non s'era mai mostrato un minuto di cattivo umore; era sempre stato il
primo ad uscir dalla tenda e l'ultimo a andar a dormire; non aveva mai
lasciato trapelare, nemmeno agli occhi più indagatori, che il suo
stipendio di quaranta lire il mese gli paresse un po' scarso; non aveva
ombra d'albagia; ci aiutava a montare a cavallo, s'assicurava che le
nostre selle fossero salde, dava una legnata, passando, alle nostre mule
restie; era sempre pronto a tutto e per tutti; si riposava, accovacciato
come un umile mulattiere, accanto alle nostre tende; ci sorrideva ogni
volta che ci vedeva sorridere; ci offriva del cuscussù; balzava in
piedi, a un cenno dell'ambasciatore, come un fantoccio a molla; faceva
la sua preghiera, da buon mussulmano, cinque volte il giorno; contava le
uova della _muna_, presiedeva allo sgozzamento dei montoni, guardava
l'album dei pittori senza dar segno di scandalo; infine era l'uomo più
_ad hoc_, io credo, che sua Maestà Imperiale potesse scegliere per
quella missione in mezzo alla folla dei suoi scalzi generali. Hamed
Ben-Kasen rammentava sovente, con alterezza, che suo padre era stato
generale nella guerra contro la Spagna, e parlava qualche volta dei
propri figli, che stavano colla madre a Mechinez, sua città natale.--Son
tre mesi,--disse un giorno sospirando,--che non li vedo!--Forse voleva
dire:--che non _la_ vedo;--ma disse _li_ per pudore.
§ § § § §
Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione della _muna_, fra
cui v'era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque
arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti
quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo
mezzogiorno; nel qual tempo l'accampamento rimaneva immerso in un
profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava. I pittori
mettevano mano ai pennelli, il medico riceveva i malati, uno andava a
bagnarsi, un altro a tirare al bersaglio, chi a caccia, chi a passeggio,
chi a visitare un amico sotto la tenda, chi ad assistere alle cariche
della scorta, chi a vedere il cuoco alle prese coll'Affrica, chi a
visitare i _duar_ vicini, e così ognuno, a tavola, aveva qualcosa da
raccontare, e la conversazione scoppiettava come un fuoco d'artifizio.
§ § § § §
Quella sera, al tramonto del sole, andai col comandante a vedere i
soldati della scorta che facevano le cariche in un vasto prato vicino
all'accampamento.
C'era un centinaio d'arabi, seduti in una sola fila sulla sponda d'un
fosso, che guardavano.
Appena ci videro, prima alcuni, poi cinquanta, poi tutti, si levarono da
sedere e a poco a poco si vennero ad affollare dietro di noi.
Noi fingemmo di non vederli.
Per qualche momento, nessuno fiatò; poi cominciò uno a dir un non so
cosa, che li fece ridere tutti. Dopo quello, parlò un altro, e poi un
terzo, e via via, e ad ogni parola, tutti ridevano. Evidentemente
ridevano di noi, e non tardammo ad accorgerci che le osservazioni e le
risate corrispondevano per l'appunto ai nostri movimenti e a certe
inflessioni della nostra voce. La cosa era naturalissima: ci trovavano
ridicoli. Ma che cosa dicevano? Questa era la nostra grande curiosità.
Passò in quel momento il signor Morteo, lo chiamai con un cenno furtivo,
e lo pregai di star coll'orecchio teso, senza farsi scorgere, e di
tradurmi letteralmente le canzonature di que' furfanti. Mi servì a
meraviglia.
Uno fece subito un'osservazione che, al solito, provocò una risata.
--Dice--tradusse il Morteo--che non sa capire a che cosa serva la falda
di dietro del nostro vestito, a meno che non sia fatta per nascondere la
coda....
Un momento dopo, un'altra osservazione, un'altra risata.
--Dice che la divisa dei capelli che lei ha sulla nuca è la strada dove
i pidocchi fanno il _lab el barod_.
Una terza osservazione, un terzo scoppio di risa.
--Dice che son curiosi questi cristiani, che per l'ambizione di parere
alti di statura, si mettono un vaso sulla testa e due puntelli sotto le
calcagna....
In quel punto un cane dell' accampamento venne a accovacciarsi ai nostri
piedi.
Una quarta osservazione, e questa volta una risata sgangherata.
--Questa è forte!--disse il Morteo.--Dice che questo cane è venuto ad
accovacciarsi vicino agli altri cani.... Ora li accomodo io.
Così dicendo, si voltò indietro bruscamente e disse qualche parola araba
in tuono di minaccia.
Fu un colpo di fulmine. In un momento non se ne vide più uno.
Ma, povera gente, siamo giusti! Lasciando da parte le cariche dei
pidocchi e la fratellanza coi cani, non avevan ragione di pensare di noi
quello che pensavamo noi stessi, paragonandoci con loro? Dieci volte il
giorno, mentre ci scorazzavano intorno quei superbi cavalieri, ci
dicevamo gli uni agli altri:--Sì, siamo civili, siamo i rappresentanti
d'una grande nazione, abbiamo più scienza nella testa, noi dieci, che
non ce ne sia in tutto l'Impero dei Sceriffi; ma piantati su queste
mule, vestiti di questi panni, con questi colori, con questi cappelli,
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