Marocco - 15

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il colloquio, l'Ambasciatore si credette in dovere d'alzarsi.--Restate
ancora;--disse con un certo garbo ingenuo il Sultano;--mi piace
discorrere con voi.--Quando l'Ambasciatore, andandosene, s'inchinò per
l'ultima volta sulla soglia della porta, egli abbassò leggermente la
fronte, e rimase immobile, come un idolo, nel suo tempio deserto.
* * * * *
È venuta una comitiva di donne ebree a presentare non so che istanza
all'Ambasciatore.
Nessuno potè sottrarre le mani alla pioggia dei loro baci.
Eran mogli, figliuole e parenti di due agiati negozianti: bellissime
donne, di fulgidi occhi neri, di carnagione bianca, di labbra porporine,
di mani piccolissime. Le due madri, già vecchie, non avevano un capello
bianco, e brillava ancora nelle loro pupille tutto il fuoco della
giovinezza. Avevano un vestimento pittoresco e splendido: un fazzoletto
di seta di colori vivissimi, stretto intorno alla fronte; una zuavina di
panno rosso, ornata di larghi e spessi galloni d'oro; un panciotto tutto
dorato; una sottana corta e stretta, di panno verde, pure listata di
galloni risplendenti; una cintura di seta rossa o azzurra intorno alla
vita. Parevan tante principesse asiatiche, e questa pompa contrastava
bizzarramente colle loro maniere servilmente ossequiose.
Parlavano tutte spagnuolo.
Soltanto dopo qualche minuto, ci accorgemmo che avevano i piedi nudi e
le babbuccie gialle sotto il braccio.
--Perchè non vi calzate?--domandai a una delle vecchie.
--Come!--mi domandò alla sua volta, meravigliandosi--non sa ella dunque
che gl'Israeliti non possono portare le scarpe che nel Mellà, e che,
entrando nella città mora, debbono andare a piedi nudi?
Rassicurate dall'Ambasciatore, si calzarono.
Così è infatti. Non sono assolutamente obbligati ad andar sempre a piedi
nudi; ma dovendo levarsi le babbuccie quando passano per certe strade,
davanti a certe moschee, accanto a certe _cube_, finisce per essere lo
stesso. E non è questa la sola nè la più umiliante vessazione a cui
vanno soggetti. Non possono testimoniare in giudizio, e debbono
prostrarsi a terra parlando davanti ai tribunali; non possono possedere
terreni o case fuori del loro quartiere; non possono andare a cavallo
per la città; non possono alzar la mano sopra un mussulmano nemmeno per
difendersi, eccetto il caso in cui siano assaliti in casa propria; non
possono vestirsi che di colori oscuri; debbono portare correndo i loro
morti al cimitero, debbono domandare al Sultano il permesso di sposarsi,
debbono rientrare nel Mellà al tramonto del sole, debbono pagare la
guardia mora che veglia alle porte del loro quartiere, debbono
presentare dei ricchi doni al Sultano nelle quattro feste
dell'Islamismo e in occasione d'ogni nascita e d'ogni matrimonio della
famiglia imperiale. Ed era anche peggiore la loro condizione prima del
Sultano Ald-er-Rhaman, il quale impedì almeno che si spargesse il loro
sangue. Nè, anche volendo, potrebbero i Sultani migliorarne gran fatto
lo stato, senza esporre quegli infelici a mali peggiori della orribile
schiavitù che li schiaccia, tanto è fanatico e feroce contro di loro
l'odio dei Mori. Esempio l'Imperatore Solimano, il quale, avendo
decretato che potessero portar le babbuccie, ne furono uccisi tanti, in
pieno giorno, per le strade di Fez, ch'essi medesimi domandarono, per
salvarsi dalla strage, la revocazione del decreto. Rimangono nondimeno
nel paese, e perchè ci arricchiscono, servendo d'intermediarii fra il
commercio d'Europa e il commercio dell'Affrica; e perchè il Governo,
comprendendo di quale importanza essi sono per la prosperità dello
Stato, oppone una barriera quasi insormontabile all'emigrazione,
proibendo ad ogni donna ebrea l'uscita dal Marocco. Servono, tremano e
strisciano nella polvere; ma non darebbero, per acquistar la dignità
d'uomini e la libertà di cittadini, il mucchio di monete d'oro che
tengon nascoste nelle pareti delle loro luride case. In Fez sono intorno
a otto mila, divisi per sinagoghe e retti dai rabbini, che godono d'una
grande autorità.
Quelle povere donne ci mostrarono parecchi grossi braccialetti d'argento
cesellato, degli anelli ingemmati e degli orecchini d'oro, che tenevano
nascosti nel seno. Domandammo perchè li nascondevano.
--_Nos espantamos de los Moros._--Abbiamo paura dei mori,--risposero a
voce bassa, guardando intorno con diffidenza. Diffidavano persino dei
soldati della Legazione.
Fra loro v'erano parecchie bambine vestite colla medesima pompa delle
donne.
Una di esse stava accanto alla madre in atteggiamento più timido che le
altre. L'Ambasciatore domandò alla madre che età avesse. Rispose dodici
anni.
--Si mariterà presto,--disse l'Ambasciatore.
--Che!--esclamò la madre;--è già troppo vecchia per pigliar marito.
Credemmo tutti che scherzasse.
--Dico davvero;--rispose la madre quasi meravigliandosi della nostra
incredulità;--vedono quest'altra qua?--E c'indicò una bambina più
piccola.--Avrà dieci anni fra sei mesi ed è già maritata da più d'un
anno.
La bambina chinò la testa. Noi non credemmo.
--Che cosa ho da dire?--continuò la madre;--se non vogliono credere alla
mia parola, ci facciano l'onore di venire a casa nostra, di sabato,
affinchè possiamo riceverli degnamente, e vedranno il marito e gli
attestati del matrimonio.
--E quanti anni ha il marito?--domandai.
--Dieci compiuti, Signore.
Vedendo che stentavamo a credere, ci accertarono la cosa tutte le altre
donne, aggiungendo che sono rare le ragazze che si maritino dopo i
dodici anni, che la maggior parte son già spose a dieci, e molte a otto,
e non poche perfino a sette, con ragazzi press'a poco della stessa età;
e che, naturalmente, fin che son così piccoli vivono coi parenti, i
quali continuano a trattarli come bambini, li nutrono, li vestono, li
sballottano, li sculacciano senza alcun riguardo alla loro dignità
maritale; ma stanno sempre insieme e la moglie è sottomessa al marito.
A noi pareva di sentir parlare d'un altro mondo, e stavamo a sentire
colla bocca aperta, titubando fra la voglia di ridere, la compassione e
lo sdegno.
--Ma....--disse esitando l'Ambasciatore--stanno insieme anche.... dalla
sera alla mattina?
--Naturalmente--rispose la madre;--poichè sono marito e moglie!
--Ma non capite,--disse l'Ambasciatore con un movimento di sdegno;--che
questo è mal fatto? che è contro le leggi della natura? che è dannoso
all'anima e al corpo? che in questo modo invece di educare moralmente e
fisicamente l'infanzia, la profanate, l'avvelenate, la soffocate?
--Che, che, signor Ambasciatore!--rispose la madre con la più amena
disinvoltura;--non creda questo. Non segue nulla di tutto questo. Son
bambini....--E qui s'avvicinò a noi e abbassò la voce.--Son bambini, non
sanno nulla, non pensano a nulla, discorrono e ridono fra loro, e poi
quando son stanchi, chinan la testa così e s'addormentano come
angioletti. Nulla di male, signor Ambasciatore.
L'Ambasciatore tentò ancora di persuaderla che del male ce n'era; ma la
buona donna, continuando a ripetere:--nulla di male, nulla di male... a
poco a poco, a poco a poco--rimase del proprio parere.
In quel frattempo la sposina di nove anni mandava dei baci al cane da
caccia del signor Paxcot, legato in un angolo del cortile.
Povere creature! Fu una pietà il vederle, quando s'accomiatarono,
rimettersi le babbuccie sotto il braccio e i braccialetti in seno, e
così belle e vestite riccamente, avviarsi a piedi nudi per quelle strade
sassose ed immonde, guardando intorno con un'espressione di umiltà
supplichevole, come per scongiurare gl'insulti e le percosse dei
passanti!
* * * * *
Una colezione in casa del ministro della guerra.
Ci ricevette, appena entrati, in un cortile angusto, chiuso fra quattro
muri altissimi e oscuro come un pozzo. Da un lato v'era una porticina
alta poco più d'un metro, dall'altro una gran porta senza battenti e una
stanza nuda, con una materassa distesa sul pavimento, e alcuni foglietti
di carta infilati in uno spago appeso a una parete: la corrispondenza
giornaliera, credo, di Sua Eccellenza.
Si chiama Sid-Abd-Allà Ben Hamed, è fratello maggiore di Sid-Mussa, ha
circa sessant'anni, è nero, piccolo, magro, malfermo sulle gambe,
tremante, ridotto, come suol dirsi, sulle cigne; ma d'aspetto e di modi
simpatici. Parla poco, chiude spesso gli occhi e sorride cortesemente
abbassando la testa mezzo nascosta in un grosso turbante.
Scambiate poche parole, fummo invitati a passare nella sala da pranzo.
Primo l'Ambasciatore, e poi tutti gli altri, ad uno ad uno, piegandoci
quasi ad angolo retto, infilammo la porticina, e riuscimmo in un altro
cortile, spazioso, circondato d'archi eleganti, e coperto di musaici
splendidi e svariatissimi. È un palazzo regalato a Sid-Abd-Allà
dall'Imperatore. Egli medesimo ce lo disse, chinando la testa e
chiudendo gli occhi in atto di religiosa venerazione.
In un angolo del cortile v'era un gruppo d'ufficiali in turbante e cappa
bianca; dalla parte opposta uno stuolo di servi, in mezzo ai quali
giganteggiava un giovanotto di bellissimo aspetto, vestito tutto di
turchino, alla zuava, con una lunga pistola alla cintura. A tutte le
finestrine e porticine dei quattro muri, si vedevano apparire e sparire
teste di donne e di ragazzine di ogni colore, e da ogni parte si
sentivano vagiti di bimbi.
Sedemmo intorno a una piccola tavola, in una piccolissima stanza,
ingombrata in gran parte da due letti enormi. Il Ministro si pose vicino
all'Ambasciatore, un po' indietro, e stette là per tutto il tempo della
colezione stropicciando vigorosamente il suo nero piede nudo piantato
ritto sul ginocchio, in modo che le rispettabili dita ministeriali
riuscivano per l'appunto sull'orlo della tavola, a mezzo palmo dal
piatto del Comandante. I soldati della Legazione servivano. A un passo
dalla tavola stava il gigante turchino, immobile come una statua, con
una mano sul pistolone.
Sid-Abd-Allà[tn326] fu assai gentile coll'Ambasciatore.
--Voi mi siete simpatico,--gli fece dire, senza preamboli, dal signor
Morteo.
L'Ambasciatore gli rispose che provava per lui un eguale sentimento.
--Appena vi vidi,--continuò il Ministro,--il mio cuore fu vostro.
L'Ambasciatore ricambiò il complimento.
--Al cuore--concluse Sid Abd-Allà,--non si resiste; e quando egli ci
comanda d'amare una persona, anche senza saperne la ragione, la si ama.
L'Ambasciatore gli porse la mano ed egli se la strinse sul cuore.
Ci furono portati diciotto piatti. Non ne parlo. Mi basta dire che son
certo che me ne sarà tenuto conto il giorno in cui verrò giudicato. Per
giunta l'acqua era muschiata, la tovaglia variopinta e le seggiole
barcollanti. Ma queste piccole calamità, invece di metterci di malumore,
ci accesero la vena degli scherzi per modo che poche volte fummo più
allegramente bricconi di quella mattina. Se ci avesse sentiti
Sid-Abd-Allà! Ma Sid-Abd-Allà era tutt'occhi e tutt'orecchi
coll'Ambasciatore. Ci spaventò per un momento il signor Morteo,
avvertendoci a bassa voce che il gigante turchino, essendo di Tunisi,
poteva darsi che capisse qualche parola d'italiano. Ma guardandolo
attentamente ad ogni scherzo, e vedendolo sempre impassibile come una
statua, ci rassicurammo e tirammo innanzi senza badargli. Quante
similitudini calzanti, inaspettate, e d'un effetto comico clamoroso, ma
sventuratamente irripetibili, furono trovate a quegl'intingoli e a
quelle salse!
Finita la colezione, s'andò tutti nel cortile, dove il Ministro della
guerra presentò all'Ambasciatore uno dei più alti ufficiali
dell'esercito. Era il Comandante supremo dell'artiglieria: un piccolo
vecchio, secco, inarcato come una C, con un enorme naso adunco e due
occhiettini diabolici; una figura d'uccello di rapina; caricato,
piuttosto che coperto, d'uno smisurato turbante giallo di forma quasi
sferica, e vestito presso a poco alla zuava, tutto turchino, con un
mantello bianco sulle spalle. Aveva una lunga sciabola al fianco e un
pugnale inargentato alla cintura. L'Ambasciatore gli fece domandare a
quale grado della gerarchia militare europea corrispondesse quello
ch'egli aveva nell'esercito marocchino. Parve che quella domanda lo
mettesse nell'imbarazzo. Pensò qualche momento e rispose
balbettando:--Generale;--poi ripensò e soggiunse:--No, colonnello--e
rimase un po' confuso. Disse ch'era nativo d'Algeri. Mi balenò il
sospetto che fosse un rinnegato. Chi sa per che strane vicende si
trovava colonnello nel Marocco!
Gli altri ufficiali, in quel frattempo, facevano colezione in una stanza
a terreno aperta sul cortile, tutti seduti in cerchio sul pavimento, coi
piatti nel mezzo. Capii benissimo, vedendoli mangiare, come i mori
possano far di meno del coltello e della forchetta. Non si può dire il
garbo, la destrezza, la precisione con cui facevano in pezzi i polli, il
montone allo spiedo, la caccia, i pesci, ogni cosa. Con pochi movimenti
rapidissimi delle mani, senza scomporsi menomamente, ognuno spiccava
giusta e netta la sua porzione. Pareva che avessero delle unghie
taglienti come rasoi. Immergevano le dita nelle salse, facevano delle
palle di cuscussù, mangiavano l'insalata a manate, e non un briciolo,
non una goccia cadeva fuor del piatto; e vedemmo infatti quando
s'alzarono che avevano i caffettani bianchi immaculati come prima. Di
tratto in tratto un servo portava in giro una catinella e un
asciugamano; si davano una lavatina e poi tutti insieme rituffavano lo
zampino in un altro piatto. Nessuno parlava, nessuno alzava gli occhi,
nessuno mostrava d'accorgersi che noi fossimo là a contemplarli.
Che ufficiali saranno stati? Maggiori di stato maggiore? Aiutanti di
campo? Capi-divisione del Ministero della guerra? Chi può saper nulla
nel Marocco, particolarmente dell'esercito, che è il più misterioso di
tutti i misteri? Si dice, per esempio, che nel caso d'una guerra santa,
quando sia proclamata la legge Djehad, che chiama tutti gli uomini
validi alle armi, l'Imperatore può raccogliere duecentomila soldati; ma
se non si conosce nemmeno presso a poco il numero della popolazione
dell'Impero, su che fondamento s'appoggia quella cifra? E l'esercito
permanente, chi sa quanto sia? E a chi riesce di saper qualcosa, non
solo del numero, ma dell'ordinamento, se, fuor dei capi, nessuno sa
nulla, e questi o non vogliono rispondere, o non dicono il vero, o non
sanno farsi capire?
Sid-Abd-Allà, cortesissimo ospite, volle aver scritti sul suo
portafoglio i nostri nomi e ci accomiatò stringendosi sul cuore le mani
di tutti.
Eravamo già sulla porta, quando ci raggiunse il gigante turchino. Ci
fermammo, egli ci guardò sorridendo furbescamente e poi disse sottovoce
in pretto italiano, salvo la pronunzia moresca:
--Signori, stiano bene!
Ci balenarono alla mente le corbellerie dette a tavola e restammo
fulminati.
--Ah cane!--gridò l'Ussi.
Ma il cane era già sparito.
* * * * *
Ogni passeggiata è una piccola spedizione militare: bisogna avvertire il
caid, radunare una scorta, cercare un interprete, mandar a prendere le
cavalcature, e prima che tutto sia in ordine ci vuole un'ora. Perciò
restiamo gran parte della giornata in casa. Ma lo spettacolo della casa
ci compensa largamente della prigionia. È una processione continua di
soldati rossi, di servi neri, di messi della corte, di negozianti della
città, di mori malati che cercano il medico, di rabbini che vengono a
inchinare l'Ambasciatore, d'ebree che portano mazzi di fiori, di
corrieri che portan lettere da Tangeri, di facchini che portano la
_muna_. Nel cortile lavorano dei musaicisti per Visconti Venosta; sulla
terrazza, dei muratori; in cucina, un visibilio di cuochi; nel giardino,
i negozianti stendono le loro stoffe e il signor Vincent le sue
uniformi; il medico si dondola in una branda appesa a due alberi; i
pittori dipingono davanti alla porta della loro camera; i soldati e i
servi saltano e gridano nei vicoli intorno; tutte le fontane zampillano
col rumore d'una pioggia dirotta e fra gli aranci e i limoni del
giardino cantano centinaia d'uccelli. Il giorno si passa fra il giuoco
della palla e la storia del Kaldun; la sera fra gli scacchi e i canti,
diretti dal Comandante, primo tenore di Fez. La notte la passerei
meglio, se non mi passassero continuamente davanti, come fantasmi, i
neri servi di Mohammed Ducali, che dorme in una stanzina accanto alla
mia. Nella mia dorme pure il dottore e abbiamo fra tutti e due un povero
diavolo di servo arabo che ci fa morire dalle risa. Ci dicono che è di
famiglia, se non agiata, non bisognosa, e che s'aggregò come servo alla
carovana, a Tangeri, per fare un _viaggio di piacere_. Appena arrivato a
Fez, meta del suo viaggio di piacere, non so per che mancanza, ma per
poca cosa di certo, fu legnato. Dopo d'allora si mise a servirci con uno
zelo furioso. Non capisce nulla, nemmeno i gesti; ha sempre l'aspetto
d'un uomo spaventato; gli domandiamo gli scacchi, porta la sputacchiera;
ieri il medico gli disse d'andargli a prendere del pane; lui, per far
più presto, gli portò un pezzo di crosta che trovò in mezzo al giardino.
Abbiamo un bel rassicurarlo: ha terrore di noi, cerca di placarci con
ogni sorta di servizi stranissimi, che non gli domandiamo: compreso
quello di cambiare tre volte l'acqua nella catinella prima ancora che ci
alziamo da letto. Di più, per farci una cosa grata, aspetta ogni
mattina, ritto in mezzo alla stanza, colla tazza del caffè in mano, che
il dottore od io ci svegliamo, e al primo che dia il menomo segno di
vita, gli si precipita addosso e gli caccia la tazza sotto il naso colla
furia d'uno che voglia far bere un contravveleno. Un altro bel
personaggio è la lavandaia, un donnone col viso coperto, la sottana
verde e i calzoncini rossi, che viene a pigliar la nostra biancheria,
destinata, ahimè! alle zampate dei mori. È superfluo il dire che non ci
stirano nulla: in tutta Fez non esiste un ferro da stirare, e noi ci
rimettiamo la roba tale e quale esce di sotto alle zampe dei
lavandai.--Forse,--ci fu detto,--ci sarà qualche ferro nel Mellà!--C'è
di tutto; il difficile è trovare. C'è, per esempio, una carrozza; ma
appartiene all'Imperatore. Si dice che c'è pure un pianoforte; lo si è
visto entrare nella città anni sono; ma non si sa bene chi lo possegga.
È un divertimento poi il mandar a comprare alle botteghe. Una
candela?--Non c'è,--rispondono;--ma ve la facciamo subito.--Un metro di
nastro? Sarà fatto per domani sera.--Dei sigari? Abbiamo il tabacco; ve
li daremo fra un'ora.--Il viceconsole cerca da qualche giorno un vecchio
libro arabo, e tutti i mori interrogati si guardano in viso e
dicono:--Un libro? Chi ha dei libri a Fez? N'aveva uno tempo fa, se non
c'inganniamo, il tale dei tali; ma è morto e non sappiamo chi siano gli
eredi.--E giornali arabi, d'altri paesi, se ne potrebbero avere?--Un
solo giornale arabo, stampato in Algeri, arriva regolarmente a Fez, ma è
diretto all'Imperatore.--Insomma, ho un bel pensare che sono a meno di
duecento miglia da Gibilterra, dove appunto stassera, probabilmente, si
rappresenta la _Lucia di Lammermor_, e che di qui a otto giorni potrei
passeggiare sotto la loggia dei Lanzi a Firenze. Malgrado ciò, provo il
sentimento d'una lontananza immensa. Non son le miglia, son le cose e la
gente che ci allontanano di più dal nostro paese. Con che piacere
stracciamo la fascia alla _Gazzetta Ufficiale_ e rompiamo il suggello
alle lettere! Povere lettere che sfuggirono alle mani dei Carlisti,
passarono in mezzo ai briganti della Sierra Morena, superarono le roccie
della montagna rossa, sornotarono, strette dalla mano d'un beduino, le
acque del Kus, del Sebù, del Meches, del fiume della fontana azzurra, e
ci portarono una parola amorosa in mezzo agli improperi e alle
maledizioni.
* * * * *
Passiamo molte ore a veder lavorare i pittori. L'Ussi ha fatto un bello
schizzo del gran ricevimento, in cui è colta meravigliosamente la figura
del Sultano; il Biseo, pittore valentissimo d'architettura orientale,
sta copiando la facciata della casetta del giardino. Bisogna sentire,
per divertirsi, i soldati e i negozianti di Fez che vengono a vedere
quel quadretto. Vengono in punta di piedi alle spalle del pittore,
guardano facendo cannocchiale della mano e poi quasi tutti si mettono a
ridere come se avessero scoperto qualche grande stranezza. La grande
stranezza è che nel disegno il secondo arco della facciata è più piccolo
del primo, e il terzo più piccolo del secondo. Digiuni come sono d'ogni
idea di prospettiva credono quella ineguaglianza un errore, e dicono che
i muri sono storti, che la casa balla, che la porta è fuori di posto, e
ne fanno le alte meraviglie, e se ne vanno dando di ciuco all'artista.
L'Ussi è più stimato dopo che si sa che è stato al Cairo e che ha
dipinto la partenza della grande carovana per la Mecca, d'incarico del
Vicerè, che gli diede quindicimila scudi. Dicono però che il Vicerè è
diventato matto a pagare quindicimila scudi un lavoro in cui, a metter
molto, l'artista avrà speso cento lire di colori. Un negoziante domandò
al Morteo se l'Ussi dipinge anche i mobili. Ma le più belle toccano al
Biseo, che va ogni mattina in Fez nuova a copiare una moschea. Ci va,
s'intende, scortato da quattro o cinque soldati armati di bastone. Prima
che abbia messo al posto il cavalletto, gli sono intorno trecento
persone, e i soldati sono costretti a urlare e a sbracciarsi come
dannati per tenergli sgombro dinanzi appena tanto spazio ch'egli possa
vedere la moschea. Ben presto però non bastan più nè gli urli nè le
spinte, e allora bisogna che c'entri il bastone. Ogni pennellata, una
legnata; ma si lascian legnare e fanno peggio. Ogni tanto gli s'accosta
un Santo con intenzioni minacciose, e i soldati lo trattengono. V'è pure
qualche moro progressista, che gli s'avvicina in aspetto amichevole,
s'inchina, guarda, approva e s'allontana facendogli degli atti
d'incoraggiamento. La maggior parte però di questi progressisti ammirano
assai più la struttura del cavalletto e della seggiola portatile, che
non la pittura. Un giorno un moro d'aspetto selvaggio gli mostrò il
pugno, e poi, rivolgendosi verso i suoi concittadini, fece un lungo
discorso con voce e gesti da spiritato. Un interprete là presente ci
riferì che incitava il popolo contro il Biseo, dicendo che _quel cane_
era stato mandato dal Re del suo paese a copiare le più belle moschee di
Fez, perchè l'esercito cristiano, venendo poi ad assalire la città, le
potesse riconoscere e bombardare per le prime. Ieri poi (c'ero presente)
gli si accostò un vecchio moro stracciato, un viso di buon diavolo,
tutto ridente, che pareva avesse grandi cose da dirci, e stentando un
po' a spiccicar le parole, esclamò con voce commossa:--_France! Londres!
Madrid! Roma!_--Rimanemmo molto meravigliati, come ognuno può pensare.
Gli domandai se sapeva parlare francese o italiano o spagnuolo. Fece
cenno di sì.--Parlate dunque,--dissi. Si grattò la fronte, sospirò,
pestò i piedi e poi esclamò di nuovo:--_France! Londres! Roma!
Madrid!_--e accennava l'orizzonte. Voleva dire che aveva visto quei
paesi, e forse che una volta sapeva farsi capire nelle nostre lingue; ma
che aveva tutto dimenticato. Gli feci altre domande, ma non ne cavai
nulla di più di quei quattro nomi. E se n'andò ripetendo:--_Madrid!
Roma! France! Londres!_ e fin che ci vide, ci salutò affettuosamente,
esprimendo col gesto il rammarico di non poter parlare.--Si trova di
tutto fra questa gente,--diceva il Biseo indispettito,--persino degli
originali che ci voglion bene; ma non un cane che voglia lasciarsi
copiare!--Finora, infatti, tutti gli sforzi dei pittori non hanno
approdato a nulla. Si rifiutò persino il nostro fido Selam.--Hai paura
del diavolo?--gli domandò l'Ussi.--No,--rispose col suo accento
solenne,--ho paura di Dio.
* * * * *
Siamo saliti sulla cima del monte Zalag, il comandante, l'Ussi ed io,
guidati dal capitano di Boccard, carissimo giovane, ugualmente
ammirabile per la destrezza del corpo, per la forza dell'animo e per
l'acume dell'ingegno. Ci accompagnarono un ufficiale della scorta, tre
fantaccini, tre cavalieri e tre servi. Arrivati ai piedi del monte, che
è a un'ora e mezzo di cammino a nord-est della città, ci arrestammo per
far colezione; dopo di che il capitano mise una mela sulla cima d'un
bastone confitto in terra, e sulla mela uno scudo, e fece tirar a segno
colla sua rivoltella servi e soldati. Il premio era ghiotto; tirarono
tutti con grande impegno; ma essendo la prima volta che pigliavano in
mano quell'arma, nessuno colpì, e lo scudo fu regalato all'ufficiale
perchè lo dividesse fra tutti. C'era da ridere a vedere gli
atteggiamenti che prendevano per aggiustare la mira. Chi rovesciava la
testa indietro, chi si curvava tutto avanti, chi premeva il mento sul
cane, chi si metteva in guardia come un tiratore di sciabola. Abituati
tutti agli atteggiamenti terribili, nessuno sapeva adattarsi
all'atteggiamento composto e riposato, che il capitano insegnava. Un
soldato venne a domandarci se volevamo dare la mancia a una contadina
dalla quale egli aveva preso un vaso di latte per noi. Gli si rispose di
sì, ma a patto che la contadina stessa venisse a pigliarla. La contadina
venne. Era una donna sui trent'anni, nera, disfatta, coperta di cenci,
che avrebbe ispirato ripugnanza anche a un uomo affetto dalla più cieca
satiriasi. S'avvicinò a passo lento, coprendosi il viso con una mano, e
arrivata a cinque passi da noi, ci voltò le spalle e tese l'altra mano.
Quanto si stizzì il Comandante!--Stia tranquilla,--gridò,--non
m'innamoro, non perdo la testa, mi posso ancora dominare: Dio de' dei,
che spaventoso pudore!--Le mettemmo una moneta nella mano, raccolse il
vaso del latte, prese la corsa verso la sua capanna, e arrivata sulla
porta, spezzò il vaso profanato contro un sasso.... Cominciammo la
salita, a piedi, accompagnati da una parte della scorta. Il monte è alto
circa mille metri sopra il livello del mare, roccioso, ripidissimo,
senza sentieri. In pochi minuti il capitano disparve fra le roccie; ma
per il Comandante, l'Ussi e me, fu una delle dodici fatiche d'Ercole.
Avevamo ciascuno un arabo al fianco, che ci sorreggeva e c'indicava dove
mettere il piede; il che non c'impedì di battere molte patte sui
pietroni, rammentando con terrore le due prime strofe del _Natale_
d'Alessandro Manzoni. In alcuni punti fummo costretti ad arrampicarci
come gatti, aggrappandoci ai cespugli e all'erbe, strisciando sulle
roccie, raspando, sgambettando, afferrando le braccia delle nostre guide
come il naufrago afferra la tavola di salvamento. Di tratto in tratto
vedevamo sopra di noi qualche capra che pareva sospesa sulle nostre
teste, tanto era erta la salita; e i sassi, appena tocchi, rotolavano
fino ai piedi del monte. Coll'aiuto di Dio, dopo un'ora di stenti,
riuscimmo sulla cima, sfiniti, ma senza rotture. Che bellezza di veduta!
Giù nel fondo la città, una piccola macchia bianca della forma d'un
otto, circondata di mura nere, di cimiteri, di giardini, di case di
santo, di torri, e tutta la conca verdissima che la contiene; a sinistra
una lunga striscia luccicante, il Sebù; a destra, la grande pianura di
Fez, rigata d'argento dal Fiume delle perle e dal Fiume della fontana
azzurra; a mezzogiorno, le cime azzurrine della gran catena
dell'Atlante; a settentrione, le vette delle montagne del Rif; ad
oriente, la vasta pianura ondulata dove è la fortezza di Teza, che
chiude il passo fra il bacino del Sebù e il bacino della Muluia; sotto
di noi, grandi ondulazioni di terreno, gialle di grano e d'orzo, segnate
da innumerevoli sentieri, percorse da lunghissimi filari di aloè
giganteschi; una grandezza di linee, una magnificenza di verde, una
limpidezza di cielo, un silenzio, una quiete che beava l'anima. Chi
direbbe che in questo paradiso terrestre sonnecchia un popolo decrepito,
incatenato sopra un mucchio di rovine! Il monte che, visto dalla città,
pareva un cono, ha invece una forma allungata, e sulla sommità è tutto
roccia. Il capitano era salito sulla punta più alta; noi tre, più
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