Marocco - 07

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urlando senza posa. In pochi minuti la valle fu piena di fumo e d'odor
di polvere come un campo di battaglia. Da ogni parte turbinavano
cavalli, lampeggiavano fucili, sventolavano caic, svolazzavano cappe,
ondeggiavano caffettani rossi, gialli, verdi, azzurri, ranciati;
scintillavano sciabole e pugnali. Ci passavano accanto ad uno ad uno,
come fantasmi alati, vecchi, giovanetti, uomini di forme colossali,
figure strane e terribili, ritti sulle staffe, colla testa alta, coi
capelli al vento, col fucile disteso; e ognuno, sparando, lanciava un
grido selvaggio che gl'interpreti ci traducevano.--Guai a te!--Madre
mia!--In nome di Dio!--T'uccido!--Sei morto!--Son vendicato!--Altri
dedicavano il loro colpo a qualcuno.--Al mio padrone!--Al mio
cavallo!--Ai miei morti!--Alla mia amante!--Sparavano in alto, in terra,
indietro, chinandosi e rovesciandosi come se fossero legati alle selle.
Ad alcuni cadeva in terra il caic o il turbante; tornavano indietro di
carriera, e lo raccoglievano, passando, colla punta del fucile. Parecchi
roteavano l'arma al di sopra del capo, la buttavano in aria e la
riafferravano con una mano. Eran gesti convulsi, atteggiamenti
temerari, urli e sguardi di gente inebbriata che rischiasse la vita con
una gioia furiosa. Molti slanciavano il cavallo come se si volessero
uccidere; volavano, sparivano e non tornavano che lungo tempo dopo colla
faccia stravolta e pallida di chi ha visto in faccia la morte. I più dei
cavalli grondavano sangue dal ventre; i cavalieri avevano i piedi, le
staffe, l'estremità delle cappe macchiate di sangue. Alcune figure, in
quella moltitudine, mi rimasero impresse fin dal primo momento. Fra gli
altri un giovane con una testa ciclopica, un par di spalle smisurate ed
un ventre enorme, che portava un caffettano color di rosa, e gettava
delle grida che parevan ruggiti d'un leone ferito;--un ragazzo d'una
quindicina d'anni, bello, scapigliato, tutto bianco, che mi passò tre
volte dinanzi, gridando:--Dio mio! Dio mio!--; un vecchio lungo ed
ossuto, un viso di malaugurio, che volava cogli occhi socchiusi e un
sorriso satanico sulle labbra, come se portasse in groppa la peste;--un
nero, tutt'occhi e tutto denti, con una mostruosa cicatrice a traverso
la fronte, che passava dibattendosi furiosamente sopra la sella, come
per liberarsi dalla stretta d'una mano invisibile. Facendo questo,
accompagnavano tutti la marcia della carovana, salivano e scendevano
dalle alture, si raggruppavano, si disperdevano, formavano e disfacevano
rapidamente ogni sorta di combinazioni di colori, che abbagliavan gli
occhi come lo sventolìo di una miriade di bandiere. Tutta questa gente,
questo movimento vertiginoso, questo strepito, scoppiato
inaspettatamente, all'apparire del sole, in quella gola angusta dove lo
spettacolo si presentava tutto insieme allo sguardo come dentro a un
anfiteatro, ci colpì d'un tale stupore che per un pezzo nessuno aprì
bocca, e le prime parole furono poi un'esclamazione unanime e
calorosa:--È bello! È bello! È bello!
A poca distanza dall'uscita della gola l'Ambasciatore si fermò, e tutti
scendemmo a terra per riposarci all'ombra d'un gruppo d'olivi.
La scorta della provincia di Laracce continuò le sue cariche e i suoi
fuochi davanti a noi.
Il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada verso il luogo fissato
per l'accampamento.
Eravamo arrivati alla _Cuba_ di Sidi-Liamani.
Nel Marocco si chiama _Cuba_, che significa cupola, una piccola cappella
quadrata, coperta d'una cupola semisferica, nella quale è seppellito un
santo. Queste _Cube_, frequentissime particolarmente nel mezzogiorno
dell'Impero, poste la maggior parte in luoghi eminenti presso una
sorgente e una palma, e visibili, per la loro nivea bianchezza, a grande
distanza, servono di guida ai viaggiatori, vengon visitate dai fedeli e
sono per lo più custodite da un discendente del Santo, erede della
santità, il quale abita una casuccia vicina alla tomba e vive
dell'elemosina dei pellegrini. La _Cuba_ di Sidi-Lamani era posta sopra
una piccola altura, a pochi passi da noi. Alcuni arabi della campagna
stavan seduti dinanzi alla porta. Dietro a loro spuntava la testa del
vecchio decrepito--il Santo--che ci guardava con una stupida meraviglia.
In pochi minuti divamparono i fuochi della cucina, e di lì a poco si
fece colezione.
Una scatola di sardine, vuota, buttata via dal cuoco, fu raccolta dagli
arabi, portata dinanzi alla porta della _Cuba_ e fatta oggetto d'un
lungo esame e di conversazioni animate.
Finito il _lab el barode_, quasi tutti i cavalieri della scorta, scesi a
terra, si sparpagliarono per la piccola valle, parte per far pascolare i
cavalli, parte per riposare. Alcuni, rimasti in sella, stettero di
vedetta sulle alture.
§ § § § §
In quel frattempo, passeggiando col capitano, osservai per la prima
volta, colla scorta delle sue indicazioni, i cavalli marocchini. Sono
tutti di piccola statura, tanto che tornato in Europa, coll'occhio
abituato alle loro forme, i cavalli europei, anche di statura mezzana,
mi parvero, sulle prime, enormi. Hanno l'occhio vivo, la fronte un po'
schiacciata, le narici molto aperte, le ossa zigomatiche molto
sporgenti, la testa quasi tutti bellissima; lo stinco e la tibia un po'
curvi, ciò che dà loro una particolare elasticità di movimenti; la
groppa manchevole, fuggente, per così dire, di sotto alla sella, il che
li rende più abili al galoppo che al trotto; e non mi ricordo infatti
d'aver mai visto andar di trotto un cavaliere marocchino. Visti quando
riposano e quando vanno di passo, anco i più belli, non danno
nell'occhio; slanciati alla corsa, si trasfigurano e riescon superbi
animali. Benchè si nutriscano assai meno dei nostri e siano bardati
assai più pesantemente, reggono alla fatica più dei nostri. Anche il
modo di cavalcare è diverso. Le staffe sono tenute molto alte; il
cavaliere sta sulla sella colle gambe piegate quasi ad angolo retto,
tiene le redini lunghe e dirige il cavallo con movimenti larghissimi. La
sella ha quei due rilievi, chiamati da noi con termine tecnico il pomo e
la paletta, altissimi, che toccano il petto e la schiena del cavaliere,
e lo ritengono in maniera da rendergli molto difficile la caduta. La
maggior parte dei cavalieri, calzati di piccoli stivali di cuoio giallo
senza talloni, non portano sproni e pungono il cavallo colla staffa;
gli altri hanno per sproni due piccoli ferri acuminati, della forma d'un
pugnale, fissati al calcagno con un cerchietto metallico e una
catenella. Si dicono cose ammirabili del grande amore che nutre l'arabo
per il cavallo, l'animale prediletto del profeta; si dice che lo
considera come un essere sacro; che ogni mattina, al levar del sole, gli
mette la mano destra sulla testa, mormorando: _bismillah!_ (nel nome di
Dio!) e si bacia poi la mano, che crede santificata da quel contatto;
che gli prodiga ogni sorta di cure e di carezze. E saran cose vere. Ma
questo suo grande amore, per quello ch'io vidi, non gl'impedisce di
lacerargli i fianchi senza bisogno, di lasciarlo esposto al sole quando
potrebbe ripararlo all'ombra, di condurlo a bere, a un'ora di cammino,
colle zampe legate, di esporlo dieci volte al giorno, per puro spasso, a
spezzarsi le gambe, e infine di trascurare la bardatura in maniera che
il più diligente di loro, messo in un reggimento di cavalleria europea,
passerebbe sei mesi dell'anno in prigione.
§ § § § §
Il caldo essendo forte, si stette parecchie ore all'ombra; ma a nessuno
riuscì di dormire, per cagione degli insetti. Erano le prime avvisaglie
d'una guerra tremenda che doveva durare, inferocendo di giorno in
giorno, fino alla fine del viaggio. Appena sdraiati in terra, eravamo
assaliti, punti, solleticati da cento parti, come se ci fossimo buttati
sopra un letto di ortiche. Non erano che bruchi, ragni, formiconi,
tafani, cavallette; ma grossi, petulanti e ostinati in una maniera
inaudita. Il Comandante, che per rallegrare la brigata aveva preso il
partito di esagerare favolosamente i pericoli, e lo faceva con un garbo
ammirabile, ci assicurava che quelli erano animalini microscopici
appetto agli insettacci che avremmo trovati avvicinandoci a Fez e
innoltrandoci nell'estate; e che di noi non sarebbe tornato in Italia
che qualche resto riconoscibile a stento dai parenti più stretti e dagli
amici più intimi. Il cuoco udendo quelle parole, fece un sorriso forzato
e diventò pensieroso. Vicino a noi c'era una tela di ragno smisurata,
distesa sopra alcuni cespugli, come un lenzuolo messo ad asciugare. Mi
pare ancor di sentire il comandante esclamare:--Ma in questo paese tutto
è gigantesco, formidabile, miracoloso!--Ed osservava con ragione che il
ragno che aveva fatto quella tela doveva essere almeno grosso quanto un
cavallo. Ma non riuscimmo a scoprirlo. I soli che dormissero erano gli
arabi, coricati la maggior parte al sole, con una processione di
bestiaccie addosso. I due pittori disegnavano, tormentati da un nuvolo
di mosche feroci, che strappavano all'Ussi, a due a tre per volta, tutta
la ricchissima litania dei sacrati fiorentini
Novi, arditi, da far testo di lingua.
Scemato un po' il caldo, la scorta di Had-el-Garbìa, il Console
d'America e il Vicegovernatore di Tangeri, venuto là per dare l'ultima
volta il buon viaggio all'Ambasciatore, si congedarono; e noi ci
rimettemmo in cammino, seguiti dai trecento cavalieri della provincia di
Laracce.
§ § § § §
Vaste pianure ondulate, coperte qui di grano, là d'orzo, più oltre di
stoppia gialla, altrove d'erba e di fiori; qualche tenda nerastra e
qualche tomba di santo; di tratto in tratto una palma; di miglio in
miglio tre o quattro cavalieri che si riunivano alla scorta; una
solitudine immensa, un sereno purissimo, un sole abbagliante: sono gli
appunti che trovo nel mio quaderno intorno alla seconda marcia del
cinque maggio.
Dopo tre ore di cammino arrivammo a Tleta de Reissana dov'era
l'accampamento.
Le tende erano piantate, come al solito, in circolo, in una conca
angusta e profonda, coperta d'erbe e di fiori altissimi che quasi
c'impedivano il passo. Pareva di essere dentro a una grande aiuola di
giardino. I letti e i bauli sotto le tende, erano quasi nascosti in
mezzo alle margheritine, ai rosolacci, alle primavere, ai ranuncoli, a
ombrellifere d'ogni grandezza e d'ogni colore. Accanto alla tenda dei
pittori s'alzavano due aloé enormi con tutti i rami fioriti.
Poco dopo il nostro arrivo, giunse da Laracce, per visitare
l'Ambasciatore, l'agente consolare d'Italia, il signor Guagnino, vecchio
negoziante genovese, che vive da quarant'anni sulla costa
dell'Atlantico, conservando gelosamente puro l'accento della lingua di
Balilla; e verso sera venne, non so di dove, un arabo della campagna per
consultare il medico dell'ambasciata.
Era un povero vecchio curvo e zoppicante; un soldato della Legazione lo
condusse dinanzi alla tenda del signor Miguerez.
Il signor Miguerez, che parla l'arabo, lo interrogò, e conosciuto il suo
male, si mise a frugare nella farmacia portatile per cercare non so che
medicinale. Non trovandolo, mandò a chiamare Mohamed Ducali, gli fece
scrivere in arabo, sopra un foglietto di carta, una ricetta colla quale
il malato avrebbe potuto, tornando in mezzo ai suoi, farsi fare quello
che gli occorreva. Era un medicinale di cui gli arabi fanno grande uso.
Mentre il Ducali scriveva, il vecchio mormorava una preghiera.
Scritta che fu la ricetta, il medico la porse al malato.
Questo, senza dargli tempo di dire una parola, afferrò il foglio e se lo
ficcò in bocca con tutt'e due le mani. Il medico gridò:--No! no! Sputa!
Sputa!--Fu inutile. Il povero vecchio masticò la carta coll'avidità d'un
affamato, la mandò giù, ringraziò il dottore e si mosse per andarsene.
Ci volle del buono e del bello a persuaderlo che la virtù della medicina
non consisteva nella carta, e a fargli prendere un'altra ricetta.
§ § § § §
Questo fatto non può destare meraviglia in chi sappia che cos'è la
medicina nel Marocco. La medicina v'è esercitata quasi unicamente dai
ciarlatani, dai negromanti e dai santi. Qualche sugo d'erba, il salasso,
la salsapariglia per il morbo celtico, la carne secca di serpente o di
camaleonte per le febbri intermittenti, il ferro rovente per le ferite,
certi versetti del Corano scritti in fondo ai recipienti dei medicinali
o sopra un pezzetto di carta che il malato porta appeso al collo, sono i
rimedi principali. Lo studio dell'anatomia essendo vietato dalla
religione, è facile immaginare a che cosa si riduca la chirurgia.
Basterà dire che i chirurghi strappano le tonsille colle dita e tentano
l'estrazione della pietra con un rasoio o col primo gancio di ferro che
si trovano ad aver fra le mani. L'amputazione è aborrita. I pochi arabi
assistiti da medici europei muoiono fra atrocissimi spasimi piuttosto di
subire il taglio che salverebbe loro la vita. Ne segue che sebbene siano
frequentissimi i casi di perdita d'un membro, specialmente per lo
scoppio dei fucili, non si vedono nel Marocco che pochissimi mutilati; e
i più di quei pochissimi sono disgraziati ai quali il carnefice tagliò
le mani con un coltellaccio, e il catrame bollente, in cui, secondo
l'uso, tuffarono i moncherini, arrestò l'emorragia. I loro rimedi
violenti, però, e specialmente il ferro rovente, ottengono qualche volta
degli effetti ammirabili; e si applicano questi rimedi brutalmente,
temerariamente, senz'aiuti. Ma o per poca sensibilità nervosa o per la
vigoria dell'animo indurito dalla fede fatalista, resistono con una
forza prodigiosa ai più tremendi dolori. Si metton le ventose con vasi
di terra e tanto fuoco da arrostirsi la schiena; si piantano il pugnale
negli apostemi, alla cieca, a rischio di rompersi le arterie; si fanno
scorrere una brace accesa sopra un braccio piagato, con mano ferma,
cacciando col soffio il fumo delle carni, senza lasciarsi sfuggire un
lamento. Le malattie più frequenti son le febbri, le oftalmie, la
tigna, l'elefantiasi, l'idropisia: ma la più comune è la sifilide,
trasmessa di generazione in generazione, alterata, che si produce in
forme strane ed orrende, di cui tribù intere sono infette e migliaia di
sventurati muoiono; e ne morirebbero assai più se non fosse la sobrietà
estrema di nutrimento a cui la maggior parte son costretti dalla miseria
e dal clima. Medici europei non ce ne sono che nelle città della costa;
nella stessa Fez non v'è altro che qualche ciarlatano rinnegato, fuggito
d'Algeria o dai presidii spagnoli. Quando l'Imperatore o un ministro o
un ricco Moro s'ammala, manda a[tn146] chiamare un medico europeo in una
città della costa. Ma non mandano che quando son ridotti agli estremi,
trascurano per anni ed anni le malattie, e il più delle volte il medico
non arriva che per assistere alla morte. Nei medici europei hanno gran
fede; la vista dei medicinali, delle preparazioni chimiche, degli
strumenti chirurgici dà loro un concetto immenso del potere della
scienza; se ne ripromettono prodigi; pigliano le prime medicine e
seguono le prime prescrizioni colla docilità e l'allegrezza di gente
sicura d'una guarigione immediata. Ma se la guarigione non è immediata,
perdono ogni fede, interrompono la cura e ricorrono ai ciarlatani. Una
cosa, sopra tutte, domandano vecchi e giovani, ricchi e poveri, ai
medici europei, ed è ciò che l'imperatore Eliogabalo domandava ai suoi
cuochi. E' quando lo domandano? Quando quotidianamente non possono più
varcare le soglie del paradiso di Maometto più di tante volte quanti
sono i precetti fondamentali dell'Islam! A questo punto si tengon già
decaduti! Onde ognuno può capire quanto sia generalmente precoce la
decadenza vera, e a che abbominevoli pervertimenti siano trascinati i
più dal furore delle passioni.
§ § § § §
La sera passò senz'avvenimenti notevoli, fuorchè la scoperta ch'io feci
d'uno scorpionaccio nero sopra il cuscino del mio letto, nel momento che
stavo per coricarmi. Fu però un terrore passeggiero, poichè
avvicinandomi a poco a poco col lume, lessi sul dorso dell'animale
l'iscrizione rassicurante:--_Cesare Biseo fece addì 5 maggio 1875._
§ § § § §
La mattina all'alba partimmo alla volta della città d'Alkazar.
Il tempo era scuro. I colori pomposi dei trecento soldati della scorta
pigliavano un vigore meraviglioso dal grigio del cielo e dal verde cupo
della campagna. Lo stesso Hamed Ben Kasen Buhamei, fermo sopra un rialto
di terreno vicino all'accampamento, pareva che guardasse con
compiacenza quei bei cavalieri che gli passavano dinanzi a grossi
drappelli, silenziosi, gravi, cogli occhi fissi all'orizzonte, come
avanguardie d'un esercito la mattina d'una giornata di battaglia. Per un
buon tratto, camminammo in mezzo ad olivi e cespugli[tn148] altissimi;
poi entrammo in una vasta pianura tutta coperta di fiori gialli e
violetti, dove la scorta si sparpagliò per fare il _lab el barode_. Lo
spettacolo in quel luogo aperto, sopra quel tappeto di fiori, sotto quel
cielo minaccioso era così stranamente bello, che l'Ambasciatore si fermò
più volte, e fece fermare tutto il suo seguito, per contemplarlo. Non
posso credere che quella gente abbia un'arte segreta di raggrupparsi e
di disordinarsi; ma quella mattina me ne venne il sospetto. Avrei detto
che tutti i loro movimenti e tutte le loro combinazioni di colori, erano
stati concertati da un coreografo. In mezzo a quel tal gruppo di
cavalieri dalle cappe turchine, s'andava sempre a ficcare, come se ce
l'avessero mandato, un cavaliere colla cappa bianca. In mezzo a un
gruppo di caffettani bianchi, cascava sempre a proposito, come la
pennellata d'un artista, un caffettano color di rosa. I colori armonici
si cercavano, s'univano, amoreggiavano insieme per la durata d'una
carica, e si separavano per formare altre armonie. Eran trecento e
parevano un esercito; si vedevano da tutte le parti; ci svolazzavano
intorno come uno sciame di uccelli; ci assordavano, ci abbagliavano,
c'innamoravano, facevano disperare i pittori.--Canaglia!--diceva
l'Ussi--se v'avessi nelle unghie a Firenze!


ALKAZAR-EL-KIBIR

A un certo punto l'Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si
fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là
a visitare le rovine d'un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del
ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette
qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna,
ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di
quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima,
il giorno quattro d'agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta
cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando d'uno dei
più grandi capitani dell'Africa, e d'uno dei più giovani, più
avventurosi e più sventurati monarchi d'Europa. Per le sponde di quel
fiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia,
si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili
degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà
portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di
Guglielmo d'Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi; e la
cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo
sul terreno di quella memorabile battaglia d'Alkazar, che costernò
l'Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel
fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava, al tempo della battaglia,
la strada d'Alkazar. In vicinanza del ponte era l'accampamento di Mulei
Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di
Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di
quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini
ci si affollavano! Ma fuorchè le rovine del ponte, non v'era una pietra,
un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime
cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva
combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore
del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la
sera? In qual punto del fiume s'era annegato Mohamed il nero, fratricida
scoronato, provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re
Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di
scimitarra, che uccidevano con lui l'indipendenza del Portogallo e le
ultime speranze del Camoens? E dov'era la lettiga del Sultano Moluk,
quand'egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla
bocca? Mentre stavamo, su questi pensieri, la scorta ci guardava di
lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di
cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro
passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il
campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci
mettemmo in cammino con loro, guardavano ancora qua e là con occhio
curioso, come per cercare se in quell'erbe e in quei fiori ci fosse
qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata.
§ § § § §
Si passò il Mkhacem e l'Uarrur,--due piccoli affluenti del Kus, o
Lukkos, il _Lixos_ degli antichi, che dalle montagne del Rif, dove
nasce, si va a gettare nell'Atlantico a Laracce;--e si continuò a
camminare verso Alkazar a traverso a una serie di colline aride, non
incontrando che di mezz'ora in mezz'ora qualche arabo e qualche
cammello.
Finalmente, pensavamo strada facendo, s'arriverà a una città! Eran tre
giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di
uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò
Alkazar era la prima città dell'interno a cui giungevamo. Sapevamo
d'essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava, via
via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene, ci
trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria,
l'Ambasciatore dinanzi, gl'interpreti ai lati.
Il tempo s'era rasserenato, e un'impaziente allegrezza animava tutta la
carovana.
Dopo quattr'ore di cammino, all'improvviso, dall'alto d'una collina,
vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città
d'Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso
punto ci ferì l'orecchio uno strepito di fucilate e il suono d'una
musica infernale.
Era il governatore della città che ci veniva incontro coi suoi
ufficiali, un drappello di soldati a piedi, e una banda.
Dopo pochi minuti c'incontrammo.
Ah! chi non ha visto la banda d'Alkazar, quei dieci sonatori di piffero
e di corno, vecchi di cent'anni e ragazzi di dieci, tutti a cavallo ad
asinelli grossi come cani, cenciosi, mezzi nudi, con quelle teste rase,
con quegli atteggiamenti di satiri, con quelle faccie di mummie, non ha
visto, credo, lo spettacolo più lagrimevolmente comico che si possa dare
sotto la volta del cielo.
Mentre il vecchio Governatore dava il benvenuto, al ministro, i soldati
tiravano fucilate in aria, e la banda continuava a sonare.
Ci avanzammo fino a un mezzo miglio dalla città, in un campo arido, dove
si dovevano piantare le tende.
La banda ci accompagnò suonando.
Fu rizzata la tenda della mensa, sotto la quale ci riparammo, mentre i
cavalieri della scorta facevano le solite cariche.
La banda, schierata davanti alla tenda, continuava a sonare con ferocia
crescente.
Un gesto supplichevole dell'Ambasciatore li fece tacere.
Allora assistemmo a una scena assai curiosa.
Quasi nello stesso punto si presentarono concitatamente
all'Ambasciatore, uno a destra e l'altro a sinistra, un nero ed un
arabo. Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col
caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di
aranci e un piatto di cuscussù; l'arabo, d'aspetto povero, vestito della
sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest'atto, si
scambiarono uno sguardo fulmineo.
Erano due nemici mortali.
L'Ambasciatore, che li conosceva e li aspettava, chiamò l'interprete,
sedette e cominciò l'interrogatorio.
Erano venuti a chiedere un giudizio.
Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno
dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte
terre nei dintorni d'Alkazar. L'arabo era un uomo della campagna. La
loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo
padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l'arabo
accusandolo, e sostenendo l'accusa con molte testimonianze, d'avergli
rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L'arabo, che si diceva
innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro
il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio,
era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l'Ambasciatore più
generoso e più giusto, e inteso nominare l'Ambasciatore d'Italia, era
andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione,
chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto,
protezione e giustizia. L'Ambasciatore l'aveva esaudito, s'era
intromesso per mezzo dell'agente di Laracce, s'era rivolto alle autorità
della città d'Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl'intrighi del
nero, per la fiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto
nelle stesse peste di prima; fatto anzi vittima di nuove accuse e di
nuove persecuzioni. Ora la presenza dell'Ambasciatore doveva[tn156]
sciogliere il nodo.
Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl'interpreti
traducevano rapidamente.
Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano
le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L'arabo, un uomo sui
trent'anni, infermiccio, d'aspetto triste, parlava con una foga
irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio, battendo i pugni in
terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione, fulminando
il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che
aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo
aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva
fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne,
che aveva giurato la sua morte, ch'era il flagello del paese, un
maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e
sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l'angoscia gli
strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una
di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz'alterarsi,
sorrideva impercettibilmente colla punta delle labbra, immobile,
impassibile, sinistro come una statua della Perfidia.
La discussione durava da un pezzo, e pareva che non dovesse più finire,
quando l'Ambasciatore la troncò con una risoluzione che fu accettata di
buon grado dalle due parti. Chiamò Selam, che comparve sull'istante coi
suoi grandi occhi neri spalancati, e gli ordinò di saltare a cavallo e
andare di galoppo al villaggio dell'arabo, distante un'ora e mezzo da
Alkazar, a chiedere informazioni agli abitanti intorno alle persone ed
ai fatti. Il nero pensava:--Hanno paura di me: o mi sosterranno o non
diran nulla.--L'arabo pensava invece, e con più ragione, che interrogati
da un soldato d'un'Ambasciata, avrebbero avuto maggior coraggio di dire
la verità.
Selam partì come una freccia; i due contendenti s'allontanarono, e non
li rividi più. Seppi poi che gli abitanti del villaggio avevan tutti
testimoniato in favore dell'arabo e a carico del nero, il quale, per
sollecitazione dell'Ambasciatore, fu condannato a restituire alla sua
vittima tutto il denaro che le aveva estorto.
§ § § § §
In quel frattempo i servi e i soldati avevano piantato tutte le tende, i
soliti infelici avevano portato la solita _muna_ e qualche gruppo
d'abitanti della città s'erano avvicinati all'accampamento.
§ § § § §
Appena scemato un po' il caldo, ci dirigemmo tutti insieme verso la
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