Marocco - 09

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il benvenuto a tutti gli altri con un gesto pieno di maestà e di grazia.
Ci rimettemmo in cammino.
Per un pezzo, nessuno di noi potè staccar gli occhi da quell'uomo. Era
il più simpatico governatore che avessimo incontrato fino allora. Di
statura mezzana, di forme snelle, bruno, aveva un occhio penetrante e
dolce, un bel naso aquilino e una folta barba nera; e sorridendo,
mostrava due file di denti bellissimi. Era tutto ravvolto in una cappa
fine e bianca come la neve, col cappuccio tirato sul turbante; e montava
un cavallo nero corvino, con tutta la bardatura color celeste. Doveva
essere un uomo generoso, amato e contento. E fu un inganno della mia
fantasia, o anche l'aspetto dei duecento cavalieri di Karia-el-Abbassi
rifletteva vagamente la gentilezza del Governatore. Mi parvero visi
aperti e pacati di gente che da molti anni godesse la grazia miracolosa
d'un governo umano. E quest'apparenza, e le capanne che cominciavano a
farsi più frequenti per la campagna, e il tempo sereno raffrescato da
un'arietta odorosa, mi diedero per qualche momento l'illusione che
quella provincia fosse un oasi di prosperità e di pace in mezzo al
miserando impero dei Sceriffi.
§ § § § §
S'attraversò un villaggio, formato da due file di tende di pelo di
cammello[tn183], chiuse con canne e fascine: ogni tenda fiancheggiata da
un orticello cinto da una siepe di fichi d'India. Di là dalle tende
pascolavano vacche e cavalli; davanti, sulla nostra strada, v'era
qualche gruppo di bimbi mezzi nudi, accorsi per vederci; le donne e gli
uomini coperti di cenci, ci guardavano di dietro alle siepi. Nessuno ci
mostrò i pugni, nessuno ci maledì. Appena fummo fuori del villaggio,
tutti uscirono dalle loro capanne, e allora vedemmo una turba di qualche
centinaio di pezzenti neri, luridi, attoniti, che ci fecero l'effetto
della popolazione risuscitata d'un camposanto. Alcuni, correndo, ci
tennero dietro per un pezzo; altri disparvero dopo pochi momenti dietro
un rialto del terreno.
§ § § § §
La configurazione del paese che percorrevamo, dava luogo a una mirabile
varietà d'effetti pittoreschi della scorta e della carovana. Era una
successione di valli profonde, parallele, formate da grandi onde di
terreno, tutte fiorite come giardini. Passando d'una valle in un'altra,
si perdeva di vista la scorta per qualche momento; poi si vedevano
spuntare sulla sommità dell'altura, dietro di noi, prima tutte le punte
dei fucili, poi i fez e i turbanti, poi i visi, e man mano le persone
intere e i cavalli, come se uscissero dal seno della terra. Arrivati
sopra un'altura vedevamo, voltandoci indietro, scorazzare quei duecento
cavalli giù nella valle piena di fumo e rimbombante di fucilate; e via
via su tutte le alture che ci eravam lasciate alle spalle, cavalli,
muli, servi, soldati, che apparivano un momento sulle sommità e
sparivano subito come se precipitassero in un burrone. Vista a traverso
tutte quelle valli, la carovana pareva interminabile e presentava
l'aspetto grandioso d'un esercito di spedizione o d'un popolo emigrante.
§ § § § §
Arrivammo finalmente a un villaggio, Karia-el-Abbassi, formato dalla
casa del Governatore, e da un gruppo di capanne e di casupole
ombreggiate da qualche fico e da qualche olivo selvatico.
Il Governatore ci offerse di riposare in casa sua: la carovana tirò
innanzi fino al luogo designato per l'accampamento.
S'attraversarono due o tre cortiletti chiusi fra quattro muri nudi, e
s'entrò in un giardino, sul quale s'apriva la porta principale della
casa di Ben-el-Abbassi: una casetta bianca, senza finestre, silenziosa
come un convento. Il governatore era scomparso. Alcuni schiavi mulatti
ci fecero entrare in una piccola stanza a terreno, pure bianca,
senz'altra apertura che la porta principale, e una porticina in un
angolo. V'erano due alcove, tre materasse bianche stese sul pavimento a
musaico e qualche cuscino ricamato. Era la prima volta che riposavamo
fra quattro pareti dopo la nostra partenza da Tangeri! Ci sdraiammo
voluttuosamente nelle alcove e stemmo aspettando con viva curiosità la
continuazione dello spettacolo.
Il Governatore ricomparve, ravvolto in un caic bianchissimo, che gli
scendeva dal turbante fino ai piedi. Lasciò le babbuccie gialle in un
canto e sedette, coi piedi nudi, sopra una materassa, in mezzo al Ducali
e all'Ambasciatore. Gli schiavi portarono vasi di latte e piatti di
dolci, ed egli stesso, Ben-el-Abbassi, fece il tè e lo versò in
bellissime tazzine di porcellana chinese, che il suo servo favorito, un
giovane mulatto dal viso rabescato, portò in giro ad una ad una. Non si
può dire la grazia e la dignità che aveva nell'aspetto e nei modi quel
governatore, probabilmente ignorantissimo, di poche migliaia d'arabi
attendati, che forse in tutta la sua vita non aveva avuto che fare con
cinquanta persone civili! Messo nel più aristocratico salotto d'Europa,
nessuno avrebbe avuto una sillaba a ridire sopra il menomo dei suoi
movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un'odalisca uscita dal bagno.
Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui
un po' di color di rosa, là un po' d'azzurro, qua un po' di ranciato,
tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran
voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto,
come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e
guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il
giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto
volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva
che in Italia c'eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia.
Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch'era dietro a lui, e fece
capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse
intorno rapidamente due grand'occhi spaventati e curiosi, e disparve.
Era una figliuola del governatore e d'una nera. Il governatore se
n'accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo
alla stanza fumava l'aloè nei profumieri; davanti alla porta v'era un
drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s'alzava un gruppo di
palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d'Africa.
Tutt'a un tratto, non so come, rimasi profondamente stupito di trovarmi
in quel luogo e pensai a me stesso, seduto nella mia cameretta a Torino,
come a un'altra persona. Il Governatore, alzandosi, mi richiamò al
sentimento della realtà. Strinse la mano a tutti, infilò i piedi nelle
babbuccie, s'inchinò con bel garbo e disparve per la porticina.--Va a
portar notizie alla sua favorita--disse uno. Se potessi sentire quello
che gli domanda!--pensai--Come sono? Cosa sono? Come parlano? Che
vestiti hanno? Oh lasciameli vedere, amor mio, un momento solo, a
traverso le fessure della porta ed io ti colmerò di carezze!--E
probabilmente l'amante cortese cedette, e la bella misteriosa, spiandoci
all'uscita, esclamò:--Allà mi protegga! Che spaventose figure!
§ § § § §
Andando all'accampamento, ch'era a un mezzo miglio dalla casa del
Governatore, sopra un altopiano coperto d'erba secca, ci sentimmo per la
prima volta scottar dal sole in maniera che ognuno di noi cominciò, come
dice della plebe milanese, ai tempi della peste, il Tadino, «a chiudere
li denti et inarcare le ciglia.» E non erano che gli otto di maggio! E
non eravamo ancora a cento miglia dalla costa del Mediterraneo! E ci
rimaneva da attraversare la grande pianura del Sebù!
Nonostante il caldo, l'accampamento di Karia-el-Abbassi fu rallegrato,
verso sera, da un insolito concorso di gente. Da una parte una lunga
fila d'arabi, seduti in terra, assistevano alle cariche dei cavalieri
della scorta; dalla parte opposta altri arabi giuocavano alla palla; un
po' più lontano, un gruppo di donne imbacuccate nel loro rozzo caic ci
osservavano con stupore gesticolando fra loro; e frotte di bambini
scorazzavano tutt'intorno. Il popolo di Ben-el-Abbassi pareva veramente
meno selvaggio dei suoi[tn188] vicini del Garb.
Il Biseo ed io ci avvicinammo ai giuocatori. Appena ci videro, smisero
di giuocare, si consultarono gli uni cogli altri e poi ricominciarono.
Erano quindici o venti, la maggior parte pezzi di giovani larghi, lunghi
e nerboruti, che non avevano altro addosso che una camicia stretta
intorno alla vita, e una specie di mantello di tela grossolana e
sudicia, rigirato intorno al corpo come un caic. Giocavano diversamente
da quelli che avevo visti a Tangeri. Uno con un colpo del piede buttava
la palla a una grande altezza; tutti gli altri facevano ad afferrarla in
aria quanto più in su fosse possibile, spiccando in direzione verticale
dei salti altissimi, come se si levassero a volo; e chi riusciva ad
afferrarla, la buttava in aria alla sua volta. Spesso, in quel serra
serra, uno dei più robusti, cadendo, travolgeva nella caduta alcuni
altri, i quali si trascinavan dietro i rimanenti, e allora rotolavano
per un lungo tratto tutti insieme intrecciati e confusi sgambettando e
ridendo, senza darsi pensiero al mondo di ciò che esponevano al sole.
Più d'uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo
legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva
probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una
volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un'idea. La raccolsi, la
misi sopra una palma aperta, vi feci su coll'altra mano due o tre gesti
di negromante e la ributtai. Per qualche momento nessuno dei giuocatori
osò riprenderla. Vi si avvicinarono, la guardarono, la toccarono col
piede in atto di diffidenza; e solo dopo avermi visto ridere e accennare
che era stato uno scherzo, il più ardito la raccolse e la rilanciò
ridendo ai suoi compagni.
Intanto quasi tutti i ragazzi che scorazzavano qua e là ci s'erano
affollati intorno. Saranno stati una cinquantina, e di tutta la roba che
avevano addosso fra tutti non si sarebbe trovato un rigattiere che
offrisse cinquanta centesimi. Alcuni erano bellissimi, molti tignosi, la
maggior parte color caffè, alcuni così tra il verdastro e il
giallognolo, che parevano impastati di sostanze vegetali. Parecchi
avevano il codino alla chinese. Da principio ci stavano discosti una
decina di passi, guardandoci con sospetto, e scambiandosi, a bassa voce,
le proprie osservazioni. Poi, vedendo che non facevamo nessun atto
ostile, ci si avvicinarono a poco a poco fin quasi a toccarci e
cominciarono ad alzarsi in punta dei piedi, a chinarsi, a piegarsi di
qua e di là, per vederci bene da tutte le parti, come avrebbero fatto
intorno a due statue. E noi due immobili. Uno ci toccò una scarpa colla
punta del dito e ritirò subito la mano come se si fosse scottato; un
altro mi fiutò la manica. Eravamo circondati, sentivamo ogni sorta
d'odori esotici, ci pareva già che ci brulicasse addosso
qualchecosa.--Andiamo,--dissi al Biseo,--è tempo di liberarsi--Io ho un
mezzo infallibile,--rispose. Così dicendo tirò fuori bruscamente l'album
e la matita e fece l'atto di mettersi a copiare una di quelle faccie. In
un batter d'occhio si dispersero tutti come uno sciame d'uccelli.
Poco dopo ci si avvicinarono alcune donne.--Oh miracolo!--si disse noi
altri.--Purchè non vengano a darci una pugnalata in nome di Maometto!--E
ci tenemmo sull'avviso. Erano invece povere malate, smunte, che avevano
appena la forza di reggersi in piedi e di tener su il braccio per
coprirsi il viso col caic; fra le quali una giovane, che gemeva da
metter compassione, non lasciando vedere che un occhio azzurro velato
dalle lagrime. Capii che cercavano il medico e accennai dove dovevano
andare. Una di esse, spiegando la parola col gesto, mi domandò se si
pagava. Risposi di no. Allora s'avviarono vacillando verso la tenda del
medico. Volli assistere al consulto.--Che cosa vi sentite?--domandò il
signor Miguerez, in arabo, alla prima che si presentò.--Un gran dolore
qui,--rispose, indicando una spalla.--Che cosa ci avete?--(Non ricordo
che cosa abbia risposto).--Bisogna ch'io ci veda,--disse il medico;
scopritevi un momento.--La donna non si mosse. Ecco il gran punto! Ho
una cosa qui, più sotto, più sopra, di qua, di là; ma nessuna, nemmeno
una vecchia nonagenaria, vuol lasciarsi vedere, e tutte pretendono che
il medico indovini.--Insomma, volete o non volete scoprirvi? ridomandò
il Miguerez.--La donna non si mosse.--Quand'è così, vediamo le altre.--E
interrogò le altre, mentre quella si allontanava tutta malinconica. Le
altre non avevano bisogno di scoprirsi; il medico distribuì loro delle
pillole e delle polveri, e le mandò con Dio. Povere creature! Nessuna
di loro toccava forse ancora i trent'anni, e la gioventù era già passata
per tutte, e col passare della gioventù, eran cominciate le fatiche
smodate, i trattamenti brutali e il disprezzo che rendono orribile la
vecchiaia della donna araba: strumento di piacere fino a vent'anni,
bestia da soma fino alla morte.
§ § § § §
Il pranzo fu rallegrato da una visita di Ben-el-Abbassi, e la notte
funestata da una spaventosa invasione d'insetti.
Già nelle ore calde della giornata, avevo pronosticato male dal
brulichìo straordinario che si vedeva fra l'erbe. Le formiche formavano
delle lunghissime strisce nere, gli scarabei c'erano a mucchi, le
cavallette fitte come le mosche; e con questi un gran numero d'altri
insetti, non visti mai negli altri accampamenti, che m'ispiravano
pochissima fiducia. Il capitano Di Boccard, intendente di Entomologia,
me ne faceva la nomenclatura. C'era, tra gli altri, la _cicindela
campestris_, trabocchetto vivente, che chiude colla grossa testa
l'apertura della sua tana, e fa sprofondare, abbassandosi, gl'insetti
incauti che vi passano sopra; il _Pheropsophus africanus_, che slancia
dall'ano, contro il nemico che l'insegue, un buffo di vapori corrosivi;
la _Meloe majalis_ che strascina a stento, come un'idropica, l'enorme
addome gonfio d'erba e d'ova; il _Carabus rugosus_, la _Pimelia
scabrosa_, la _Cetonia opaca_, il _Cossyphus Hoffmanseggi_, foglia
animata, di cui Vittor Hugo farebbe una descrizione fantastica da metter
freddo nelle ossa. Più un gran numero di lucertoloni, di ragnacci, di
centopiedi lunghi un palmo, di grilli cantaioli grossi come un pollice,
di cimici verdi larghe come un soldo, che andavano e venivano come se
s'apparecchiassero d'accordo comune a una qualche impresa guerresca.
Come se questo non bastasse, appena seduto a tavola, nel punto che
stendevo la mano per versarmi da bere, avevo visto far capolino dal mio
bicchiere una spropositata locusta, la quale, invece di volar via a un
mio gesto minaccioso, s'era messa a guardarmi con un'aria d'impertinenza
inaudita. E infine, per colmo di spavento, mentre ci alzavamo da tavola,
era comparso il servo Hamed, col viso di chi ha corso un grande
pericolo, e ci aveva messo sotto gli occhi, infilata in uno stecco,
nientemeno che una tarantola, una _lycosa tarentula_, il ragno
terribile, che _cuando pica á un hombre_, quando punge un uomo, diceva
lui, Allà ce ne guardi! il disgraziato comincia a ridere, a piangere, a
cantare e a ballare, e non c'è che una buona musica, ma buona! la musica
della banda del Sultano, che lo possa guarire. Ora immagini il lettore,
con che animo io sia andato a dormire. Nondimeno, i miei tre compagni
ed io eravamo già a letto da parecchi minuti, avevamo già spento il lume
e cessato di parlare, e nessuno sentiva nulla. Ma fu una gioia
passeggera. Tutt'a un tratto il Comandante balzò a sedere sul letto e
gridò:--Io mi sento popolato!--Allora anche noi cominciammo a sentir
qualche cosa. Per qualche tempo non furono che contatti furtivi, punture
timide, stuzzicamenti, piccole provocazioni di esploratori e di
sentinelle avanzate, alle quali si poteva non badare. Ma entrarono in
campo ben presto le grosse pattuglie e allora diventò necessaria una
vigorosa resistenza offensiva. La lotta fu feroce. Più ci dibattevamo, e
più gli assalitori raffittivano. Venivan dal capezzale, salivan dai
piedi, scendevano dall'alto della tenda. Pareva che eseguissero degli
assalti coordinati ad un vasto concetto strategico di qualche
insettaccio d'ingegno. Era evidentemente una guerra di religione. In
breve non fummo più capaci di resistere.--La luce!--gridò il
viceconsole. Saltammo tutti e quattro in terra, s'accese il lume, si
cominciò la strage. La soldataglia l'ammazzavamo senz'altro; i capi, i
pezzi grossi, classificati prima dal capitano e giudicati dal
comandante, erano messi sul rogo dal vice-console, ed io ne facevo
l'elogio funebre in prosa e in versi sciolti che saran pubblicati dopo
la mia morte. In poco tempo il terreno fu seminato d'ale, di zampe, di
gambe, di teste, i superstiti si dispersero, e noi, stanchi
dell'eccidio, dopo esserci nominati reciprocamente cavalieri di varii
ordini, rimettemmo la testa sul guanciale. Ma che chiasso! Che matta
allegria, benchè non fossimo più nessuno di primo pelo! Che risate che
venivano proprio d'in fondo e facevano bene all'anima e al corpo!
§ § § § §
La mattina seguente, al levar del sole, il governatore Ben-el-Abbassi si
presentò all'ambasciatore per accompagnarlo fino ai confini della sua
provincia.
Appena discesi dall'altopiano dell'accampamento, ci si spiegò dinanzi
agli occhi l'orizzonte immenso della pianura del Sebù.
Questo fiume, uno dei più grandi del Magreb, scende dal fianco
occidentale della catena di montagne che si allunga dall'alto Atlante
verso lo stretto di Gibilterra, e con un corso di circa duecento
quaranta chilometri, ingrossato da molti affluenti, si va a versare,
descrivendo un grande arco, nell'Oceano atlantico, presso Mehedia, dove
l'ammontamento delle sabbie, comune alle foci di quasi tutti i fiumi
marocchini di quel versante, impedisce l'entrata ai bastimenti e produce
grandi innondazioni al tempo delle cresciute. La vallata di questo
fiume, che abbraccia, alla sua apertura, tutto lo spazio compreso fra
le due città di Laracce e di Salé, e tocca alla sua estremità superiore
l'alto bacino della Muluia (il grande fiume che segna il confine
orientale del Marocco), apre agli Europei, per il litorale e per Teza,
la via della città di Fez; comprende, oltre a Fez, la grande città di
Mechinez, terza capitale; raccoglie in sè tutta, si può dire, la vita
politica dell'Impero, ed è la sede principale della ricchezza e della
forza dei Sceriffi. Il Sebù, particolarità da notarsi, segna, dalla
parte del settentrione, il confine che i Sultani non oltrepassano mai
fuor che in caso di guerra, poichè rimangono a mezzogiorno del fiume le
tre città, Fez, Marocco e Mechinez, nelle quali essi soggiornano
alternativamente, e la doppia città di Salé-Rabatt, dove passano per
recarsi da Fez a Marocco. E fanno questo giro per non valicare la catena
dei monti che chiude a mezzogiorno la vallata del Sebù, il versante
della quale è abitato dalla tribù dei Zairi, di razza berbera mista, che
hanno fama d'essere, coi Beni-Mitir, i più turbolenti e i più indomiti
abitatori di quei monti.
Dopo un'ora di cammino arrivammo al Sebù.
Mi parve di vedere il Tevere nella Campagna romana.
In quel punto era largo un centinaio di metri, color di mota, grosso,
rapido, incassato fra due rive altissime, quasi verticali, aride, ai
piedi delle quali si stendevano due zone di terreno fangoso.
Due barconi antidiluviani, spinti a remi da una decina d'arabi,
s'avvicinavano alla nostra riva.
Basterebbero quei barconi, quando non ci fosse altro, a far capire che
cos'è il Marocco. Da centinaia d'anni, sultani, pascià, carovane,
ambasciate passano il fiume su due carcasse di quella fatta, coi piedi
nell'acqua e nella mota, qualche volta con pericolo d'affondare; e
quando le carcasse, come segue spessissimo, sono bucate, carovane e
ambasciate e pascià e sultani aspettano che i barcaiuoli abbian turati i
buchi col fango, o in altro modo, qualche volta per due o tre ore, al
sole o sotto la pioggia; e da centinaia d'anni, cavalli, muli e
cammelli, per la mancanza d'un pezzo di tavola lungo due metri,
rischiano di rompersi le gambe, e se le rompono, saltando dalla sponda
nei barconi; e nessuno ha mai pensato a costrurre un ponte di barche, e
nessuno ha mai portato sulle sponde un pezzo di tavola lungo due metri,
e chi rimprovera a quella gente la mancanza dell'una e dell'altra cosa,
è guardato con un'aria di profondo stupore, come se li rimproverasse di
non aver fatto un prodigio. In molti luoghi si attraversano i fiumi
sopra barche di canne, e gli eserciti li passano per lo più sopra ponti
galleggianti, formati con otri rigonfi d'aria e coperti di rami e di
terra.
Si smontò tutti da cavallo, e si discese per un sentiero ripido fino
alle barche.
La prima barca facendo due o tre larghi giri per scansare le correnti e
i ringorghi, portò all'altra sponda tutti gli italiani.
Di là assistemmo al passaggio dell'intera carovana.
Che bel quadro! Me lo vedo ancora dinanzi nel momento della sua maggior
vivezza. Nel mezzo del fiume, scivola un barcone pieno di cammelli e di
mori d'una carovana mercantile, e un po' più oltre l'altro barcone che
porta i cavalli e i cavalieri della scorta di Fez, in mezzo ai quali
sventola la bandiera di Maometto e spicca il viso nero e il turbante di
mussolina del Caid. Di là dal fiume, in mezzo a una grande confusione di
cavalli, di mule, di servi, di casse, che ingombrano un lunghissimo
tratto di sponda, biancheggia la figura gentile del governatore
Ben-el-Abbassi, seduto sopra un rialto di terreno, in mezzo ai suoi
ufficiali, all'ombra del suo bel cavallo nero dalla sella color celeste.
Sull'alto della riva, che si mostra come il muro d'una fortezza, dietro
una lunga fila d'arabi della campagna, seduti sull'orlo colle gambe
spenzoloni, sono schierati i duecento cavalieri del Governatore, che
visti così in alto, sul fondo azzurro del cielo, presentano l'apparenza
di duecento giganti. Alcuni servi neri ignudi si tuffano e si rituffano
nell'acqua spruzzandosi e gridando. Parecchi arabi lavano i loro cenci
sulla sponda, all'uso moresco, ballonzolandovi sopra con movimenti di
marionetta. Altri attraversano il fiume a nuoto. Sul nostro capo passano
degli stormi di cicogne; lontano, sulla riva, s'alza una colonna di fumo
da un gruppo di tende di beduini; i barcaiuoli cantano una preghiera al
Profeta per la buona riuscita dell'impresa; le acque mandano scintille
d'oro, e Selam, ritto a dieci passi dinanzi a noi, col suo famoso
caffettano, fa su questo gran quadro barbaresco e festoso, la più
armoniosa macchietta rossa che possa immaginare un pittore.
Il passaggio durò parecchie ore, e via via che passava, la carovana si
rimetteva in cammino.
Quando gli ultimi cavalli furono sulla sponda sinistra, il governatore
Ben-el-Abbassi rimontò in sella e raggiunse i suoi soldati sull'alto
della riva opposta.
Sul punto di partire, l'Ambasciatore e tutti noi alzammo la mano in
segno di saluto.
La scorta di Karia-el-Abbassi rispose con una tempesta di fucilate e
disparve; ma per qualche momento vedemmo ancora in mezzo al fumo la
bella figura bianca del Governatore, ritta sulle staffe, col braccio
teso verso di noi in segno di buon augurio e d'addio.
Accompagnati dalla sola scorta di Fez, c'innoltrammo nella terra dei
Beni-Hassen, tristamente famosa.


BENI-HASSEN

Per più d'un'ora, si camminò in mezzo a campi d'orzo altissimo, dai
quali usciva qua e là una tenda nera, una testa di cammello, un nuvolo
di fumo. Per i sentieri dove passavamo, correvano scorpioni, biscie e
lucertole. Il sole, in quel poco tempo, ci aveva infocate le selle per
modo che quasi non vi si poteva tener sopra la mano. La luce ci
offendeva gli occhi, il polverìo ci soffocava, tutti tacevano. La
pianura che ci si stendeva dinanzi come un oceano mi dava non so che
sgomento, come se la carovana dovesse camminare eternamente. Ma la
curiosità di veder da vicino quei fieri Beni-Hassen, di cui avevo tanto
inteso parlare, mi rianimava.--Che gente sono?--domandai a un
interprete.--Ladri e assassini--mi rispose;--faccie dell'altro mondo,
la peggior genìa del Marocco.--Ed io spiavo ansiosamente l'orizzonte.
Le faccie dell'altro mondo non si fecero aspettare lungo tempo.
Vedemmo lontano, davanti a noi, un gran nuvolo di polvere, e pochi
momenti dopo fummo circondati da una turba di trecento selvaggi a
cavallo, verdi, gialli, scarlatti, bianchi, violetti, cenciosi,
scarmigliati, ansanti, che pareva che venissero da una mischia. In mezzo
al fitto polverìo che ci avvolgeva, vedemmo il loro Governatore, un
gigante con lunghi capelli e gran barba nera, seguito da due
vicegovernatori canuti, armati tutti e tre di fucile, avvicinarsi
all'Ambasciatore, stringergli la mano e sparire. Subito dopo
cominciarono le cariche, gli urli e le fucilate. Parevano frenetici.
Sparavano fra le gambe delle nostre mule, sopra la nostra testa, rasente
le nostre spalle. Visti da lontano, dovevan sembrare una banda
d'assassini che ci assalisse. V'eran dei vecchi formidabili con lunghe
barbe bianche, ridotti a ossa e pelle; ma che parevan fatti per
resistere ai secoli. V'eran dei giovani con lunghissime ciocche di
capelli neri che ondeggiavano al vento come criniere. Molti avevano il
petto, le gambe e le braccia nude, turbanti in brandelli e cenci rossi
attorcigliati intorno al capo; caic laceri, selle disfatte, briglie di
corda, sciabolaccie e pugnali di forme strane. Le faccie poi!--È
assurdo,--diceva il comandante, facendo la caricatura di don
Abbondio,--è assurdo il supporre che questa gente possa fare il
sacrifizio di non ucciderci!--Ognuna di quelle faccie raccontava una
storia di sangue. Ci guardavano passando, colla coda dell'occhio, come
per nasconderci l'espressione del loro sguardo. Cento ci venivan dietro,
cento a destra, cento a sinistra, sparsi per i campi a grande distanza.
Questa guardia dai lati era nuova per noi; ma non tardò ad essere
giustificata. Più andavamo innanzi, più spesseggiavano le tende nella
campagna, fin che passammo in mezzo a veri villaggi circondati di fichi
d'India e d'aloé. Da tutte queste tende accorrevano arabi, vestiti d'una
semplice camicia, a gruppi, a piedi, a cavallo, in groppa agli asini,
due, persino tre sopra una sola cavalcatura; le donne coi bimbi appesi
alle spalle, i vecchi sostenuti dai ragazzi, tutti affannati, smaniosi
di vederci, e forse non di vederci soltanto. A poco a poco ci fu intorno
un popolo. Allora i soldati della scorta cominciarono a disperderli. Si
slanciarono al galoppo di qua e di là contro i gruppi più numerosi,
urlando, percotendo, rovesciando cavalcature e cavalcatori, tirandosi
dietro da ogni parte improperii e maledizioni. Ma i gruppi dispersi si
riannodavano e continuavano ad accompagnarci correndo. A traverso il
fumo e il polverìo, rotto dai lampi delle fucilate, vedevamo per quei
vastissimi campi, in lontananza, tende, cavalli, cammelli, armenti,
gruppi di aloé, colonne di fumo, frotte di gente rivolta verso di noi,
immobile, in atteggiamento di stupore. Eravamo finalmente arrivati in
una terra abitata! Esisteva dunque, non era una fiaba, questa benedetta
popolazione del Marocco! Dopo un'ora di passo accelerato, ci si trovò di
nuovo in una campagna solitaria, non accompagnati da altri che dalla
scorta; e fatto appena un altro miglio, svoltando intorno a una macchia
di fichi d'India, s'ebbe l'inaspettato e sempre vivissimo piacere di
veder sventolare la bandiera italiana in mezzo alla nostra piccola città
vagante, di cui s'alzavano in quel momento appunto le ultime case.
L'accampamento era sulla sponda del Sebù, il quale descrive un
grand'arco dal punto dove l'avevano passato fino a quello dove eravamo
giunti.
Una fitta catena di sentinelle a piedi, armate di fucile, si stendeva
tutt'intorno alle tende.
Il paese era dunque pericoloso davvero.
Se ne avessi ancora potuto dubitare, me ne avrebbero arcipersuaso le
notizie che raccolsi poi.
I Beni-Hassen sono il popolo più turbolento, più audace, più manesco,
più ladro di tutta la vallata del Sebù. L'ultima loro prova fu una
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