Marocco - 20

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strada da Mechinez fino a Marocco, fiancheggiata da due alti muri,
affinchè anche i ciechi potessero andare da una città all'altra senza
bisogno di guida. E questo re perverso e crudele aveva un anello col
quale poteva chiamare a suo servizio tutti i demoni. E li chiamò e li
fece lavorare alla strada. Ce n'erano migliaia e migliaia, e ognuno
d'essi portava delle pietre che cento uomini non sarebbero bastati a
muovere d'un dito, e quelli che non avevan voglia di lavorare, il re li
faceva calcinar vivi nei muri, e se ne vedono ancora le ossa. (Si vedono
ancora, infatti, ma sono ossa di schiavi cristiani, che si ritrovano
pure nelle mura di Salè e di Rabatt). E già i due muri della strada
erano stati fabbricati per la lunghezza d'una giornata di cammino, e
tutti si rallegravano pensando che la strada sarebbe presto finita. Ma
quel re spiaceva ad Allà, ed Allà non volle che la strada si finisse. Un
giorno ch'egli passeggiava a cavallo, una povera donna della campagna lo
arrestò e gli disse:--Dove vuoi riuscire con questa strada, re
temerario?--All'inferno!--rispose il re indispettito.--Sprofondavi
dunque!--gridò la donna. A quelle parole il re cadde morto da cavallo, i
muri crollarono, i demoni sparpagliarono le pietre per la campagna, e la
strada rimase incompiuta per sempre.
--E tu credi che tutto questo sia vero, Selam?--gli domandai.
--Naturalmente,--rispose meravigliandosi del mio dubbio.
--Credi ai demoni?
--Ma certo che ci credo! Stiamo a vedere che non si deve credere ai
demoni!
--Ma ne hai mai veduti?
--Mai! E per questo credo che non ce ne siano più sulla terra, e quando
sento dire: Guardatevi dal passare di notte in quel tal luogo perchè ci
sono i demoni,--ci vado subito, ci passo io per il primo, perchè so che
i demoni sono uomini, e io con un buon cavallo tra le ginocchia e un
buon fucile nel pugno, non ho paura di nessuno.
--E per che motivo, secondo te, ora non ci son più demoni e una volta ce
n'era?
--Oh bella!--rispose allontanandosi;--perchè una volta il mondo non era
il mondo d'adesso. E perchè, potrei domandare a lei, una volta gli
uomini erano più alti, le giornate erano più lunghe e le bestie
parlavano?
E se n'andò scrollando la testa in atto di compatimento.
§ § § § §
Quel giorno, pranzando l'Ambasciatore in città, Selam e gli altri
soldati non fecero che galoppare fra la città e le tende, con gran
divertimento dei pittori e mio, perchè mai più di quel giorno ci colpì
il ridicolo contrasto della maestà del loro aspetto coll'umiltà dei loro
uffici. Ecco, per esempio, il servo Hamed, piantato sopra uno stupendo
cavallo nero, che esce di galoppo dalla porta merlata di Mechinez e si
slancia a briglia sciolta a traverso la campagna. Il suo alto turbante,
illuminato dal sole, splende della bianchezza della neve; la sua grande
cappa celeste ondeggia al vento come un manto reale; il suo pugnale
scintilla; tutta la sua figura maschia e graziosa, spira la maestà d'un
principe e la baldanza d'un guerriero. Quante vaghe immagini fa brillare
alla mente quel bel cavaliere mussulmano che vola come un fantasma sotto
le mura d'una città medioevale! Dove va? a rapire la più bella figliuola
del pascià di Faraone? a sfidare il valoroso caid d'Uazzan, fidanzato
alla sua amante? a versare i suoi affanni nel seno del santo secolare
che prega da ottant'anni sulla cima del monte Zerhun, nella sacra
_zauia_ di Mulei-Edris?
No; viene all'accampamento a pigliare un fritto di patate per il
desinare dell'Ambasciatore.
§ § § § §
Verso il tramonto, i pittori ed io andammo in città, a cavallo alle
nostre mule, accompagnati da quattro soldati a piedi del governatore di
Mechinez, i quali avevano lasciato i fucili e s'erano armati di
bastoncini e di funi a nodi. Prima di metterci in cammino, però,
convenimmo con loro, interprete Hamed, che quando avessimo battuto tutti
e tre palma a palma, in qualunque punto della città ci trovassimo, essi
avrebbero preso la via più corta per ricondurci all'accampamento.
Passate due porte esterne, divise da una salita ripidissima, ci trovammo
nel centro della città. La prima impressione fu una gradevole sorpresa.
Mechinez che c'immaginavamo più malinconica di Fez, è invece una città
allegra, piena di verde, attraversata da molte strade tortuose, ma
larghe e fiancheggiate da case basse o da muri di giardini di poca
altezza, che lasciano vedere le cime delle bellissime colline
circostanti. Da ogni parte, si vede sorgere sopra le case un minareto,
una palma, un muro merlato; a ogni passo una fontana o una porta ornata
di arabeschi; quercie e fichi frondosi in mezzo alle strade e alle
piazze; e per tutto aria aperta, luce, odor di campagna e una certa pace
gentile di città principesca, decaduta, ma non morta. Dopo molti giri
riuscimmo in una vasta piazza, sulla quale dà la facciata monumentale
del palazzo del Governatore, risplendente di graziosissimi musaici di
smalto di cento colori; e in quel momento battendovi gli ultimi raggi
del sole, scintillava tutta come i palazzi tempestati di perle delle
leggende orientali. Dieci soldati facevano il _gioco della polvere_, una
cinquantina di servi e di guardie stavano seduti in terra dinanzi alla
porta, la piazza era deserta. Che bel momento! Quella facciata luminosa,
quei cavalieri, quelle torri, la solitudine, il tramonto, formavano
tutt'insieme uno spettacolo così schiettamente moresco, spiravano
un'aura così viva d'altri tempi, presentavano in un sol quadro tanta
storia, tanta poesia, tanti sogni, che rimanemmo un pezzo tutti e tre
immobili in mezzo alla piazza come trasecolati. Di là, i soldati ci
condussero a vedere una grande porta esterna, di forma nobilissima,
rivestita pure, dal piede dei muri fino alla sommità, di musaici
delicati e multicolori, che brillavano al sole come una miriade di
rubini, di zaffiri e di smeraldi, incastonati in un arco trionfale
d'avorio; e i pittori la schizzarono sull'album colla testa in
visibilio; e rientrammo in città. Fin qui la gente che avevamo
incontrata per strada, non s'era mostrata che curiosa, e c'era parso
anzi che ci guardasse con occhio meno malevolo che la popolazione di
Fez. Ma tutt'a un tratto, senza un'ombra di ragione, cangiò d'umore.
Cominciarono alcune vecchie a mostrarci il bianco dell'occhio, poi
alcuni ragazzi a tirar sassolini fra le gambe alle nostre mule, poi uno
sciame di monelli a correrci dinanzi e un altro sciame alle spalle,
facendo una gazzarra d'inferno. I soldati, ben inteso, non stettero a
far complimenti. Due rimasero davanti, due ci si misero dietro, e
attaccarono un vero combattimento colla ragazzaglia, legnando i più
vicini, tirando sassate ai più lontani, inseguendo per lunghi tratti i
più insolenti. Ma fu fatica sprecata. Non osando risponder coi sassi, i
monelli si misero a buttar aranci fradici, buccie di limone, sterco
secco, e la pioggia diventò in pochi momenti così fitta, che ci parve
prudente di consigliare i soldati a desistere dalle offese, per non
provocare di peggio. Ma i soldati inaspriti o non ci sentirono o non ci
vollero dar retta e continuarono a combattere con furore crescente. Non
potendo sfogarsi sui monelli, se la pigliavano cogli uomini. A ogni
pancia che spuntasse da una porta, una funata, a modo di avvertimento; a
ogni povero diavolo che, passandoci accanto, non si stringesse al muro,
un urtone che lo cacciava dieci passi indietro; a ogni vecchia che ci
guardasse torvo, i pugni sul viso e un urlo sgangherato nell'orecchio.
Indignati di quella brutalità, li avvertimmo con gesti risoluti che
smettessero. Quei disgraziati credettero che li rimproverassimo di
fiacchezza e si diedero a picchiare più forte. Per giunta, sbucarono
non so di dove due ragazzi di dieci o dodici anni, forse parenti dei
soldati, armati anch'essi di bastoni; s'aggregarono, bastonatori
volontarii, alla scorta, e cominciarono a menar botte così disperate, a
uomini, a donne, ad asini, a muli, a vicini, a lontani, che i soldati
stessi si videro costretti a raccomandar loro la moderazione. E ad ogni
legnata, si voltavano tutti e due a guardare noi tre, come per
consigliarci di prenderne atto per ricordarcene nel dare la mancia; e
siccome noi ridevamo come matti, pigliavano il nostro riso come un
incoraggiamento, e tiravan via a picchiare come anime perdute. Ora che
seguirà?--dicevamo noi.--Uno scandalo! una rivoluzione!--Già i legnati
brontolavano, qualcuno aveva alzato la mano sui due ragazzi, bisognava
uscir di città immediatamente. Il Biseo, nondimeno, esitava ancora,
quando, nel passare per una piazzetta piena di gente, un sasso colpì
nella testa la mia mula e una carota rasentò la nuca dell'Ussi. Allora
ci decidemmo a battere tutti e tre palma a palma, il segnale convenuto
per la ritirata. Ma anche questo innocente segnale provocò un baccano. I
soldati, per mostrarci che avevan capito, ci risposero battendo le mani;
tutta la gente ch'era nella piazza, intendendo forse di canzonarci, si
mise a battere; e intanto continuavano a piovere buccie di limone e
maledizioni e legnate; e piovevano ancora ch'eravamo vicini alla porta;
e quando già scendevamo verso l'accampamento, ci gridavano ancora alle
spalle dall'alto delle mura:--Maledetto il padre tuo!--Sia sterminata la
vostra razza!--Dio faccia arrostire i vostri bisnonni!--
Così ci ricevette la città di Mechinez, e fortunati noi ch'era la città
più ospitale dell'Impero!
§ § § § §
La mattina seguente fu portata all'accampamento una lettiga per il
medico, fatta in ventiquattr'ore dai più abili falegnami di Mechinez, i
quali ci avrebbero senza dubbio impiegato più di ventiquattro giorni, se
non li avesse sollecitati il Governatore con una certa intimazione, a
cui sarebbe stato un po' rischioso di fare il sordo. Era una macchina
pesante e mal adatta, che somigliava più a una gabbia per trasportar
bestie feroci, che a una lettiga per un malato; assai meglio fatta,
nondimeno, di quello che tutti noi prevedessimo; e gli operai che vi
diedero sotto i nostri occhi le ultime martellate, n'erano così alteri e
si sentivano tanto sicuri della nostra ammirazione, che lavorando,
tremavano dall'emozione, e ad ogni nostra parola, mandavan lampi dagli
occhi. Quando il Morteo mise nelle loro mani i denari, ringraziarono
gravemente, e se n'andarono con un sorriso di trionfo che voleva
dire:--Orgogliosi ignoranti, v'abbiamo fatto vedere chi siamo.
§ § § § §
Verso il tramonto partimmo da Mechinez e camminammo per due ore a
traverso la più bella campagna che abbia mai visto in sogno un paesista
innamorato. Vedo, sento ancora la divina grazia di quelle colline verdi
sparse di roseti, di mirti, di leandri, d'aloè fioriti; lo splendore di
quella città di Mechinez indorata dal sole, che si nascondeva al nostro
sguardo minareto per minareto, palma per palma, terrazza per terrazza, e
più si impiccioliva, più pareva che s'alzasse, come se le crescesse
sotto la collina; e l'aria impregnata di profumi che facevano fremere, e
le acque che riflettevano i mille colori della scorta, e l'infinita
mestizia di quel cielo rosato; vedo, sento ancora tutto questo, e non lo
so descrivere! Ah! mi morderei le dita!


SUL SEBÙ

Era il mezzodì del quinto giorno della nostra partenza da Fez, quando,
dopo una cavalcata di cinque ore a traverso una successione di valli
deserte, ripassavamo per la gola Beb-el-Tinca e vedevamo un'altra volta
dinanzi a noi la vastissima pianura di Sebù inondata d'una luce bianca,
ardente, implacabile, di cui il solo ricordo mi fa salire le vampe al
viso. Tutti, fuorchè l'Ambasciatore e il capitano, che partecipano della
virtù favolosa della salamandra, di star nel fuoco senz'ardere, ci
coprimmo il capo come fratelli della Misericordia, ci ravvoltammo con
gran cura nelle cappe e nelle coperte, e senza profferire una parola,
col mento sul petto, cogli occhi socchiusi, scendemmo nella terribile
pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la
voce del Comandante il quale ci annunziava che era _già_ morto un
cavallo. Era morto infatti uno dei cavalli che portavano i bagagli.
Nessuno rispose.--Si sa--soggiunse il Comandante spietato;--i cavalli
_muoiono per i primi_.--Anche queste parole furono seguite da un
silenzio mortale. Dopo mezz'ora, si sentì la voce fioca d'un altro che
domandava all'Ussi a chi avrebbe _lasciato_ il suo quadro di Bianca
Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole. Anche i
soldati della scorta tacevano. Il caldo opprimeva tutti. Persino il caid
Hamed Ben Kasen, malgrado il grande turbante che gli ombreggiava il
viso, gocciolava di sudore. Povero generale! Quella mattina mi dimostrò
una pietà di cui mi ricorderò per tutta la vita. Vedendo che rimanevo
indietro, venne al mio fianco e si mise a bastonare la mia mula con uno
zelo così sviscerato, che in pochi momenti passai dinanzi a tutti,
portato via di galoppo, saltellando sulla sella come un automa di gomma
elastica, e arrivai all'accampamento cinque minuti prima degli altri,
colle budella sottosopra e il cuore pieno di gratitudine.
§ § § § §
Quel giorno nessuno uscì dalla tenda fino all'ora del desinare, e il
desinare stesso fu silenzioso, come se tutti si sentissero già oppressi
dal caldo del giorno seguente. Un solo avvenimento, a sera innoltrata,
destò un po' di chiasso nell'accampamento. Eravamo alle frutta, quando
udimmo un gridìo lamentevole dalla parte del piccolo accampamento della
scorta, e nello stesso tempo un rumore cadenzato di colpi che parevano
frustate. Credendo che fossero i soldati o i servi che scherzassero, non
ci badammo. Ma a un tratto le grida diventarono strazianti, e sentimmo
profferire distintamente, con un accento d'invocazione supplichevole, il
nome del fondatore di Fez:--Mulei-Edriss! Mulei-Edriss!
Mulei-Edriss!--Ci alzammo tutti da tavola, e correndo verso quella
parte, arrivammo in tempo a vedere una tristissima scena. Due soldati
della scorta tenevano sospeso, uno per le spalle, l'altro per i piedi,
un servo arabo; un terzo lo flagellava disperatamente con una frusta, un
quarto teneva in mano una lanterna, gli altri facevano corona, il caid
assisteva colle braccia incrociate sul petto. L'Ambasciatore fece
rilasciare immediatamente la vittima, che s'allontanò singhiozzando, e
domandò al caid che cosa era accaduto.--Nulla, nulla,--rispose,--una
piccola correzione.--E soggiunse che aveva fatto punire quell'uomo
perchè si divertiva a buttare ai suoi compagni delle pallottole di
cuscussù, grave colpa, sacrilegio anzi per un Mussulmano, che deve
rispettare ogni alimento prodotto dalla terra come un dono di Dio.
Dicendo questo, il povero caid, bonissim'omo in fondo, non riusciva a
nascondere, benchè volesse parere impassibile, il dolore d'aver dovuto
infliggere quel castigo e la pietà che ne aveva provato; e questo bastò
a rimetterlo al suo posto dentro al mio cuore.
§ § § § §
La notte fummo svegliati da un caldissimo vento di levante, che ci fece
balzar fuori della tenda colla bocca spalancata, in cerca d'un filo
d'aria respirabile; e all'alba ci mettemmo in cammino con un tempo fosco
che preannunziava una giornata anche più calda della precedente. Il
cielo era tutto coperto di nuvole, da una parte infocate dal sole
nascente e rotte in varii punti da raggi vivissimi; dalla parte opposta,
nere e rigate da striscie oblique di pioggia. Da questo cielo inquieto
scendeva una luce strana, che pareva passata a traverso una volta di
vetro giallastro, e dava alla vastissima pianura tutta coperta di
stoppie un arrabbiato colore sulfureo, che quasi offendeva la vista.
Lontano, il vento sollevava e rigirava con una rapidità furiosa immensi
nuvoli di polvere. La campagna era solitaria, l'aria pesante,
l'orizzonte nascosto da un velo di vapori color di piombo. Senz'aver
visto il Sahara, m'immaginai che dovesse presentare qualche volta quel
medesimo aspetto, e già stavo per esprimere il mio pensiero, quando
l'Ussi, che fu in Egitto, arrestandosi improvvisamente, esclamò con un
accento di meraviglia:--Ecco il deserto!
§ § § § §
Dopo quattr'ore di cammino, arrivammo sulla riva del Sebù, dove venti
cavalieri dei Beni-Hassen, comandati da un bel ragazzo di dodici anni,
figlio del Governatore Sid-Abd-Allà, ci vennero incontro di carriera,
salutandoci colle solite fucilate e le solite grida.
L'accampamento fu piantato in fretta e in furia vicino al fiume, in un
terreno nudo, rotto da profonde screpolature, e fatta colazione alla
lesta, ci ritirammo tutti sotto le tende.
Fu quella la giornata più calda del viaggio.
M'ingegnerò di dare una lontana idea dei nostri tormenti.
I lettori gentili preparino il cuore a un sentimento di profonda pietà.
M'asciugo il sudore e scrivo.
Alle dieci della mattina, quando i miei tre compagni ed io ci ritirammo
sotto la tenda, il termometro segnava quarantadue centigradi all'ombra.
Per un'ora circa, la conversazione si mantenne animata. In capo a un
ora, cominciando a provare una certa difficoltà a terminare i periodi,
ci riducemmo a discorrere a proposizioni semplici. Poi, costandoci
fatica anche il mettere insieme soggetto, verbo e attributo, smettemmo
di parlare e tentammo di dormire. Fu un tentativo inutile. I letti
caldi, le mosche, la sete, l'affanno non ci lasciavano chiuder occhio.
Dopo aver molto sbuffato ed esserci molto dimenati, ci rassegnammo a
star svegli, cercando d'ingannare il tempo in qualche modo. Ma non v'era
modo. Sigari, pipe, libri, carte geografiche, tutto ci cadeva di mano.
Provai a scrivere: alla terza riga la pagina era fradicia dal sudore che
mi cadeva dalla fronte come acqua da una spugna spremuta. Mi sentivo
tutto il corpo percorso da innumerevoli rigagnoli che s'intersecavano,
s'inseguivano, formavano dei confluenti e dei ringorghi, e venivan giù
per le braccia e per le mani fino ad annacquarmi l'inchiostro sulla
punta della penna. In pochi minuti, fazzoletti, asciugamani, veli, tutto
ciò che poteva servire ad asciugarci, era inzuppato che pareva stato
immerso in un secchio. Avevamo un barile pieno d'acqua: provammo a bere:
era bollente. La buttammo via: aveva appena toccato terra, che non se ne
vedeva più traccia. A mezzogiorno il termometro segnava quarantaquattro
gradi e mezzo. La tenda era un forno. Tutto quello che toccavamo,
scottava. Mi posi una mano sulla testa: mi parve di metterla sopra una
stufa. Il letto ci scaldava le reni a segno che non era più possibile
star coricati. Provai a metter la mano in terra fuori della tenda: la
terra era rovente. Nessuno parlava più. Solo di tratto in tratto si
sentiva qualche languida esclamazione:--È una morte.--Non si può più
resistere.--Si diventa matti.--S'affacciò un momento l'Ussi, cogli occhi
fuori della testa, alla porta della tenda, mormorò con voce
soffocata:--Si muore--e disparve. Diana, la povera bestiuola,
accovacciata accanto al letto del Comandante, ansava in maniera da far
temere che morisse di momento in momento. Fuori della tenda non si
sentiva una voce umana, non si vedeva nessuno, tutto era immobile come
in un accampamento abbandonato. I cavalli nitrivano in suono
lamentevole. La lettiga del medico, vicina alla nostra tenda, crepitava
come se si volesse spezzare. A un tratto si sentì la voce di Selam che
gridò passando di corsa:--_Se ha muerto un perro!_ (È morto un cane).--E
uno!--rispose con voce fioca il Comandante, faceto fino alla morte. Al
tocco il termometro segnava quarantasei gradi e mezzo. Allora cessarono
anche i lamenti. Il Comandante, il viceconsole ed io stavamo distesi in
terra immobili come corpi morti. In tutto l'accampamento, il capitano e
l'Ambasciatore erano forse i due soli cristiani che dessero ancora
segno di vita. Non ricordo quanto tempo io sia rimasto in quello stato.
Ero immerso in una specie di stupore, sognavo ad occhi aperti, mi
ribollivano nel capo mille immagini confuse di luoghi freschi e di cose
gelate: mi precipitavo dall'alto d'una rupe in un lago, mettevo la nuca
contro la bocca d'una pompa, mi fabbricavo una casa di ghiaccio,
divoravo in dieci minuti tutti i pezzi duri di Napoli, e più sguazzavo
nell'acqua e bevevo freddo, più mi sentivo morire di caldo, di sete, di
rabbia, di sfinimento. Finalmente il capitano esclamò con voce
funerea:--Quarantasette!--Fu l'ultima voce che mi ricordo d'aver
sentita....
§ § § § §
Verso sera venne a visitar l'Ambasciatore, in nome di suo padre malato,
il figliuoletto del Governatore dei Beni-Hassen che avevamo veduto la
mattina. Entrò nell'accampamento a cavallo, accompagnato da un ufficiale
e da due soldati che lo presero in braccio quando scese di sella, e
s'avanzò a passo grave verso la tenda dell'Ambasciatore, strascicando
come un paludamento la sua gran cappa turchina, con la mano sinistra
appoggiata sulla sciabola più lunga di lui, e la destra distesa in atto
di saluto.
La mattina, visto a cavallo, c'era parso un bel ragazzo; ed aveva
infatti due begli occhioni pieni di pensiero e un visino pallido d'un
ovale gentile; ma vedendolo a piedi, ci accorgemmo ch'era rachitico e
gibboso. Da ciò nasceva forse la sua tristezza. In tutto il tempo che
rimase con noi, non spuntò un sorriso sulla sua bocca, non si rasserenò
un momento il suo volto. Ci fissò l'un dopo l'altro con uno sguardo
profondo e non rispose alle domande dell'Ambasciatore che con parole
tronche e sommesse. Una sola volta gli passò un barlume di allegrezza
negli occhi; e fu quando l'Ambasciatore gli fece dire che aveva
ammirato, nelle cariche della mattina, il suo modo ardito e grazioso di
cavalcare; ma non fu che un barlume.
Benchè gli tenessimo tutti gli occhi addosso, e fosse quella
probabilmente la prima volta ch'egli compariva, in carattere ufficiale,
davanti a un Ambasciata europea, non mostrò ombra d'imbarazzo. Sorbì
lentamente il suo tè, mangiò dei confetti, parlò nell'orecchio al suo
ufficiale, s'aggiustò due o tre volte sul capo il suo turbantino,
osservò attentamente tutti i nostri stivali, lasciò indovinare che si
seccava; poi si strinse sul petto, accommiatandosi, la mano
dell'Ambasciatore, e tornò verso il suo cavallo colla stessa gravità di
Sultano con cui s'era avvicinato alla tenda.
Messo in sella dal suo ufficiale, disse ancora una volta:--La pace sia
con voi!--e partì di galoppo, seguito dal suo piccolo stato maggiore
incappucciato.
§ § § § §
Quella stessa sera vennero parecchi malati a cercare il dottore, il
quale col dracomanno Salomone e un drappello di soldati era partito poco
prima, per la via d'Alkazar, alla volta di Tangeri. Venne, fra gli
altri, un povero ragazzo mezzo nudo, macilento, cogli occhi rovinati,
che appena ci vedeva e pareva affranto dalla fatica.--Che cosa
vuoi?--gli domandò il Morteo--Cerco il medico cristiano,--rispose con
voce tremante. Quando intese ch'era partito rimase un momento come
istupidito, e poi gridò con accento disperato:--Ma io non ci vedo
più!... Io ho fatto otto miglia per venir qui a farmi guarire dal medico
cristiano!... Io ho bisogno di vedere il medico cristiano!--E diede in
uno scoppio di pianto da straziare il cuore. Il Morteo gli mise in mano
una moneta, che accettò con indifferenza, e indicandogli la via che
aveva preso il dottore, gli disse che, andando di buon passo, avrebbe
forse potuto ancora raggiungerlo. Il ragazzo stette un po' incerto,
guardando verso quella parte cogli occhi pieni di lagrime, e poi si mise
lentamente in cammino.
Il sole tramontò quella sera sotto un padiglione immenso di nuvole color
d'oro e di bragia, e lanciando rasente la pianura i suoi ultimi raggi
sanguigni, calò dietro la linea diritta dell'orizzonte come un enorme
disco rovente che si sprofondasse nelle viscere della terra.
E la notte fece freddo!
§ § § § §
La mattina, al levar del sole, eravamo già sulla riva sinistra del
Sebù, nel medesimo punto dove l'avevamo passato venendo da Tangeri;
e appena giunti, vedevamo comparire sulla riva opposta, accompagnato
dai suoi ufficiali e dai suoi soldati, il simpatico governatore
Sid-Bekr-el-Abbassi, colla stessa cappa bianca e collo stesso cavallo
nero bardato di color celeste, con cui ci s'era presentato la prima
volta.
Ma il passaggio del fiume presentò questa volta una difficoltà
impreveduta.
Dei due barconi sui quali dovevamo traghettare, uno era in pezzi;
l'altro rotto in più parti e mezzo affondato nella mota della sponda. Il
piccolo _duar_ abitato dalle famiglie dei barcaioli, era deserto; il
fiume non guadabile[tn460] che con grave pericolo; nessun altro barcone
che alla distanza d'una giornata almeno di cammino da quel punto. Come
passare? Che fare? Un soldato attraversò il fiume a nuoto e andò a
portar la notizia al Governatore, il quale mandò un altro soldato, a
nuoto, a dare una spiegazione della cosa. I barcaiuoli erano stati
avvertiti il giorno prima di tenersi pronti per traghettare l'Ambasciata
che sarebbe arrivata la mattina; ma trovandosi i barconi, per loro
incuria, ridotti in stato da non poter servire, e non essendo capaci
essi, o non volendo durar la fatica di accomodarli, erano fuggiti
durante la notte, Dio sa dove, colle loro famiglie e coi loro animali,
per sottrarsi al castigo del Governatore. Non rimaneva dunque altro da
fare che tentar di riparare alla meglio il barcone meno fracassato, e
così si fece. I soldati corsero a raccoglier uomini nei _duar_ vicini e
subito furono cominciati i lavori sotto l'alta direzione di Luigi il
calafato, che in quell'occasione per lui memorabile, sostenne
gloriosamente l'onore della marina italiana. Era bello vedere come
lavoravano gli arabi e i mori. Dieci insieme, urlando e agitandosi, non
facevano in mezz'ora il lavoro che facevano Luigi e il Ranni,
militarmente silenziosi, in cinque minuti. Tutti comandavano, tutti
criticavano, tutti andavano in collera, tutti tagliavan l'aria con gesti
imperiosi, che parevan tanti ammiragli, e nessuno levava un ragno dal
buco. Intanto il Governatore e il caid conversavano ad alta voce da una
sponda all'altra; i cavalieri delle due scorte galoppavano lungo le rive
cercando all'orizzonte i fuggitivi; le bestie da soma guadavano il fiume
in lunghe file coll'acqua a mezzo il collo; i lavoratori cantavano le
lodi del profeta; e sulla sponda opposta sorgeva una gran tenda
azzurrina sotto la quale i servi di Sid-Bekr-el-Abbassi si
affaccendavano a prepararci una squisita colezione di fichi, di confetti
e di tè, che noi pregustavamo col cannocchiale, canterellando il coro
d'un'opera semi-seria composta durante gli ozi di Fez col
titolo:--_Gl'Italiani nel Marocco._
Coll'aiuto del Profeta, il barcone fu accomodato in due ore, il Ranni ci
pigliò sulle spalle e ci scaricò l'un dopo l'altro sulla prua, e
giungemmo all'altra riva, coi piedi immersi fino alla noce nell'acqua
che filtrava dentro da tutte le parti, ma senza esser costretti a
gettarci a nuoto; inestimabile fortuna, di cui non eravamo sicuri
partendo.
§ § § § §
Il Governatore Sid Bekr-el-Abbassi che aveva risaputo le lodi fatte di
lui al Sultano dal nostro Ambasciatore, fu con noi anche più amabile e
più seducente della prima volta... Preso un po' di riposo, ci rimettemmo
in cammino verso Karia-el-Abbassi, dove arrivammo sul mezzogiorno, e
fummo ricevuti e passammo le ore bruciate nella stessa stanzina bianca,
in cui trentacinque giorni innanzi avevamo visto la bella figliuoletta
del nostro ospite far capolino dietro il turbante paterno.
§ § § § §
Qui Sid Bekr-el-Abbassi presentò all'Ambasciatore, fra gli altri
personaggi, un moro sui cinquant'anni, di aspetto signorile e di modi
simpatici, che nessuno di noi, credo, ha mai più dimenticato, non per
sè, ma per le strane cose che ci raccontarono della sua famiglia. Era
fratello d'un Sid-Bomedi, antico governatore della provincia di Ducalla,
il quale languiva da otto anni nelle prigioni di Fez. Tiranno e
scialacquatore sfrenato, dopo aver dissanguato il suo popolo, contratto
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