Marocco - 01

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MAROCCO

DI
EDMONDO DE AMICIS
_Quarta Edizione._
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1877.

MILANO. TIP. FRATELLI TREVES.
_Gli editori hanno compite tutte le formalità richieste dalla legge e
dalle convenzioni internazionali per riservare la Proprietà letteraria e
il diritto di riproduzione._


TANGERI

Lo stretto di Gibilterra è forse di tutti gli stretti quello che separa
più nettamente due paesi più diversi, e questa diversità appare anche
maggiore andando a Tangeri da Gibilterra. Qui ferve ancora la vita
affrettata, rumorosa e splendida delle città europee; e un viaggiatore
di qualunque parte d'Europa sente l'aria della sua patria nella
comunanza d'una infinità d'aspetti e di consuetudini. A tre ore di là,
il nome del nostro continente suona quasi come un nome favoloso;
cristiano significa nemico, la nostra civiltà è ignorata o temuta o
derisa; tutto, dai primi fondamenti della vita sociale fino ai più
insignificanti particolari della vita privata, è cambiato; e scomparso
fin anche ogni indizio della vicinanza d'Europa. S'è in un paese
sconosciuto, al quale nulla ci lega e dove tutto ci resta da imparare.
Dalla spiaggia si vede ancora la costa europea, ma il cuore se ne sente
già smisuratamente lontano, come se quel breve tratto di mare fosse un
oceano e quei monti azzurri un'illusione. Nello spazio di tre ore, è
seguita intorno a noi una delle più meravigliose trasformazioni a cui si
possa assistere sulla terra.
L'emozione, però, che si prova mettendo il piede per la prima volta su
quel continente immenso e misterioso che fin dalla prima infanzia ci
sgomenta l'immaginazione, è turbata dal modo in cui vi si sbarca. Mentre
dal bastimento cominciavo a vedere distintamente le case bianche di
Tangeri, una signora spagnuola gridò dietro di me con voce
spaventata:--Che cosa vuole quella gente?--Guardai dove accennava, e
vidi, dietro le barche che s'avvicinavano per raccogliere i passeggieri,
una folla d'arabi cenciosi, seminudi, ritti nell'acqua fino a mezza
coscia, i quali s'accennavano l'uno all'altro il bastimento con gesti da
spiritati, come una banda di briganti che dicessero:--Ecco la
preda.--Non sapendo chi fossero e che cosa volessero, discesi nella
barca, in mezzo a parecchi altri, col cuore un po' inquieto. Quando
fummo a una ventina, di passi dalla riva, tutta quella bordaglia colore
di terra cotta, s'avventò sulle barche, ci mise le mani addosso, e
cominciò a vociferare in arabo e in spagnuolo, fin che capimmo che le
acque essendo basse tanto da non poter approdare, dovevamo traghettare
sulle loro spalle; la qual notizia dissipò la paura d'uno svaligiamento
e destò il terrore dei pidocchi. Le signore furono portate via sulle
seggiole come in trionfo, ed io feci la mia entrata in Affrica a cavallo
a un vecchio mulatto, col mento inchiodato sul suo cocuzzolo e le punte
dei piedi nel mare.
Il mulatto, arrivato a terra, mi scaricò nelle mani d'un altro facchino
arabo, il quale, infilata una porta della città, mi condusse correndo
per una viuzza deserta a un albergo vicino, di dove uscii immediatamente
con una guida per andare nella strada più frequentata.
La prima cosa che mi colpì, e più fortemente ch'io non possa esprimere,
fu l'aspetto della popolazione.
Tutti portano una specie di lunga cappa di lana o di tela bianca, con un
grande cappuccio quasi sempre ritto sul capo, cosicchè la città presenta
l'aspetto d'un vasto convento di frati domenicani. Di tutto questo
popolo incappato, una parte si muove lentamente, gravemente e senza far
rumore, come se volesse passare inosservata; gli altri stanno seduti o
accovacciati lungo i muri, davanti alle botteghe, agli angoli delle
case, immobili e cogli occhi fissi, come le popolazioni pietrificate
delle loro leggende. L'andatura, gli atteggiamenti, il modo di guardare,
tutto è novo per noi; tutto rivela un ordine di sentimenti e d'abitudini
affatto diverso dal nostro; una tutt'altra maniera di considerare il
tempo e la vita. Quella gente non pare punto preoccupata delle sue
faccende, nè del luogo dove si trova, nè di quello che accade intorno ad
essa. Tutti hanno nell'espressione del viso qualchecosa di vago e di
profondo, come di chi sia dominato da un'idea fissa, o pensi a luoghi e
a tempi molto lontani, o sogni ad occhi aperti. Appena entrato nella
folla, mi ferì un odore particolare, che non avevo mai sentito in mezzo
alla gente in Europa; non so di che, ma punto gradevole, e nondimeno
cominciai ad aspirarlo con una viva curiosità, come se mi dovesse
spiegare qualche cosa. Andando innanzi, quella folla, che da lontano
m'era parsa uniforme, mi presentava mille varietà. Mi passavano accanto
faccie bianche, nere, giallastre, bronzine; teste ornate di lunghissime
ciocche di capelli e cranii rapati e lucidi come palle metalliche;
uomini secchi come mummie; vecchi d'una vecchiezza orrenda; donne col
viso e tutta la persona ravvolta in un mucchio informe di cenci; bimbi
con lunghe trecce; visi di sultani, di selvaggi, di negromanti,
d'anacoreti, di banditi, di gente oppressa da una tristezza immensa o da
una noia mortale; pochi o nessuno sorridente; gli uni dietro gli altri
silenziosi e lenti come una processione di spettri per il viale d'un
camposanto. Non so come, ma davanti a quello spettacolo, sentii il
bisogno d'abbassar gli occhi sopra me stesso, e di dire dentro di
me:--Io sono il tale dei tali, il paese dove mi trovo è l'Affrica, e
costoro sono Arabi--e riflettere un momento per ficcarmi questa idea
nella testa.
Una volta che vi fu, ci mettemmo a girare per le altre strade. La città
corrisponde per ogni verso alla popolazione. È tutta un labirinto
inestricabile di stradicciuole tortuose, o piuttosto di corridoi,
fiancheggiati da piccole case quadrate, bianchissime, senza finestre,
con porticine per le quali passa a stento una persona: case che paiono
fatte per nascondervisi più che per abitarvi, ed hanno un aspetto tra di
prigione e di convento. In molte strade non si vede che il bianco dei
muri e l'azzurro del cielo; di quando in quando, qualche archetto
moresco, qualche finestra arabescata, qualche striscia di rosso ai piedi
dei muri, qualche mano dipinta in nero accanto a una porta, che serve a
scongiurare gl'influssi maligni. Quasi tutte le strade sono ingombre di
legumi fradici, di penne, di cenci, d'ossami, e in qualche punto di
cani e di gatti morti, che ammorbano l'aria. Per lunghi tratti non
s'incontra che qualche gruppo di ragazzi arabi incappucciati che giocano
o canterellano con voce nasale i versetti del Corano; qualche povero
accovacciato, qualche moro a cavallo a una mula, qualche asino
sopraccarico, colla schiena sanguinolenta, sfruconato da un arabo mezzo
nudo; cani spelati e scodati, e gatti d'una magrezza favolosa. Qua e là,
passando, si sente odor d'aglio, di fumo di kif, d'aloè bruciato, di
belgiuino, di pesce. E così si gira l'intera città, che ha per tutto la
stessa bianchezza abbagliante e la stessa aria di mistero, di tristezza
e di noia.
Dopo un breve giro riuscimmo nella piazza principale, anzi unica, di
Tangeri, la quale è tagliata da una lunga strada che salendo dalla parte
della marina attraversa tutta la città. È una piazzetta rettangolare,
circondata di botteguccie arabe, che parrebbero meschine nel più povero
dei nostri villaggi. Da un lato v'è una fontana sempre circondata
d'arabi e di neri affaccendati ad attinger acqua con otri e brocche; da
un altro lato stanno tutto il giorno sedute in terra otto o dieci donne
col viso imbacuccato, che vendon pane. Intorno a questa piazza ci sono
le modestissime case delle Legazioni straniere che s'innalzano come
palazzi in mezzo alla moltitudine confusa delle casette moresche. In
questo piccolo spazio si concentra tutta la vita di Tangeri, che è la
vita d'un villaggio. V'è là vicino il solo tabaccaio della città, la
sola spezieria, il solo caffè, che è una stanzaccia con un biliardo, e
la sola cantonata dove si veda qualche volta qualche annunzio stampato.
Là si raccolgono i monelli seminudi, i ricchi mori sfaccendati, gli
ebrei che parlano d'affari, i facchini arabi che aspettano l'arrivo del
piroscafo, gl'impiegati delle Legazioni che aspettano l'ora del
desinare, gli stranieri appena arrivati, gl'interpreti, gli accattoni.
Là s'incontra il corriere che arriva cogli ordini del sultano da Fez, da
Mechinez o da Marocco, e il servitore che vien dalla posta coi giornali
di Londra e di Parigi; la bella dell'arem e la moglie del ministro; il
cammello del beduino e il cagnolino da salotto; il turbante e il
cappello cilindrico; l'onda sonora del pianoforte che erompe dalle
finestre d'un Consolato e la cantilena lamentevole che esce dalla porta
della moschea. Ed è il punto dove l'ultimo flutto della civiltà europea
s'infrange e ristagna nell'immensa acqua morta della barbarie affricana.
Dalla piazza, rimontando la strada principale, e passando per due
vecchie porte, uscimmo, che cominciava a imbrunire, dalle mura della
città, e ci trovammo in una piazza aperta sul fianco d'una collina,
chiamata Soc de Barra, o mercato esteriore, poichè ogni domenica e ogni
giovedì vi si fa il mercato. È forse di[tn8] tutti i luoghi ch'io vidi
nel Marocco, quello che mi fece sentire più profondamente il carattere
del paese. È un tratto di terreno nudo, tutto gobbe e incavature, colla
tomba d'un santo, formata da quattro muri bianchi, a mezza china; sulla
sommità un cimitero; più lontano qualche aloè e qualche fico d'india;
sotto, le mura merlate della città. In quel momento, vicino alla porta
v'era un gruppo di donne arabe, sedute in terra, con mucchi d'erbaggi
dinanzi; accanto alla tomba del santo una lunga fila di cammelli
accosciati; più su, alcune tende nerastre e un cerchio d'arabi attoniti,
seduti intorno a un vecchio, in piedi, che raccontava una storia; qua e
là, vacche e cavalli; e sulla sommità, fra le pietre e i monticelli di
terra del cimitero, altri arabi immobili come statue, col viso rivolto
verso la città, tutta la persona nell'ombra, e le punte dei cappucci che
spiccavano sull'orizzonte dorato dal crepuscolo. Su tutta questa scena
una pace di colori, un silenzio, una mestizia, da non potersi
efficacemente descrivere a voce, se non stillando parola per parola
nell'orecchio di chi ascolta, come quando si confida un segreto.
La guida mi svegliò dalla mia contemplazione e mi ricondusse
all'albergo, dove il mio dispiacere di trovarmi in mezzo a gente
sconosciuta fu per la prima volta mitigato dal fatto ch'eran tutti
Europei, cristiani e vestiti come me. V'erano a tavola una ventina di
persone, tra uomini e signore, di nazione diversa, che offrivano una
bella immagine di quello strano incrociamento di famiglie e d'interessi
che segue in quei paesi: un francese nato in Algeri, marito d'un'inglese
di Gibilterra; uno spagnuolo di Gibilterra, marito della sorella d'un
console portoghese della costa dell'Atlantico; un vecchio inglese con
una figliuola nativa di Tangeri e una nipotina nativa d'Algeria;
famiglie erranti da un continente all'altro, o sparpagliate sulle due
coste, che parlano cinque lingue, e vivono metà all'araba e metà
all'europea. Appena cominciato il desinare, cominciò una conversazione
vivissima, ora in francese, ora in spagnuolo, tempestata di parole
arabe, sopra soggetti affatto estranei alla consuetudine delle
conversazioni europee: come il prezzo d'un cammello, lo stipendio d'un
Pascià, se il Sultano fosse bianco o mulatto, se era vero che fossero
state portate a Fez dieci teste di rivoltosi della provincia di Garet,
quando sarebbero arrivati a Tangeri quei religiosi fanatici che mangiano
i montoni vivi, ed altre cose di questo genere, che mi facevano
saltellare dentro all'anima il diavolo della curiosità. Poi vennero a
parlare di politica europea con quel non so che di scucito che c'è
sempre nei discorsi di gente di vario paese, e quelle solite gran frasi
vuote con cui si parla d'una politica lontana, fantasticando alleanze
spropositate e guerre favolose. E poi il discorso cadde su Gibilterra,
argomento inevitabile; la gran Gibilterra, il centro d'attrazione di
tutti gli Europei della costa, dove si mandano i figliuoli a studiare,
dove si va a comprare il vestito, a ordinare un mobile, a sentire
l'opera in musica, a respirare una boccata d'aria d'Europa. E finalmente
venne in campo la partenza dell'ambasciata italiana per Fez, ed io ebbi
il grandissimo piacere di sentire che l'avvenimento era assai più
importante di quel che credevo, che se ne parlava in tutta Tangeri e in
tutta Gibilterra e ad Algesira e a Cadice e a Malaga, e che la carovana
sarebbe stata lunga un miglio, e che coll'ambasciata c'erano dei pittori
italiani, e che forse ci sarebbe stato perfino _un representante de la
prensa_. Alla quale notizia mi alzai modestamente da tavola e mi
allontanai con passo maestoso.
Più tardi, a notte inoltrata, volli fare un altro giro per veder Tangeri
addormentata. Non v'era un lampione, non una finestra illuminata, non
uno spiraglio da cui trapelasse un barlume; la città pareva disabitata e
non riceveva altra luce che quella del cielo stellato, sul quale
biancheggiavano, come enormi tombe di marmo, le case più alte, e si
disegnavano nitidamente le cime dei minareti e i rami delle palme. Andai
sino in fondo alla strada principale: le porte della città erano chiuse.
Girai per altre vie: tutto chiuso, immobile, muto. Due o tre volte
inciampai in qualchecosa che a primo aspetto mi parve un mucchio di
cenci, ed era un arabo addormentato. Sentii più volte, con raccapriccio,
scricchiolare sotto il mio piede penne ed ossami, o cedere mollemente
qualcosa che doveva essere la carogna d'un cane. Mi passò accanto,
rasente il muro, come uno spettro, un arabo incappato; ne vidi un altro
biancheggiare un momento in fondo a un vicolo; e a una svoltata sentii,
senza veder nulla, un fruscìo affrettato di pantofole e di cappe, che mi
fece sospettare d'aver turbato un conciliabolo. Andando, non sentivo che
il rumore del mio passo; fermandomi, non sentivo che il mio respiro. Mi
pareva che tutta la vita di Tangeri si fosse ridotta in me solo, e che
se avessi gettato un grido, sarebbe risonato da un capo all'altro della
città come uno scoppio di tuono. Pensavo alle tante belle arabe
addormentate, alle quali passavo vicino, e agli strani misteri che avrei
scoperti, se quelle case si fossero aperte tutt'a un tratto come una
scena di teatro. Di quando in quando mi fermavo dinanzi alla splendida
bianchezza di certi spazi di muro, su cui batteva la luna, che parevano
illuminati dalla luce elettrica. In un vicolo oscuro incontrai un nero
con una lanterna, che si fermò per lasciarmi passare, mormorando qualche
parola che non compresi. Nel punto che sboccavo nella piazzetta, sentii
sonare in quel profondo silenzio una risata sgangherata, che mi diede i
brividi. Erano due giovanotti col cappello cilindrico, probabilmente due
impiegati di Legazione, che passeggiavano discorrendo. In un angolo
della piazza, sotto la tenda d'una bottega chiusa, un lumicino moribondo
rischiarava confusamente un ammasso di cenci biancastri, da cui usciva
un suono leggerissimo di chitarra e un filo di voce tremola e
lamentevole, che pareva portata dal vento da una gran lontananza. Io
stetti là immobile, sognando piuttosto che pensando, fin che i due
giovani sparirono e il lumicino si spense, e allora tornai all'albergo,
stanco, sbalordito, coll'imaginazione in tumulto, e con un sentimento
nuovo e stranamente confuso di me medesimo, come ho più volte pensato
che dovrebbe essere quello d'un uomo trasportato dalla terra in un altro
pianeta.
§ § § § §
La mattina dopo uscii per andarmi a presentare al nostro incaricato
d'affari, Comm. Stefano Scovasso. Egli non avrebbe potuto dirmi che non
ero puntuale al convegno. Il giorno otto d'aprile, a Torino, avevo
ricevuto l'invito, coll'annunzio che la carovana sarebbe partita da
Tangeri il giorno diciannove: la mattina del diciotto mi trovavo alla
porta della Legazione. Non conoscevo di persona il Comm. Scovasso; ma
sapevo di lui qualche cosa, che mi dava una gran curiosità di
conoscerlo. Di due suoi amici che avevo interrogati prima di partire,
uno m'aveva assicurato ch'era un uomo capace d'andare a cavallo da
Tangeri a Tumbuctù, senz'altra compagnia che un paio di pistole; l'altro
aveva biasimato la sua pessima abitudine di rischiare la propria vita
per salvare quella degli altri. In grazia di queste informazioni lo
riconobbi a primo aspetto, da lontano, prima ancora che l'interprete
dell'albergo, il quale m'accompagnava, me lo indicasse. Era sulla porta
della Legazione, in mezzo ad alcuni arabi immobili in un atteggiamento
ossequioso, che pareva aspettassero degli ordini. Mi presentai, mi
ricevette da par suo, mi volle sin da quel momento ospite del _quartier
generale_, e mi diede notizie della _spedizione_. La partenza era
rimandata ai primi di maggio, perchè a Fez, in quei giorni, v'era
l'ambasciata inglese. S'aspettavano di là i cavalli, i cammelli, i muli
e un drappello di cavalleria che ci avrebbe scortati in viaggio. Un
bastimento da trasporto della nostra marina militare, il _Dora_, allora
ancorato a Gibilterra, aveva già portato a Larrace, sulla costa
dell'Atlantico, i regali che Vittorio Emanuele mandava all'Imperatore
del Marocco. Lo scopo principale del viaggio, per l'incaricato d'affari,
era di presentare le credenziali al giovine sultano Mulei el Hassen,
salito al trono nel settembre del 1873. Nessun'ambasciata italiana era
mai stata a Fez. Era la prima volta che si portava nell'interno del
Marocco la bandiera della nuova Italia. Perciò l'ambasciata sarebbe
stata ricevuta con straordinaria solennità. Il nostro Ministero della
guerra aveva mandato un capitano di stato maggiore, il signor Giulio di
Boccard; il Ministero della Marina, un capitano di fregata, il signor
Fortunato Cassone, allora comandante del _Dora_, ora capitano di
vascello. Questi, insieme col vice-console italiano di Tangeri e col
nostro agente consolare di Mazagan formavano la parte ufficiale
dell'ambasciata. Il pittore Ussi di Firenze, il pittore Biseo di Roma ed
io eravamo invitati privatamente dal signor Scovasso. Tutti, eccetto
l'agente di Mazagan, si trovavano già a Tangeri.
La mia prima occupazione, appena rimasto solo, fu di osservare la casa
nella quale ero ospitato; e veramente la casa d'un Ministro europeo in
Africa, d'un Ministro, in specie, che si prepara ad un viaggio
nell'interno, è degna d'osservazione. L'edificio, per sè stesso, non ha
nulla di straordinario: di fuori è bianco e nudo, ha un giardinetto
davanti, un piccolo cortile nell'interno, e nel cortile quattro colonne
sulle quali s'appoggia una galleria coperta che gira tutt'intorno
all'altezza del primo piano. È una casa signorile di Cadice o di
Siviglia. Ma la gente, la vita di questa casa mi riuscì affatto nuova.
Governante e cuoco, piemontesi; una serva mora di Tangeri ed una negra
del Sudan, coi piedi nudi; camerieri e stallieri arabi vestiti di grandi
camicie bianche; guardie consolari, con fez, caffettano rosso e pugnale;
tutta questa gente in moto per tutta la giornata. Poi, a certe ore, un
andirivieni di operai ebrei, di facchini neri, d'interpreti, di soldati
del Pascià, di mori protetti dalla Legazione. Il cortile era ingombro di
casse, di letti da campo, di tappeti, di lanterne. A tutte le ore si
sentiva picchiare il martello e strider la sega, e i servi chiamarsi fra
loro con quei nomi strani di Fatma, Racma, Selam, Mohammed, Alì,
Abd-er-Rhaman. E la mescolanza delle lingue! Un moro faceva
un'imbasciata in arabo a un altro moro, che la trasmetteva in spagnolo
alla governante, che la ripeteva in piemontese al cuoco. Era un
continuo intrecciarsi di traduzioni, di commenti, d'equivoci, di dubbi,
intercalati di _Por dios_, d'_Allá_ e di sacrati italiani. Nella strada
una processione di cavalli e di mule. Davanti alla porta un gruppo
permanente di curiosi, o di poveri diavoli, arabi ed ebrei, aspiranti,
alla lontana, alla protezione della Legazione. Di tratto in tratto la
visita d'un ministro o d'un console, a cui si inchinavano tutti i fez e
tutti i turbanti. Ogni momento l'apparizione d'un messo misterioso, d'un
vestiario sconosciuto, d'una faccia strana. Infine una varietà di
figure, di colori, di gesti, d'accenti, di faccende, da non mancarvi che
la musica per credere d'essere in teatro, alla rappresentazione d'un
ballo mimico di soggetto orientale.
Il mio secondo pensiero fu d'impadronirmi di qualche libro del mio
ospite per sapere in che paese mi trovassi, prima di mettermi a studiare
i costumi. Questo paese, chiuso fra il Mediterraneo, l'Algeria, il
deserto di Sahara e l'Oceano, attraversato dalla grande catena
dell'Atlante, bagnato da larghi fiumi, aperto in pianure immense,
dominato da tutti i climi, privilegiato, nei tre regni della natura, di
ricchezze inestimabili, destinato, per la sua giacitura, ad essere una
gran via di commercio fra l'Africa centrale e l'Europa; è ora occupato
da circa otto milioni d'abitanti tra berberi, mori, arabi, ebrei, negri
ed europei, sparsi sopra una estensione di terreno più vasta della
Francia. I berberi, che formano il fondo della popolazione indigena,
selvaggi, turbolenti, indomiti, vivono sulle montagne inaccessibili
dell'Atlante, quasi indipendenti dall'autorità imperiale. Gli arabi, il
popolo conquistatore, occupano le pianure, ancora nomadi e pastori e non
in tutto degeneri dalla fierezza del carattere antico. I mori, arabi
incrociati e corrotti, discendenti in gran parte dai mori di Spagna,
abitano le città, ed hanno nelle mani le ricchezze, le cariche, il
commercio. I neri, cinquecentomila circa, provenienti dal Sudan, sono
per lo più servi, lavoratori e soldati. Gli Ebrei, presso a poco eguali
di numero ai neri, discendenti la più parte dagli Ebrei esiliati
d'Europa nel medio evo, oppressi, odiati, avviliti, perseguitati più che
in nessun altro paese del mondo, esercitano le arti e i mestieri,
mercanteggiano, s'industriano in mille modi coll'ingegno, la
pieghevolezza e la costanza propria della loro razza, e trovano un
compenso all'oppressione nel possedimento dei denari strappati ai loro
oppressori. Gli Europei, che l'intolleranza mussulmana respinse a poco a
poco dall'interno dell'Impero verso le coste, son meno di due migliaia
in tutto il Marocco, abitano la maggior parte la città di Tangeri, e
vivono liberamente all'ombra delle bandiere dei Consolati. Questa
popolazione eterogenea, dispersa, inconciliabile, è, piuttosto che
retta, oppressa da un governo soldatesco, che succhia come un immenso
polipo tutti gli umori vitali dello Stato. Le tribù e le borgate
obbediscono agli sceicchi, le città e le provincie ai Caid, le grandi
provincie ai pascià, e i pascià al Sultano, grande Sceriffo, sommo
sacerdote, giudice supremo, esecutore della legge che emana da lui,
libero di mutare a suo capriccio monete, imposte, pesi, misure, padrone
delle sostanze e delle vite dei suoi sudditi. Sotto il peso di questo
governo, e dentro al cerchio inflessibile della religione mussulmana,
rimasta immune da ogni influsso europeo, e snaturata da un fanatismo
selvaggio, tutto ciò che negli altri paesi s'agita e procede, là rimane
immobile o rovina. Il commercio è strozzato dai monopoli, dalle
proibizioni d'esportazione e d'importazione, dalla capricciosa
mutabilità delle leggi. L'industria, ristretta nella sua attività dai
vincoli posti al commercio, è rimasta come prima della cacciata dei Mori
dalla Spagna, coi suoi strumenti primitivi e coi suoi procedimenti
infantili. L'agricoltura, oberata di balzelli, vincolata
nell'esportazione dei prodotti, non curata che quanto richiedono le
prime necessità della vita, è decaduta a segno da non meritar quasi il
nome d'arte. La scienza, soffocata dal Corano, contaminata dalla
superstizione, si riduce, nelle maggiori scuole, a pochi elementi, quali
s'insegnavano nel medio evo. Non v'è stampa, nè libri, nè carte
geografiche; la lingua stessa, corruzione dell'arabo, non rappresentata
che da una scrittura imperfetta e variabile, si va sempre più
degradando; il carattere nazionale nella generale decadenza si corrompe;
tutta l'antica civiltà mussulmana deperisce. Il Marocco, questo estremo
baluardo occidentale dell'Islamismo, già sede d'una monarchia che
dominava dall'Ebro al Sudan e dal Niger alle Baleari, glorioso
d'Università fiorenti, di biblioteche immense, di dotti famosi,
d'eserciti e di flotte formidabili, non è più che un piccolo Stato
pressochè sconosciuto, pieno di miseria e di rovine, che resiste colle
ultime sue forze all'invasione della civiltà europea, sorretto ancora
sulle sue fondamenta sfasciate dalle reciproche gelosie degli Stati
civili.
Quanto a Tangeri, l'antica Tingis, che diede il nome alla Mauritania
tingitana, e passò successivamente dalle mani dei Romani in quelle dei
Vandali, dei Greci, dei Visigoti, degli Arabi, dei Portoghesi,
degl'Inglesi, è una città di quindicimila abitanti, che le sue sorelle
dell'Impero considerano come una «prostituta dei Cristiani», benchè non
vi rimanga più traccia delle chiese e dei monasteri che vi fondarono i
Portoghesi, e la religione cristiana non v'abbia che una piccola
cappella, nascosta in mezzo alle case consolari.
Dopo ciò cominciai a fare per le strade di Tangeri qualche studio
preparatorio per il viaggio, notando giorno per giorno le mie
osservazioni. Ed eccone alcune, incomplete e slegate, ma scritte sotto
l'impressione immediata delle cose, e perciò forse più efficaci d'una
descrizione pensata.
* * * * *
Io mi vergogno quando mi passa accanto un bel moro vestito in gala.
Paragono il mio cappelluccio al suo enorme turbante di mussolina, la mia
misera giacchetta al suo lungo caffettano color di gelsomino o di rosa,
l'angustia, insomma, del mio vestiario grigio e nero, all'ampiezza, al
candore, alla dignità semplice e gentile del suo, e mi par di far la
figura d'un scarabeo accanto a una farfalla. Sto qualche volta lungo
tempo a contemplare, dalla finestra della mia camera, un palmo di
calzoncino color di sangue e una babuccia color giallo d'oro, che
spuntano di dietro a un pilastro, giù nella piazzetta, e ci provo un
piacere, che non ne posso staccar lo sguardo. E più d'ogni cosa
m'innamora e mi mette invidia il caìc: quel lungo pezzo di lana o di
seta bianchissima, a striscie trasparenti, che si avvolge intorno al
turbante, casca sulla schiena, gira intorno alla vita, si ripiega sulle
spalle, e ridiscende fino ai piedi, e velando vagamente i colori pomposi
dei panni, ad ogni alito di vento tremola, ondeggia, si gonfia, par che
s'accenda ai raggi del sole, e dà a tutta la persona l'apparenza
vaporosa d'una visione. In questo bellissimo velo avvolge e stringe sè e
la sposa il mussulmano innamorato nella notte nuziale.
* * * * *
Chi non abbia visto, non può immaginare fino a che punto giunga, presso
gli Arabi, l'arte di sdraiarsi. In angoli dove noi ci troveremmo
imbarazzati a mettere un sacco di cenci o un fastello di paglia, essi
trovano il modo di adagiarsi come sopra un letto di piume. Si
arrotondano intorno a tutte le sporgenze, riempiono tutte le cavità, si
appiccicano ai muri come bassorilievi, si allungano e si schiacciano sul
terreno in maniera da non parer più che cappe bianche distese ad
asciugare, si attorcigliano, piglian la forma di palle, di cubi, di
mostri senza braccia, senza gambe, senza testa; così che le strade e le
piazze della città paiono seminate di cadaveri e di tronchi umani, come
dopo una strage.
* * * * *
Più considero questa gente, e più ammiro la nobiltà dei loro movimenti.
Fra noi non v'è quasi alcuno che o per l'impedimento degli abiti, o per
la strettezza della calzatura, o per vezzo, non abbia un'andatura
contraffatta. Costoro si movono colla libera eleganza di superbi animali
selvaggi. Cerco e non trovo in mezzo a loro nemmeno uno di quei mille
atteggiamenti da rodomonte, da ballerino e da innamorato svenevole, ai
quali abbiamo l'occhio abituato nei nostri paesi. Tutti hanno nel loro
modo di camminare qualcosa della compostezza d'un sacerdote, della
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