Marocco - 06

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Intorno a noi, a pochi passi di distanza, stavano seduti i servi,
ciascuno tenendo in mano le briglie d'un cavallo o d'una mula. I pittori
tirarono fuori i loro album per fare qualche schizzo. Tempo perso!
Appena uno di quegli scamiciati si vedeva guardato, o voltava le spalle
o si nascondeva dietro un albero o si tirava il cappuccio sugli occhi.
Tre, l'uno dopo l'altro, s'alzarono e se n'andarono brontolando a sedere
cinquanta passi più lontano, tirando con sè i loro quadrupedi. Non
volevano nemmeno che fossero copiati gli animali. Chi non ha visto il
signor Biseo in quei momenti, non ha mai visto in faccia la Stizza.
Cercò di farli star fermi pregandoli, canzonandoli, offrendo danaro.
Fiato sprecato. Rispondevano facendo cenno di no colla mano, indicando
il cielo e sorridendo furbescamente come per dire:--Non siamo così
gonzi!--Nemmeno il ragazzo mulatto, nemmeno i soldati della Legazione,
cresciuti, si può dire, in mezzo agli Europei, e già quasi famigliari
coi due artisti, non vollero permettere che la loro immagine fosse
profanata dalla matita cristiana. Il Corano, come tutti sanno, proibisce
la rappresentazione della figura umana e degli animali, come un
principio o una tentazione all'idolatria. Il signor Biseo fece domandare
dall'interprete a uno dei soldati per quale ragione non si voleva
lasciar copiare.--Perchè,--rispose,--in quella figura che vuol fare, il
pittore non è capace d'infondere l'anima. A che scopo dunque la vorrebbe
fare? Dio soltanto può creare degli esseri viventi, ed è un sacrilegio
pretendere d'imitarlo.--Fu interrogato il ragazzo mulatto.--Fatemi il
ritratto,--egli disse ridendo,--mentre dormo; non me ne importa; non ci
avrò colpa io; ma mentre io vedo, mai al mondo.--Allora il Biseo si mise
a fare lo schizzo d'uno che dormiva. Tutti gli altri, raggruppati in
disparte, stavano attenti, guardando ora il pittore ora il dormiente coi
loro grandi occhi stupiti. A un tratto il servo si svegliò, girò gli
occhi intorno, capì, fece un atto di dispetto e s'allontanò, mormorando,
fra le risa dei compagni che avevan l'aria di dirgli:--Te l'hanno fatta,
via; ora sei conciato per le feste.
Ci rimettemmo in cammino e in capo a un'ora circa vedemmo biancheggiare
all'orizzonte le tende dell'accampamento.
Un drappello di cavalieri, sbucati non so di dove, ci vennero incontro,
di grande carriera, gridando e sparando i loro fucili; a dieci passi da
noi, si fermarono; il capo strinse la mano all'ambasciatore; poi si
unirono alla scorta. Erano cavalieri del luogo dove sorgeva il nostro
accampamento, soldati d'una specie di _landwehr_, che forma la parte più
numerosa dell'esercito marocchino (se il complesso delle forze militari
del Marocco si può chiamare esercito), ed è composta di tutti gli uomini
atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante,
altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano
bianco.
Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende.
L'accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una
parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall'altra, una
catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c'erano due
gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d'India.
Ci radunammo tutti sotto una tenda.
Appena eravamo seduti, arrivò correndo un soldato della Legazione, si
piantò davanti all'Ambasciatore e disse con voce allegra:--La _mona_!
--Venga,--rispose l'ambasciatore alzandosi.
Tutti ci alzammo.
Una lunga fila di arabi, accompagnati dal Comandante della scorta, dai
soldati della Legazione e dai servi, attraversò l'accampamento, si venne
a schierare davanti alla nostra tenda e depose ai piedi
dell'Ambasciatore una gran quantità di carbone, d'ova, di zuccaro, di
burro, di candele, di pani, tre dozzine di galline e otto montoni.
Questo tributo era la _muna_. Oltre i gravi balzelli che pagano in
denaro, gli abitanti della campagna sono obbligati a fornire a tutti i
personaggi ufficiali, ai soldati del Sultano e alle ambasciate che
passano, una certa quantità di viveri e d'altre provvigioni. Il Governo
fissa la quantità; ma le autorità locali tassando gli abitanti a loro
arbitrio, ne segue che la quantità di roba ricevuta, benchè sempre
superiore ai bisogni, non è mai che una piccola parte di quella che è
stata estorta un mese prima, o che sarà estorta forse anche un mese dopo
il giorno della presentazione.
Un vecchio, che doveva essere un capo di tribù, rivolse, per mezzo
dell'interprete, qualche parola ossequiosa all'Ambasciatore. Gli altri,
tutti poveri campagnoli vestiti di cenci, guardavano a vicenda noi, le
tende e la loro roba,--i frutti del loro sudore sparsi per terra,--con
un'aria tra mesta ed attonita, che rivelava una profonda rassegnazione.
Fatta rapidamente la ripartizione della roba fra la mensa
dell'ambasciata, la scorta, i mulattieri e i soldati della Legazione, il
signor Morteo, ch'era stato nominato quella stessa mattina Intendente
generale del campo, diede una mancia al vecchio arabo, questo fece un
cenno ai suoi compagni, e tutti ripresero silenziosamente la via delle
loro capanne.
Allora cominciò, come doveva poi accadere tutti i giorni, un gran
battibecco fra servi, mulattieri e soldati per la ripartizione della
_mona_. Era una scena amenissima. Due o tre di loro andavano e venivano
per il campo a passi concitati, con un montone fra le braccia, invocando
Allà e l'ambasciatore; altri gridavano la loro ragione battendo i pugni
in terra; Civo faceva sventolare di qua e di là il suo camicione bianco
colla profonda persuasione di esser terribile; i montoni belavano, le
galline scappavano, i cani latravano. A un tratto s'alzò l'Ambasciatore
e tutto tacque.
Il solo che brontolò ancora qualche momento fu Selam.
Selam era un gran personaggio. Veramente due dei soldati della Legazione
portavano questo nome, tutti e due addetti al servizio particolare
dell'Ambasciatore; ma come dicendo Napoleone, se non s'aggiunge altro,
s'intende Napoleone primo, così fra noi, in viaggio, dicendo Selam
intendevamo dir quello solo. Come l'ho sempre vivo dinanzi agli occhi!
Lui, Mohammed lo sposo, e l'Imperatore, sono veramente per me le tre
figure più simpatiche ch'io abbia viste nel Marocco. Era un giovane
bello, forte, svelto e pieno d'ingegno. Capiva tutto a volo, faceva
tutto in furia, camminava a salti, parlava a sguardi, era in moto dalla
mattina alla sera. Per i bagagli, per le tende, per la cucina, per i
cavalli, tutti si rivolgevano a lui; egli sapeva tutto e rispondeva a
tutti. Parlava mediocremente lo spagnuolo e sapeva qualche parola
d'italiano; ma si sarebbe fatto capir anche coll'arabo, tanto la sua
mimica era pittoresca e parlante. Per indicare una collina faceva il
gesto d'un colonnello focoso che accenni al suo reggimento una batteria
da assalire. Per fare un rimprovero a un servo, gli si precipitava
addosso come se l'avesse voluto annientare. Mi rammentava ogni momento
Tommaso Salvini nelle parti d'Orosmane e d'Otello. In qualunque
atteggiamento si mostrasse, da quando versava l'acqua fredda sulla
schiena all'ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo,
inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella,
elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava
un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla
prima da un'estremità all'altra della carovana. Nell'accampamento non si
sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava
con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava,
montava in collera, prorompeva in risa; quand'era in collera pareva un
selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che
dicesse, c'entrava _el señor ministro_. Il signor ministro, per lui,
veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro
il suo petto non l'avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non
meritato dell'Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni.
Finito ch'ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa.
Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga
macchia di sangue. Gli domandai che cos'era. Mi rispose che s'era ferito
con uno dei grossi pani di zucchero della _mona_.--L'ho gettato in
aria,--mi disse colla più gran serietà,--e l'ho ricevuto sulla
testa,--Non capivo: si spiegò.--Faccio così,--mi disse,--per
fortificarmi la testa. Le prime volte cascavo in terra tramortito,
adesso non verso più che qualche goccia di sangue. Verrà il tempo che
non mi scalfirò nemmeno la pelle. Tutti gli arabi fanno lo stesso. Mio
padre si rompeva sul cranio dei mattoni spessi due dita, com'io ci
romperei un pezzo di pane. Un vero arabo (conchiuse con aria altera,
battendosi il pugno sul cocuzzolo) deve avere la testa di ferro.
§ § § § §
L'accampamento, quella sera, presentava un aspetto assai diverso da
quello del giorno innanzi. Ognuno aveva già preso le sue abitudini. I
pittori avevano rizzato i loro cavalletti davanti alla tenda e
dipingevano. Il capitano era andato a osservare il terreno, il
vice-console a raccogliere insetti, l'ex-ministro di Spagna alla caccia
delle pernici; l'ambasciatore e il comandante giocavano a scacchi sotto
la tenda della mensa; i servi si saltavano l'un l'altro appoggiandosi le
mani sulle spalle; i soldati della scorta discorrevano seduti in
cerchio; degli altri chi passeggiava, chi leggeva, chi scriveva;
sembrava che fossimo attendati là da un mese. Se ci fosse stata una
piccola stamperia, mi sarebbe saltato il grillo di fondare un giornale.
Il tempo era bellissimo. Si desinò colla tenda aperta, e per tutto il
tempo del desinare, i cavalieri di Had-el-Garbia festeggiarono
l'ambasciata con cariche clamorose, rischiarate da uno splendido
tramonto di sole.
§ § § § §
A tavola sedeva dinanzi a me Mohammed Ducali. Ebbi modo per la prima
volta di osservarlo attentamente. Era il vero tipo del ricco moro,
molle, elegante e ossequioso; e dico ricco, perchè si diceva che
possedesse più di trenta case a Tangeri, quantunque in quel tempo i suoi
affari fossero un po' imbrogliati. Poteva avere una quarantina d'anni.
Era alto di statura, di lineamenti regolari, bianco, barbuto; portava un
piccolo turbante ravvolto in un caïc del più fino tessuto di Fez, che
gli scendeva sopra un caffettano di panno amaranto ricamato; sorrideva
per far vedere i denti, parlava spagnuolo con una voce femminea,
guardava, s'atteggiava e gestiva con una languidezza da innamorato. In
altri tempi aveva fatto il negoziante: era stato in Italia, in Spagna, a
Londra, a Parigi, ed era tornato al Marocco con idee ed abitudini
europee. Beveva vino, fumava sigaretti, portava calze, leggeva romanzi,
raccontava le sue avventure amorose. La ragione principale che lo
conduceva a Fez era un credito ch'egli aveva col Governo, e sperava,
coi buoni uffici dell'ambasciatore, di farsi pagare. Aveva portato con
sè la sua tenda, i servi, le mule. I suoi occhi lasciavan capire che, se
avesse potuto, avrebbe portato anche le sue donne; ma su quest'argomento
serbava il più rigoroso silenzio. Le donne di cui parlava, raccontando
le sue avventure, erano europee. L'arèm era anche per lui una cosa
sacra. Arrischiai, con parole vaghe, una domanda: mi guardò, sorrise
pudicamente e non rispose.
§ § § § §
Dopo desinare, soddisfeci un desiderio vivissimo che avevo già fin prima
della partenza da Tangeri; feci un'escursione notturna per
l'accampamento.
Fu uno dei più bei divertimenti ch'io abbia avuti nel viaggio.
Aspettai che tutti fossero entrati nelle tende; mi ravvolsi in una cappa
bianca del comandante ed uscii in cerca d'avventure.
Il cielo era tutto stellato; le lanterne, fuor che quella appesa in cima
all'asta della bandiera, erano spente; in tutto l'accampamento regnava
un silenzio profondo.
Adagio adagio, cercando di non inciampare nelle cordicelle delle tende,
voltai a sinistra.
Fatti dieci passi, un suono inaspettato mi ferì l'orecchio. Mi arrestai.
Mi parve un suono di chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non
avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell'ambasciatore, una
trentina di passi fuori del cerchio dell'accampamento. Mi avvicinai e
tesi l'orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che
cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda
misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La
tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per
disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto
una voce soave, vicinissima a me, domandò:--_Quien es?_ (Chi è?)--Allà
mi protegga!--pensai--qui c'è una donna.--Un curioso!--risposi
coll'inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco,
e una voce maschile disse in spagnuolo:--Bravo! venga a prendere una
tazza di tè!--Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui
subito compensato. S'aperse una porticina e mi trovai sotto una
bellissima tenda, rivestita d'una ricca stoffa a fiorami, ornata di
finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di
belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del
Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di
Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suo
servo, un giovane arabo d'aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra
le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c'era un vassoio
con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al
Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi
offerse una tazza, mi fece sonare un'arietta, mi augurò buon viaggio, ed
uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell'oscurità silenziosa
dell'accampamento. Girai intorno a un'altra tenda, dove dormivano gli
altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell'ambasciatore.
Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina,
colla sciabola vicino al capo.--Se lo sveglio, e non mi riconosce
subito,--pensai--m'accoppa! Usiamo prudenza.--M'avvicinai in punta di
piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti
da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v'era un
tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là
dormivano l'ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di
lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M'avvicinai. Un maledetto
grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell'ambasciatore. Quasi nello
stesso punto la voce del padrone domandò:--Chi è?
--Un sicario! mormorai.
Riconobbe subito la mia voce.
--Ferisca--, rispose.
Gli spiegai il motivo della mia visita;--ne rise di cuore, e
stringendomi la mano al buio, mi augurò buona fortuna.
Uscendo inciampai in qualcosa che m'insospettì: accesi un fiammifero:
era una tartaruga. Guardai intorno e vidi a due passi da me un rospo
enorme, che pareva che mi guardasse. Ebbi per un momento la tentazione
di rinunziare all'impresa; ma la curiosità vinse il ribrezzo e tirai
innanzi.
Arrivai davanti alla tenda dell'Intendente. Mentre mi chinavo per
origliare, una figura alta e bianca si alzò fra me e la porta, e disse
con accento sepolcrale:--Dorme.--Detti indietro come all'apparizione
d'un fantasma. Ma subito mi rincorai. Era un arabo, servo del Morteo da
molti anni, che parlava un po' italiano, e che, malgrado la mia cappa
bianca, m'aveva riconosciuto a primo aspetto. Come Selam, egli riposava
davanti alla tenda del suo padrone, colla sciabola al fianco. Gli diedi
la buona notte e continuai la mia strada.
Nella tenda vicina, c'erano il medico e il dracomanno Salomone. Un acuto
odore di medicinali l'annunziava a dieci passi all'intorno. V'era il
lume acceso. Il dracomanno dormiva; il medico, seduto al tavolino,
leggeva. Questo medico, giovane, colto, d'aspetto e di maniere
signorili, aveva una particolarità assai curiosa. Nato in Algeri di
famiglia francese, vissuto molti anni in Italia, e marito d'una
spagnuola, non solo parlava con uguale facilità le lingue dei tre paesi;
ma ritraeva egualmente del carattere dei tre popoli, sentiva tre
equivalenti amori di patria, era insomma un latino uno e trino, che si
sarebbe trovato a casa sua così a Roma, come a Madrid, come a Parigi.
Oltre a questo era dotato d'un senso comico finissimo; tanto che senza
parlare, senza lasciarsi scorgere, con uno sguardo furtivo, con un
leggerissimo movimento delle labbra, rilevava il lato ridicolo d'una
persona o d'una cosa in modo da far scoppiare delle risa. Appena mi
vide, indovinò la ragione dalla mia presenza, mi offerse un sorso di
liquore, e alzando il bicchierino disse sottovoce:--Al felice successo
della spedizione!--Coll'aiuto d'Allà!--risposi, e lo lasciai alla sua
lettura.
Passai davanti alla gran tenda della mensa: era deserta. Voltai a
sinistra, uscii dal cerchio dell'accampamento, passai in mezzo a due
lunghe file di cavalli addormentati, e mi trovai in mezzo alle tende
della scorta. Tesi l'orecchio: sentii il respiro dei soldati che
dormivano. Davanti alle tende erano sparpagliati fucili, sciabole,
selle, ciarpe, pugnali, caic e la bandiera di Maometto, come sopra il
campo d'una mischia. Guardai la campagna: non si vedeva nessuno. Appena
apparivano come due macchie nere ed informi i due gruppi di capanne.
Tornai indietro, passai in mezzo alla tenda del Console d'America e a
quella dei suoi servi, tutt'e due chiuse e silenziose; attraversai il
piccolo spazio di terreno dov'era piantata la cucina, e superata una
barricata di botti, di tegami, di pentole, di brocche, arrivai alla
piccola tenda del cuoco.
Con lui dormivano là sotto i due arabi, che gli facevan da sguatteri.
Misi la testa dentro:--era buio. Chiamai il cuoco per nome:--_Gioanin!_
Il poveretto, afflitto dalla mala riuscita d'una frittura, e forse anche
inquieto per la vicinanza dei due «selvaggi», non dormiva.
--_A l'è chiel?_ (È lei?) domandò.
--Son io.
Tardò qualche momento a rispondere e poi, voltandosi sul letto, esclamò
sospirando:--_Ah! che pais!_
--Coraggio,--dissi--, pensate che fra dieci giorni sarete dinanzi alle
mura della grande città di Fez.
Rispose qualche cosa in confuso di cui non afferrai altro che la parola
_Moncalieri_; dopo di che rispettai il suo dolore, e tirai innanzi.
Nella tenda accanto v'erano i due marinai: il Ranni, ordinanza del
comandante, e Luigi, calafato a bordo del _Dora_, napoletano, un
giovanetto[tn127] gentile, sveglio, operoso, che in due giorni s'era
cattivata la simpatia di tutti. Avevano il lume acceso e mangiavano.
Tendendo l'orecchio, colsi qualche parola del loro dialogo. Era assai
curioso. Luigi domandava a chi fossero destinati gli schizzi a matita
che facevano i due pittori sui loro album.--Oh bella!--rispose il
Ranni--al Re, si capisce.--Così senza colori?--domandò l'altro.--Eh no:
tornati che saranno in Italia, prima ci metteranno i colori e poi li
manderanno.--Chi sa quanto glieli pagano!--Eh molto, si sa. Magari uno
scudo il foglio. Un re non bada ai denari.--Temendo d'essere scoperto e
sospettato di spionaggio, rinunziai, mio malgrado, a sentire il seguito,
e mi allontanai in punta di piedi.
Uscii un'altra volta dall'accampamento e girai per qualche minuto in
mezzo a lunghe file di cavalli e di mule, fra le quali riconobbi, con
una dolce emozione, la mia bianca compagna di viaggio, che pareva
assorta in profondi pensieri. Uscito di là, mi trovai davanti alla
tenda del signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei
personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le
lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore,
interprete, scopritore d'iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e
cavallo all'ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle
cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi
comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra
un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore
d'un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi
richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che
meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei
lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua
vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo
corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi
avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani
personaggi, gli turbinava nel capo!--Forse anche, invece che a tutto
questo, pensava al prezzo d'un paio di calzoni da _turcos_ o alla sua
scarsa provvigione di tabacco.--Nel punto che stavo per dirigergli la
parola, spense il lume con un soffio e disparve nell'oscurità come un
mago.
A pochi passi di là, c'era la tenda del comandante della scorta; un po'
più oltre quella del suo primo ufficiale; e più lontano quella del capo
dei cavalieri d'Had-el-Garbia.
Queste due erano chiuse; la prima era aperta e vuota.
Nell'atto che ci guardavo dentro, sentii alle mie spalle un passo
furtivo, e quasi nello stesso punto una mano di ferro mi afferrò per un
braccio. Mi voltai: mi vidi in faccia il generale mulatto.
Appena mi vide, ritirò la mano, dando in una risata, e disse in tuono di
scusa:--_Salamu alikum, salamu alikum!_--(La pace sia con voi! la pace
sia con voi!)
M'aveva preso per un ladro.
Gli strinsi la mano in segno di riconoscenza e mi rimisi in cammino.
Fatti pochi passi, mi parve di vedere a una certa distanza dalle tende
un uomo incappato, seduto in terra, col fucile in mano. Mi venne in
mente che fosse una sentinella. Guardai intorno, e vidi infatti che a
una cinquantina di passi da quella, ve n'era un'altra, e poi una terza:
una catena di sentinelle tutt'intorno all'accampamento. Seppi poi che
quella vigilanza non era fatta per timore dell'assalto d'una banda
d'assassini; ma per guardare le tende dai ladri della campagna,
abilissimi in quel genere di furti, esercitati come sono a depredare le
tribù arabe attendate.
Fortunatamente la mia franca andatura non insospettì alcuna sentinella,
e potei finire la mia escursione.
Passai accanto a Malek e a Saladino, i due cavalli focosi
dell'Ambasciatore, inciampai in qualche altra tartaruga e mi fermai
davanti alle tende dei servi a piedi. Erano coricati sopra un po' di
paglia, senza coperte, l'uno a traverso l'altro; ma dormivan tutti d'un
sonno così profondo, che non si sentiva un alito, e parevano morti
ammucchiati. Il ragazzo dai grandi occhi neri, per la buona ragione
ch'era il più piccolo, avea mezzo il corpo fuori della tenda, e poco
mancò che non gli mettessi i piedi sul capo. Mi fece compassione; volli
che la mattina seguente, svegliandosi, avesse un conforto; e misi una
moneta nella mano che riposava sull'erba, colla palma aperta, come per
chiedere l'elemosina ai genii della notte.
Un mormorìo di voci allegre, che veniva da una tenda vicina, mi
distrasse di là. M'avvicinai. Era la tenda dei soldati e dei servi
dell'Ambasciata. Pareva che mangiassero e bevessero. Sentii l'odore del
fumo del kif. Riconobbi la voce del secondo Selam, di Abd-el-Rhaman, di
Alì, di Hamet, di Mammù, di Civo. Era un'orgietta araba in piena
regola. E avevan ben diritto di darsi un po' di spasso, poveri giovani,
dopo aver faticato tutto il giorno a piedi, a cavallo, alle tende, alle
mense, chiamati da cento parti, in cento lingue, per cento servizi! Per
questo non volli turbare la loro allegrezza e m'allontanai cautamente.
Fino a quel momento la mia escursione era riuscita a meraviglia; ma era
destino che non finisse senza un triste accidente.
Non m'ero allontanato di venti passi dalla tenda dei soldati, quando
sentii due mani vigorose serrarsi intorno al mio collo e una voce
soffocata dall'ira urlarmi una minaccia nell'orecchio. Mi divincolai, mi
voltai indietro...
Chi era?
Era l'autore della _Cacciata del duca d'Atene_, il mio buon amico Ussi,
ravvolto come un fantasma nella sua lunga _abbaia_ bianca, portata
dall'Egitto, il quale era uscito pochi momenti prima dalla sua tenda per
fare, in direzione contraria, lo stesso mio giro, e m'aveva colto alle
spalle.
Allora appunto ero arrivato davanti alla tenda dei pittori che chiudeva
il cerchio dell'accampamento; il mio viaggio notturno era compiuto, e mi
rimbucai nella mia casetta di tela.

NOTE:
[1] In mezzo ai selvaggi.


TLETA DE REISSANA

La mattina seguente si partì prima del levar del sole con una nebbia
umida e fitta che metteva freddo nelle ossa e ci nascondeva gli uni agli
altri. I cavalieri della scorta avevano il cappuccio sul capo e i fucili
fasciati; tutti noi eravamo ravvolti nei pastrani e nei mantelli; ci
pareva d'essere in autunno, in mezzo a una pianura dei Paesi Bassi.
Dietro a me non vedevo distintamente che il turbante bianco e la cappa
turchina del Caid; tutti gli altri erano ombre confuse che si perdevano
nell'aria grigia. Il sonno e il tempo uggioso mantenevano il silenzio.
Andavamo per un terreno ineguale, coperto di palme nane, di lentischi,
di ginestre, di pruni, di finocchio selvatico, raggruppandoci e
sparpagliandoci di continuo secondo gli incrociamenti e le biforcature
infinite dei sentieri. Il sole, apparendo sull'orizzonte, indorò per
qualche minuto le nostre guancie sinistre; e poi si rinascose. La nebbia
però diradò in maniera da lasciarci vedere la campagna. Era una
successione di vallette verdi, nelle quali si scendeva e si risaliva
quasi senz'accorgersene, tanto erano dolci i pendii. Le alture eran
coperte di aloé e d'olivi selvatici. L'olivo, che in quel paese cresce
prodigiosamente, è lasciato allo stato selvatico quasi da per tutto, e
gli abitanti fanno lume e si alimentano col frutto dell'_argan_. Di mano
in mano che ci affacciavamo a una valle, cercavamo cogli occhi un
villaggio, un gruppo di capanne, qualche tenda. Non si vedeva nulla. Ci
pareva di viaggiare alla ventura per una terra vergine. Di valle in
valle, di solitudine in solitudine, dopo tre ore circa di cammino,
arrivammo finalmente in un punto dove gli alberi più fitti, i sentieri
più larghi e qualche armento sparpagliato per la campagna, annunciavano
la vicinanza d'un luogo abitato. Uno dopo l'altro alcuni cavalieri della
scorta spronarono il cavallo, ci passarono innanzi di galoppo e
scomparvero dietro un'altura; altri si slanciarono di carriera a
traverso la campagna in direzioni diverse; i rimanenti si disposero in
ordine. In capo a pochi minuti ci trovammo davanti all'imboccatura d'una
gola formata da alcune piccole colline, sulle quali s'alzava qualche
capannuccia di stoppia. Alcuni arabi cenciosi, uomini e donne, ci
guardavano curiosamente di dietro alle siepi. Entrammo nella gola; in
quel momento apparve il sole. A un certo punto la gola faceva un gomito
quasi ad angolo retto. Svoltammo..., e ci trovammo davanti a uno
spettacolo stupendo.
Trecento cavalieri, vestiti di mille colori, sparpagliati in un
grandioso disordine, ci venivan incontro a briglia sciolta coi fucili
nel pugno, come se si slanciassero all'assalto d'un reggimento.
Era la scorta della provincia di Laracce, preceduta dal governatore e
dai suoi ufficiali, che veniva a dare il cambio alla scorta di
Had-el-Garbia, la quale doveva lasciarci sul confine della provincia di
Tangeri, dove appunto eravamo arrivati.
Il Governatore di Laracce, un vecchio prestante con gran barba bianca,
arrestò con un cenno i suoi cavalieri, strinse la mano all'ambasciatore
e poi, voltatosi un'altra volta verso quella turba fremente
d'impazienza, fece un gesto vigoroso come per dire:--Scatenatevi!--
Allora cominciò uno dei più splendidi _lab el barode_ (giuochi colla
polvere) che noi potessimo desiderare.
Si slanciavano alla carica a due, a dieci insieme, a uno a uno, in fondo
alla valle, sulle colline, davanti e ai fianchi della carovana, nella
direzione del nostro cammino e in direzione contraria, sparando e
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