Marocco - 08

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città, a piedi, preceduti, fiancheggiati e seguiti da gente armata.
Vediamo di lontano, passando, un edifizio singolare, posto fra
l'accampamento e la città, tutto archi e cupolette, fra cui è chiuso un
cortile che ha l'aspetto d'un cimitero. Ci dicono che è una di quelle
_zauia_, ora decadute, che quando fioriva la civiltà dei Mori,
contenevano una biblioteca, una scuola di lettere e di scienze, un
ospedale per i poveri, un albergo per i viaggiatori, oltre alla moschea
e alla cappella sepolcrale; e appartenevano, e appartengono ancora la
maggior parte, agli ordini religiosi.--Ci avviciniamo alla porta della
città.--La città è circondata di vecchie mura merlate; vicino alla porta
per cui entriamo, s'alzano alcune tombe di santo sormontate da cupole
verdi. Entrando, sentiamo uno strepito in alto: guardiamo in su. Son
grandi cicogne, ritte sui tetti delle case, che battono il becco
rumorosamente, come per avvertire gli abitanti del nostro arrivo.
Infiliamo una strada: alcune donne si rifugiano in casa, i bambini
fuggono. Le case son piccole, senza intonaco, senza finestre, divise da
vicoletti oscuri e immondi. Le strade paiono letti di torrenti. In
alcuni angoli ci sono carcami interi di asini e di cani. Camminiamo sul
letame in mezzo a pietroni e a buche profonde, saltellando e
inciampando. Gli abitanti cominciano ad affollarsi sui nostri passi,
guardandoci con grande stupore. I soldati ci fanno largo a pugni e a
colpi di calcio di fucile con uno zelo che l'Ambasciatore è costretto a
frenare. Una turba di gente ci precede e ci segue. Quando uno di noi si
volta indietro bruscamente, tutti si fermano, qualcuno scappa, altri si
nascondono. Di tratto in tratto una donna ci chiude la porta in faccia e
un bimbo getta un grido di spavento. Le donne paiono fagotti di panni
sudici; i più dei bimbi sono tutti nudi; i ragazzi di dieci o dodici
anni non hanno che la camicia stretta da una corda intorno alla vita. A
poco a poco la gente che ci accompagna piglia un po' più d'ardimento. Ci
guardano con particolare curiosità gli stivali e i calzoni. Alcuni
ragazzi si arrischiano a toccarci le falde del vestito. Però
l'espressione generale dei volti non è benevola. Una donna, fuggendo,
slancia alcune parole all'Ambasciatore. L'interprete traduce:--Dio
confonda la tua razza!--Un giovanetto grida:--Dio ci accordi una buona
giornata di vittoria sopra costoro!--Arriviamo in una piazzetta,
montuosa e rocciosa dove appena si può camminare. Passiamo dinanzi a
una schiera di orribili vecchie quasi completamente nude, sedute in
terra, con qualche fuscello e qualche pane dinanzi, che aspettano
compratori. C'innoltriamo per altre strade. Ogni cento passi c'è una
gran porta arcata che si chiude la notte. Le case sono per tutto nude,
screpolate, lugubri. Entriamo in un bazar coperto da un tetto di canne e
di rami d'albero che cascano da ogni parte. Le botteghe paiono nicchie;
i bottegai, statue di cera; le merci, robuccia da ragazzi messa in
mostra per burla. In ogni angolo si vede gente accovacciata, sonnolenta,
attonita, triste; bambini tignosi; vecchie che non han più forma umana.
Par di girare per i corridoi d'uno spedale. L'aria è pregna d'odori
aromatici. Non si sente una voce. La folla ci accompagna silenziosamente
come una turba di spettri. Usciamo dal bazar. Incontriamo dei mori a
cavallo, dei cammelli carichi, una megera che mostra il pugno
all'Ambasciatore, un vecchio santo incoronato d'alloro, che ci ride in
faccia. A un certo punto cominciano a spesseggiarci intorno certi uomini
vestiti di nero, capelluti, col capo coperto d'un fazzoletto turchino; i
quali ci salutano umilmente e ci guardano sorridendo. Uno di essi, un
vecchio cerimonioso, si presenta all'Ambasciatore e lo invita a visitare
il _Mellà_, il quartiere degli ebrei, chiamato dagli arabi con quel
nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L'Ambasciatore
accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c'innoltriamo per un
labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei
della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso
piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che
paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s'affacciano donne e
ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano:--_Buenos dias! Buenos
dias!_ In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare
in punta di piedi. L'ambasciatore è indignato.--Come mai,--dice al
vecchio ebreo,--potete vivere in questo sudiciume?--È l'usanza del
paese,--quegli risponde.--L'usanza del paese! Vergogna[tn161]! E voi
chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i
mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di
compiacervene!--L'ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire:--Che
strane idee!--Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il
viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di
meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a
disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo
affrettato una strada deserta, la gente a poco a poco rimane indietro,
arriviamo fuori delle mura in una strada fiancheggiata da fichi d'India
enormi e da palme altissime, tiriamo un gran respiro, siam soli!
§ § § § §
Tale è la città d'Alkazar, chiamata generalmente Alkazar-el-Kebir, che
significa «il grande palazzo.» La tradizione dice che fu fondata nel
secolo duodecimo da quell'Abù-Yussuf Yacub-el-Mansur, della dinastia
degli Almoadi, che vinse la battaglia d'Alarcos contro Alonzo IX di
Castiglia, e fece innalzare la famosa torre della _Giralda_ in Siviglia.
Si racconta che una sera, cacciando, si smarrì; che un pescatore
l'ospitò nella sua capanna, e che il califfo, riconoscente, gli fece
costrurre nel luogo stesso un gran palazzo e parecchie case; intorno
alle quali sorse a poco a poco la città. Fu un tempo una città popolosa
e fiorente; ora è abitata da cinque mila al più tra mori ed ebrei, e
poverissima, benchè ritragga qualche vantaggio dall'esser posta sulla
strada delle carovane che vanno dal nord al sud dell'Impero.
§ § § § §
Ripassando vicino alla porta per cui eravamo entrati, vedemmo un ragazzo
arabo di circa dodici anni che camminava stentatamente colle gambe
aperte e rigide, dondolandosi in una maniera bizzarra. Altri ragazzi lo
seguivano. Ci fermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi,
vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi,
fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede.
Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole.
L'ambasciatore lo interrogò per mezzo dell'interprete.
--Chi ti ha messo quel ferro?
--Mio padre,--rispose arditamente il ragazzo.
--Per che motivo?
--Perchè non imparo a leggere.
Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la
risposta.
--E l'hai da quanto tempo?
--Da tre anni, rispose sorridendo amaramente.
Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l'arabo confermò la cosa
aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar
lo conoscevano.
Allora l'Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto,
esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in
quel modo la sua famiglia; e quando l'interprete ebbe finito di
tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere.
--Ho da rispondere,--rispose il ragazzo,--che porterò il ferro per
tutta la vita, ma che non imparerò a leggere mai, e che son risoluto a
farmi uccidere, piuttosto che a imparare.
L'Ambasciatore lo guardò fisso; egli sostenne lo sguardo imperterrito.
--Signori,--disse allora l'Ambasciatore rivolgendosi a noi,--la nostra
missione è finita.
Noi tornammo all'accampamento e il ragazzo rientrò in città col suo
strumento di tortura.
--Fra qualche anno,--disse un soldato della scorta,--sopra una porta
d'Alkazar si vedrà spenzolare quella testa.


BEN-AUDA

La mattina seguente, al levar del sole, guadammo il fiume Kus, sulla
destra del quale è posta la città d'Alkazar, e ci avanzammo di nuovo per
una campagna fiorita, ondulata, solitaria, di cui non si vedevano i
confini. La scorta s'era sparpagliata sopra un vasto spazio, in un gran
numero di drappelli, che parevano altrettanti piccoli cortei di sultani.
I pittori galoppavano di qua e di là coll'album e la matita in mano, a
schizzar cavalli e cavalieri. Gli altri dell'ambasciata parlavano
dell'invasione dei Goti, di commercio, di scorpioni, di filosofia,
ascoltati avidamente dal gruppo dei servi a cavallo che ci venivano
dietro. Civo prestava una particolare attenzione ai discorsi di
filosofia. Hamed, invece, era tutto attento al signor Pacxot, suo
padrone, che raccontava una caccia al cinghiale nella quale egli aveva
rischiato la vita. Questo Hamed era, dopo Selam, il personaggio più
notevole di tutta la categoria[tn166] dei soldati, servi e palafrenieri.
Era un arabo sui trent'anni, altissimo di statura, bruno, muscoloso,
forte come un toro; ed aveva per contro un viso sbarbato, due occhi
dolcissimi, un sorriso, una vocina, una grazia in tutti i movimenti, che
facevano col suo corpo possente un contrasto singolarissimo. Portava un
gran turbante bianco, una giacchettina azzurra e i calzoni alla zuava;
parlava spagnuolo, sapeva far di tutto, piaceva a tutti, a segno che
Selam, persino il glorioso Selam, n'era un tantino geloso. Gli altri
pure, chi più chi meno, eran giovani belli, svegli e pieni di ossequiosa
sollecitudine; tanto che quando un di noi, strada facendo, si voltava
indietro, incontrava sempre tutti i loro occhioni che gli domandavano se
gli occorresse qualcosa.--Peccato,--dicevo tra me,--che non ci assalti
una banda di ladri, per poter vedere tutti questi lestofanti alla prova!
§ § § § §
Dopo due ore di cammino cominciammo a incontrar qualcheduno. Il primo fu
un nero a cavallo, il quale teneva in mano quel piccolo bastone segnato
d'iscrizioni arabe, chiamato nella lingua del paese _herrez_, che i
religiosi danno ai viaggiatori per preservarli dai ladri e dalle
malattie. Poi alcune vecchie cenciose, che portavano sulle spalle grossi
fastelli di legna. Oh potenza del fanatismo! Curve com'erano, stanche,
sfiatate, ebbero ancora la forza, passandoci accanto, di scagliarci una
maledizione. Una mormorò:--Dio maledica quest'infedeli!--L'altra
disse:--Dio ci salvi dagli spiriti maligni!--Dopo un'altr'ora di
solitudine incontrammo un corriere a piedi; un povero arabo macilento,
che portava le lettere in una borsa-di cuoio, appesa a tracolla. Giunto
davanti a noi si fermò per dire che veniva da Fez e che andava a
Tangeri. L'Ambasciatore gli diede una lettera per Tangeri ed egli
riprese il suo cammino a passo frettoloso.
§ § § § §
Questo, e non altro, è il servizio postale del Marocco, e nessuna vita è
più miserabile di quella che menano quei corrieri. Non mangiano, strada
facendo, che un po' di pane e qualche fico; non si fermano che poche ore
della notte per dormire, con una corda legata al piede, alla quale
appiccan fuoco prima di addormentarsi, per essere svegliati presto;
camminano giorni interi senza trovare nè un albero, nè una goccia
d'acqua; attraversano boschi infestati dai cignali, superano monti
inaccessibili ai muli, passano i fiumi a nuoto, vanno di passo, di
corsa, ruzzoloni giù per le chine, a quattro gambe su per le rupi,
sotto il sole d'agosto, sotto le piogge interminabili dell'autunno,
contro il vento infocato del deserto, in quattro giorni da Tangeri a
Fez, in una settimana da Tangeri a Marocco, da una estremità all'altra
dell'Impero, soli, scalzi, seminudi, e quando sono arrivati...
ripartono! E fanno questo viaggio per poche lire!
§ § § § §
A mezza strada, circa, tra la città d'Alkazar e il luogo dov'eravamo
diretti, il terreno cominciava a sollevarsi, e a poco a poco, quasi
senza accorgercene, giungemmo sopra un'altura, di là dalla quale si
stendeva un'altra pianura immensa coperta per vastissimi spazi di fiori
gialli, rossi e bianchi che presentavano l'apparenza di grandi strati di
neve rigati di porpora e d'oro.
Per quella pianura ci venivano incontro di galoppo duecento cavalieri
coi fucili ritti sulle selle, preceduti da una figura tutta bianca, che
Mohammed Ducali riconobbe ed annunziò ad alta voce:--Il governatore
Ben-Auda!
Eravamo arrivati al confine della provincia dei Seffiàn, chiamata pure
Ben Auda, dal nome di famiglia del suo governatore, che significa
_figlio della cavalla_; il nome che m'aveva fatto tanto fantasticare
prima di partire da Tangeri.
Discendemmo nella pianura; i duecento cavalieri dei Seffiàn si
schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il
governatore Ben-Auda si presentò all'Ambasciatore.
Se vivessi cent'anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio
secco, coll'occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra,
tagliata in forma d'un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la
superstizione, Venere, il _kif_, l'ozio e la sazietà d'ogni cosa, gli
erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le
orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco.
L'Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che
s'allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in
cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i
fuochi.
Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida
più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo
visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore
e contorno schiettamente marocchino.
Fra quella moltitudine ci diedero nell'occhio alla prima dodici
cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli
bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con
ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di forme colossali che
parevan fratelli; tutti e cinque di viso pallido e di grandi occhi neri
scintillanti all'ombra di turbanti enormi; che ci passavano e ci
ripassavano accanto, a briglia sciolta, col capo rovesciato indietro in
un atteggiamento superbo. Come ci sarebbero state bene, su quelle selle
color di porpora, fra quelle dieci braccia convulse, cinque odalische
rapite al serraglio d'un Sultano! Belli! noi gridavamo; stupendi!
splendidi! Ed essi rispondevano al nostro applauso con una spronata ed
un urlo, e sparivano in mezzo al fumo, roteando in alto i lunghi fucili
damascati d'oro colla gioia febbrile del trionfo.
Quei cinque eran figli, gli altri nipoti del governatore Ben-Auda.
Le cariche e le fucilate durarono per più d'un'ora, fin che giungemmo a
un giardino del Governatore, dove si discese per riposare.
Era un boschetto di limoni e di aranci, piantati a file parallele, e
fitti in maniera che formavano una volta intricatissima di verzura,
sotto la quale si godeva un'ombra, un fresco e un profumo di paradiso.
In pochi momenti quell'oasi deliziosa fu ingombra e circondata di
cavalli, di mule, di fuochi per le cucine, di servi affaccendati, di
soldati dormenti.
Il governatore scese con noi e ci presentò i suoi figliuoli.
Ah! giuro che in quel momento, se avessi visto le cinque odalische
slanciarsi al loro collo, non avrei nemmeno osato d'invidiarli, tanto
eran belli, maestosi ed amabili. L'uno dopo l'altro ci strinsero la mano
facendo un leggero inchino, e abbassando gli occhi sorridenti con una
timidezza infantile.
Subito dopo cercarono il medico.
Il signor Miguerez si presentò domandando che cos'avevano.
In presenza di tutti noi, senza profferir parola, si scopersero tutti e
cinque, quasi nello stesso tempo, il braccio sinistro....
Oh povere le mie odalische!
Avevan tutti e cinque il braccio, dalla spalla alla mano, coperto
d'un'orribile erpete sifilitica.
--Ereditaria,--disse un di loro.
E il padre, là presente, soggiunse freddamente:--Ereditaria.
--Ed hanno qui vicine le acque sulfuree,--esclamò il medico;--potrebbero
facilmente curarsi! Ma no signori! Bisogna che perdano il tempo e la
salute coi versetti del Corano e cogli amuleti dei ciarlatani!
Diede loro un medicinale, si ricopersero il braccio e s'allontanarono
pensierosi.
Poco dopo ci sedemmo in mezzo al giardino sopra un bellissimo tappeto
di Rabat, su cui ci fu servita la colezione. Il governatore Ben-Auda
sedette sopra una stuoia a venti passi da noi, e si fece egli pure
portar la colezione dai suoi schiavi. Allora seguì uno scambio
curiosissimo di cortesie fra lui e l'Ambasciatore. Il Ben-Auda mandò per
il primo ad offrire un vaso di latte; l'Ambasciatore gli fece portare in
ricambio una bistecca. Al latte tenne dietro il burro, alla bistecca una
frittata, al burro un piatto dolce, alla frittata un scatola di sardine;
tutto questo accompagnato da mille gesti freddamente cerimoniosi, e
posar delle mani sul petto, e sguardi rivolti al cielo con
un'espressione comicissima di voluttà gastronomica--Il dolce, tra
parentesi, era una specie di torta fatta di miele, d'ova, di burro e di
zucchero, della quale gli arabi sono ghiottissimi, e a cui si riferisce
una strana superstizione: che se mentre la donna sta cuocendola, entra
per caso un uomo nella stanza, la torta va a male, ed anco potendo, non
è più prudente il mangiarne.--E il vino?--domandò uno.--Non gli si manda
a offrire del vino?--Qui nacque una discussione. Si assicurava che il
governatore Ben-Auda fosse, in segreto, devotissimo alla bottiglia; ma
come avrebbe potuto ber vino in presenza dei suoi soldati? Fu deciso di
non mandargliene. Mi parve però che volgesse alle bottiglie degli
sguardi molto soavi; assai più soavi di quelli che rivolgeva a noi. Per
tutto il tempo che stette là sulla stuoia, fuorchè nell'atto che
ringraziava dei doni, serbò una serietà, un cipiglio, un'espressione di
dispetto e d'orgoglio, che mi fece più volte desiderare d'aver là ai
miei ordini, per farglieli sfilare sotto il naso, i nostri quaranta
battaglioni di bersaglieri.
§ § § § §
Mohammed Ducali mi raccontò[tn173] in quel frattempo un episodio molto
notevole della storia dei Ben-Auda, nelle mani dei quali è da tempo
antico il governo della terra dei Seffiàn. Gli abitanti di questa terra
hanno fama di turbolenti e di valorosi; e si dice che han dato prove
splendide di valore nella recente guerra contro la Spagna, nella quale
morì, alla Battaglia di Vad-Ras, il 23 marzo del 1861, Sidi Absalam
ben-Abd-el-Krim ben Auda, allora governatore di tutta la provincia del
Garb. A questo Absalam succedette il figlio maggiore Sidi-Abd-el Krim.
Era un uomo violento e dissipatore, che spogliava il suo popolo coi
balzelli e lo torturava con capricci feroci. Un giorno, fra le altre,
intimò a un tal Gileli Ruqui di dargli una grossa somma di denaro.
Questo si scusò dicendo ch'era povero. Egli lo fece caricar di catene e
cacciare in prigione. Allora la famiglia e gli amici del prigioniero,
vendettero tutti i loro averi e portarono a Sid-Abd-el Krim la somma
richiesta. Gileli uscì di prigione, e appena uscito, radunò tutti i
suoi, e fece con loro il giuramento solenne di uccidere il Governatore.
La casa del Ben-Auda era posta a due ore di strada circa da quel
giardino. I congiurati l'assalirono, in gran numero, nel cuore della
notte, inaspettati. Uccisero le sentinelle, irruppero nelle sale,
straziarono a pugnalate Sidi-Abd-el-Krim, le sue belle, i bimbi, i
servi, le schiave, devastarono e incendiarono la casa, e poi si
gettarono a traverso il paese innalzando il grido della rivolta. I
parenti e i partigiani dei Ben-Auda raccolsero in furia tutta la loro
gente e andarono incontro ai ribelli. I ribelli li dispersero e la
rivolta si propagò per tutto il Garb. Allora il Sultano mandò un
esercito; la ribellione, dopo una lotta accanita, fu domata; le teste
dei principali rivoltosi spenzolarono dalle mura di Fez e di Marocco; la
terra dei Beni-Malek venne divisa dalla provincia; la casa del
Governatore fu ricostrutta; e Sidi-Mohamed Ben-Auda, fratello
dell'ucciso, ospite dell'Ambasciata italiana, assunse il governo della
terra dei suoi padri. Una passeggera rivincita della disperazione sulla
tirannia, seguìta da una tirannia più dura: in questo fatto si riassume
la storia d'ogni provincia e di tutto l'Impero. E forse in quel tempo
era già predestinato un Ruqui anche per Sidi-Mohamed Ben-Auda.
§ § § § §
Prima del tramonto del sole ci trovavamo tutti all'accampamento, ch'era
posto poco lontano da quel giardino, in un piano solitario, ai piedi
d'una piccola altura sulla quale si alzava una _Cuba_ fiancheggiata da
una palma.
Appena arrivato l'Ambasciatore, fu portata la _mona_ e deposta come
sempre davanti alla sua tenda, in presenza dell'Intendente, del Caid,
dei soldati e dei servi. Mentre eran tutti occupati a far la solita
ripartizione, vidi, alzando gli occhi verso la cuba, un uomo di alta
statura e d'aspetto strano che scendeva a lunghi passi giù per la china
verso l'accampamento. Non c'era da dubitarne: era il romito, il santo,
che ci veniva a fare una scena. Non dissi nulla: aspettai. Invece di
entrare nell'accampamento, girò infuori, per giungere inaspettato
dinanzi alla tenda dell'Ambasciatore. S'avvicinò in punta di piedi. Era
una figura sepolcrale, coperta di cenci neri, che metteva schifo e
paura. Tutt'a un tratto spiccò la corsa, si cacciò in mezzo a noi, e
riconosciuto al vestito l'Ambasciatore, gli si scagliò contro urlando
come un ossesso. Ma ebbe appena il tempo d'urlare. Con una rapidità
fulminea, il Caid lo afferrò alla strozza e lo stramazzò furiosamente
in mezzo ai soldati, i quali in un batter d'occhio lo portarono fuori
del campo soffocando colle cappe la sua voce tonante. Il signor Morteo
si affrettò a tradurci le invettive di quel disgraziato:--Sterminiamoli
tutti questi maledetti cani di cristiani, che vanno dal Sultano, e fanno
tutto quello che vogliono, mentre noi moriamo di fame!
§ § § § §
Poco dopo la presentazione della _mona_ obbligatoria, arrivarono
all'accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila,
che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi
conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu,
insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata. Era una
seconda _mona_, spontaneamente offerta all'Ambasciatore da
Sidi-Mohamed-Ben-Auda, forse per farsi perdonare il cipiglio minaccioso
della mattina.
§ § § § §
I piatti non erano ancora messi in terra, che comparve il governatore
coi suoi cinque figli, tutti a cavallo, seguiti da uno stuolo di servi.
L'Ambasciatore li ricevette nella sua tenda e conversò con loro per
mezzo dell'interprete.
Che conversazione! Che gente! L'Ambasciatore domandò a uno dei figliuoli
se aveva mai inteso nominar l'Italia. Rispose che l'avea intesa
nominare _parecchie volte_. Uno di loro domandò quale dei due paesi,
l'Inghilterra e l'Italia, fosse più lontano dal Marocco. Domandarono
quanti cannoni abbiamo, come si chiama la nostra città capitale e in che
modo è vestito il nostro Re. Parlando, osservarono attentamente tutti e
sei il nodo delle nostre cravatte e le catenelle dei nostri orologi.
L'Ambasciatore rivolse al governatore alcune domande intorno
all'estensione e alla popolazione della sua terra. O che non sapesse
nulla, o che, secondo l'uso, non volesse dire quel che sapeva per timore
di qualche secondo fine misterioso, non ci fu modo di cavargli di bocca
una risposta soddisfacente.--La popolazione,--mi ricordo che disse--non
si può sapere esattamente quanta sia.--Ma press'a poco, gli fu
osservato.--Ma è anche difficile il saperlo presso a poco,--rispose. Poi
fecero a noi altre domande. V'è piaciuta la città d'Alkazar? Che ne dite
del paese? L'acqua è buona, non è vero? Stareste volentieri nel Marocco?
Perchè non avete condotte con voi le vostre donne? Quanti soldati può
avere ai suoi ordini il capitano dell'esercito che è con voi? Quanto è
grande il bastimento che comanda il capitano di marina? Facendo questi
discorsi, bevettero il tè, e dopo molti inchini e strette di mano ed
augurii, rimontarono a cavallo, diedero di sprone e disparvero. E dico
sempre pensatamente disparvero, invece di se ne andarono, come dico
apparire per giungere, perchè non vedendo mai da nessuna parte nè un
villaggio nè una casa, tutti coloro che arrivavano e partivano ci
facevano l'effetto di gente che uscisse di sotto terra e si dileguasse
nell'aria.
§ § § § §
Quella, come tutte le altre giornate, fu chiusa da un tramonto splendido
e quieto, e da un desinare rumorosamente allegro. Ma la notte fu una
delle più agitate del viaggio. Forse perchè la terra dei Seffiàn
richiedeva che l'ambasciata fosse guardata con maggiore cautela che
altrove, le sentinelle notturne si tennero reciprocamente sveglie
cantando di quarto d'ora in quarto d'ora dei versetti del Corano. Una
intonava la preghiera, tutte le altre rispondevano in coro, ad alta
voce, accompagnate dai nitriti dei cavalli e dal latrato dei cani.
Appena addormentati, ci svegliammo e non ci riuscì più di chiuder
occhio. Per giunta, poco dopo la mezzanotte, in uno di quegli intervalli
di silenzio, tuonò improvvisamente in mezzo alla campagna una voce
squarciata e selvaggia che non tacque più fino all'alba. A momenti
s'avvicinava, a momenti si sentiva appena, poi tornava a risonare più
vicina, in tono di minaccia, di lamento, di disperazione, e prorompeva
di tratto in tratto in grida acutissime e in risa sgangherate, che
mettevan freddo nelle vene. Era il Santo che errava intorno
all'accampamento, chiamando sopra di noi la maledizione di Dio. La
mattina, quando uscimmo dalla tenda, era ancora ritto come uno spettro
davanti alla sua cuba solitaria, colorata di rosa dai primi raggi del
sole, e continuava a maledirci con voce roca, agitando le braccia
spossate al disopra del capo.
§ § § § §
Io cercai il cuoco per dimandargli che cosa pensasse di quel
personaggio. Ma lo trovai tanto affaccendato, che non ebbi cuore di
scherzare. Stava facendo il caffè e aveva intorno una folla impaziente
che gli toglieva il respiro. Gli sguatteri gli parlavano arabo, il Ranni
siciliano, il calafato napoletano, Hamed spagnuolo, il signor Vincent
francese.--_Ma se i 'v capisso nen, facie da forca!_--gridava lui
disperato.--Ma questa è una Babilonia! Ma lasciatemi respirare! Volete
vedermi morto? _Oh che pais, mi povr'om! Tutti a parlo e nssun a l'è bon
a fesse capì!_ (Tutti parlano e nessuno è buono a farsi capire).
Appena riebbe un po' di fiato gli accennai il Santo che continuava a
urlare, e gli domandai:
--Ebbene, che cosa ne dite di quelle impertinenze?
Alzò gli occhi verso la cuba, guardò fisso il Santo per qualche momento,
e poi facendo un atto di profondo disprezzo rispose con accento
piemontese:
--_Guardo e passo!_
E rientrò maestosamente nella tenda.


KARIA-EL-ABBASSI

Levato l'accampamento, ci mettemmo in cammino nell'ordine solito, e fra
le grida e le fucilate dei duecento cavalieri del Ben-Auda, arrivammo
dopo due ore a un piccolo corso d'acqua che segna il confine della terra
dei Seffiàn.
Nel momento che il portabandiera si voltava per dire:--Ecco il
fiume;--di dietro a un rialto di terreno della riva opposta uscì
improvvisamente una gran folla di cavalieri, in mezzo ai quali ci colpì
a primo aspetto la figura elegante e gentile del Governatore.
Era Bu-Bekr-ben-el-Abbassi, governatore della provincia che si stende
fra la terra dei Seffiàn e il grande fiume Sebù.
La scorta del Ben-Auda ci voltò le spalle e disparve; l'ambasciata
guadò il fiume e si trovò circondata dalla scorta nuova.
Bu-Bekr-ben-el Abbassi strinse vivamente la mano all'ambasciatore, fece
un saluto amichevole al Ducali, suo antico compagno di scuola, e diede
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