Marocco - 14

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domandò se aveva fatto buon viaggio, e s'era stato soddisfatto del
servizio della scorta e del ricevimento dei Governatori.
Ma di tutto questo noi non udimmo nulla. Eravamo affascinati. Quel
Sultano, che l'immaginazione ci aveva rappresentato sotto l'aspetto d'un
despota selvaggio e crudele, era il più bello e più simpatico giovane
che possa brillare alla fantasia d'un'odalisca. È alto di statura e
snello, ha gli occhi grandi e soavi, un bel naso aquilino, il viso bruno
d'un ovale perfetto, contornato d'una corta barba nera; una fisonomia
nobilissima e piena di dolce mestizia. Una cappa bianca come la neve gli
scendeva dalla testa ai piedi; il turbante era coperto da un alto
cappuccio; i piedi nudi e infilati in due babbucce gialle; il cavallo
grande e bianchissimo, colla bardatura verde e le staffe d'oro. Tutta
quella bianchezza e quell'ampia e lunga cappa gli davano un aspetto
sacerdotale, una grazia di regina, una maestà semplice ed amabile, che
corrispondeva ammirabilmente all'espressione gentilissima del suo viso.
Il parasole, insegna del comando, che un cortigiano teneva un po'
inclinato dietro di lui,--un gran parasole rotondo, alto quasi tre
metri, rivestito, sopra, di seta color amaranto, sotto di seta azzurra,
ricamata d'oro, con una grossa palla dorata sulla cima,--aggiungeva
gentilezza e dignità alla sua figura. L'atteggiamento grazioso, lo
sguardo così tra pensieroso e ridente, la sua voce sommessa e monotona
come il mormorìo d'un ruscello, tutta insomma la sua persona e la sua
maniera aveva un non so che d'ingenuo e di femmineo, e nello stesso
tempo di solenne, che ispirava una simpatia irresistibile ed un rispetto
profondo. Non mostrava d'aver più di trenta due o trentatrè anni.
--Sono lieto,--disse,--che il Re d'Italia abbia mandato un Ambasciatore
per stringere maggiormente i legami della nostra antica amicizia. La
casa di Savoia non fece mai la guerra al Marocco. Io amo la casa di
Savoia e ho seguito con gioia e con ammirazione i grandi avvenimenti
che si compirono sotto i suoi aspicii in Italia. Ai tempi di Roma
antica, l'Italia era il paese più potente del mondo. Poi si divise in
sette stati. I miei antenati furono amici di tutti e sette questi stati.
Ed io, ora che tutti e sette si sono riuniti in un solo, ho concentrata
in quest'uno tutta l'amicizia che i miei antenati nutrivano per gli
altri.
Disse queste parole lentamente, a pause, come se le avesse studiate
prima, e facesse di tratto in tratto uno sforzo per rammentarsele.
Fra le altre cose, l'Ambasciatore gli disse che il Re d'Italia gli aveva
mandato il suo ritratto.
--È un dono prezioso,--rispose;--e io lo farò porre nella sala dove
dormo, in faccia a uno specchio, che è il primo oggetto su cui cadono i
miei occhi allo svegliarmi; e così ogni mattina, appena desto, vedrò
riflessa l'immagine del Re d'Italia, e penserò a lui.
E poco dopo soggiunse:
--Sono contento, e desidero che restiate lungo tempo in Fez e spero che
ne serberete una buona memoria quando sarete tornati nella vostra bella
patria.
Dicendo queste cose, teneva quasi sempre gli occhi fissi sulla testa del
cavallo. A momenti, pareva che volesse sorridere; ma subito corrugava
le soppracciglia come per richiamare sul suo volto la gravità imperiale.
Era curioso,--si capiva,--di vedere che razza di gente fossimo noi sette
schierati a dieci passi dal suo cavallo; ma non volendo guardarci
direttamente, girava gli occhi a poco a poco, e poi con uno sguardo
rapidissimo ci abbracciava tutti e sette insieme, e in quel momento nel
suo occhio brillava una certa espressione indefinibile d'ilarità
infantile, che faceva un graziosissimo contrasto colla maestà di tutta
la sua persona. Il folto corteo che gli stava dietro e ai lati, pareva
pietrificato. Tutti gli occhi eran fissi in lui, non si sentiva un
respiro, non si vedevano che volti immobili in un atteggiamento di
venerazione profonda. Due mori, con mano tremante, gli cacciavano le
mosche dai piedi; un altro, di tratto in tratto, gli passava la mano sul
lembo della cappa come per purificarla dal contatto dell'aria; un
quarto, in atto di sacro rispetto, accarezzava la groppa del cavallo;
quello che reggeva il parasole, stava cogli occhi bassi, immobile come
una statua, quasi fosse confuso e sgomento dalla solennità del suo
ufficio. Tutto, intorno a lui, esprimeva la sua enorme potenza,
l'immensa distanza che lo separava da tutti, una sottomissione
sconfinata, una devozione fanatica, una svisceratezza d'amore pauroso e
selvaggio, che sembrava domandare d'essere provato col sangue. Non
pareva un monarca; ma un Dio.
L'Ambasciatore gli porse le sue credenziali e gli presentò il
Comandante, il capitano e il vice-console, i quali gli s'avvicinarono
l'un dopo l'altro e stettero qualche momento dinanzi a lui
nell'atteggiamento del saluto.
Guardò con particolare attenzione le decorazioni del Comandante.
--Il medico,--disse poi l'Ambasciatore accennando noi quattro,--e tre
_scienziati_.
I miei occhi incontrarono gli occhi del Dio, e tutti i periodi, già
concepiti, di questa descrizione, mi si scompigliarono nella mente.
Il Sultano domandò con curiosità chi fosse il medico.
--Quello a destra,--disse l'interprete.
Lo guardò attentamente.
Poi, accompagnando le parole con un atto gentile della mano destra,
disse:--La pace sia con voi! La pace sia con voi! La pace sia con voi!
E voltò il cavallo.
La banda suonò, le trombe squillarono, i cortigiani curvarono la testa,
le guardie, i soldati e i servi misero un ginocchio in terra, e scoppiò
un'altra volta da tutti i petti un grido lungo e sonoro:--Dio protegga
il nostro Signore!
Scomparso il Sultano, si confusero le due schiere dei grandi personaggi,
e vennero verso di noi Sid-Mussa, i suoi figliuoli, i suoi ufficiali, il
ministro della guerra, il ministro delle finanze, il gran sceriffo
Bacali, il grande cerimoniere, i più grossi pezzi della corte,
sorridendo, vociando, agitando le braccia in segno di festa. Poco dopo,
avendo Sid-Mussa invitato l'Ambasciatore a riposarsi in un giardino del
Sultano, si montò tutti a cavallo, si attraversò la piazza, s'infilò la
stradicciuola misteriosa e s'entrò nell'augusto recinto del quartiere
imperiale. Vicoli fiancheggiati da alti muri, piazzette, cortili, case
in rovina, case in costruzione, porte ad arco, corridoi, giardinetti,
piccole moschee, un labirinto da perderci il capo, e per tutto operai
affaccendati, schiere di servi, sentinelle armate, e qualche viso di
schiava dietro le inferriate delle finestre e agli spiragli delle porte:
non si vide altro. Non un edifizio di bella apparenza, nè altra cosa,
fuor delle guardie, che indicasse l'abitazione d'un Monarca. Entrammo in
un giardino vasto ed incolto, tutto viali ombrosi incrociati ad angolo
retto e chiuso da mura altissime come il giardino d'un convento, e di
là, dopo un breve riposo, ritornammo a casa,--spargendo per la
strada,--il medico, i pittori ed io,--l'ilarità colla giubba e il
terrore coi gibus.
Per tutto quel giorno non si parlò d'altro che del Sultano. Aveva
innamorato tutti. L'Ussi si provò cento volte a schizzarne la figura e
buttò via la matita disperato. Lo proclamammo tutti il più bello e il
più amabile di tutti i Monarchi maomettani; e perchè la proclamazione
fosse veramente _nazionale_, ci piacque di sentire il parere anche del
cuoco e dei due marinai.
Il cuoco, al quale tutti gli spettacoli veduti da Tangeri a Fez non
avevano strappato mai altro che un sorriso di profonda commiserazione,
si mostrò generoso coll'Imperatore.
--_A l'è un bel omm,_--disse,--_a i é nen a diie_ (è un bell'uomo, non
c'è che dire); ma bisognerebbe che andasse a viaggiare (parole testuali)
_dove c'è l'istruzione_.
Questo _dove_, naturalmente, era Torino.
Luigi, il calafato, benchè napoletano, fu più laconico. Domandato che
cosa avesse osservato nell'Imperatore, stette un po' sopra pensiero e
rispose sorridendo:
--_Aggio osservato ch'a stu paese manc' u Re porta i' calzette!_
Il più comico fu il Ranni.--Che cosa t'è parso del Sultano?--gli domandò
il Comandante.
--M'è parso,--rispose francamente e colla maggior serietà,--che avesse
paura.
--Paura!--esclamò il Comandante.--Di chi?
--Di noi. Non ha visto com'è diventato smorto e come parlava, che quasi
gli mancava il fiato?
--Ma tu sei matto! E vuoi che lui, in mezzo a tutte le sue guardie e a
tutto il suo esercito, avesse paura di noi altri?
--Così m'è parso,--rispose il Ranni imperturbabile.
Il Comandante lo guardò fisso e poi si pigliò la testa fra le mani in
atto di profondo scoraggiamento.
Quella stessa sera entrarono nel palazzo, condotti da Selam, due mori, i
quali avendo inteso raccontare meraviglie dei nostri gibus, desideravano
di vederli. Andai a prendere il mio e lo apersi sotto i loro occhi. Vi
guardarono dentro tutti e due con grande curiosità e parvero molto
meravigliati. Credevano probabilmente di trovarci chi sa che complicato
meccanismo di ruote e di cerniere, e non vedendoci nulla, si
confermavano forse nella superstizione divulgatissima fra il volgo
moresco che in tutti gli oggetti dei cristiani ci sia qualcosa di
diabolico.--Ma non c'è nulla!--esclamarono tutti e due ad una voce.--Ma
qui sta,--risposi per mezzo di Selam,--qui sta appunto il meraviglioso
di questi cappelli soprannaturali, che facciano quello che fanno,
senz'aiuto d'ordigni!--Selam rise, essi sospettarono la celia, e allora
m'ingegnai di spiegare il meccanismo nascosto; ma mi parve che ne
capissero poco. Domandarono poi, andandosene, se i cristiani mettevano
quella molla nei cappelli «per ricreazione.»--E tu, domandai a
Selam--che cosa ne dici di questi arnesi?--Dico,--rispose con
un'alterezza sprezzante, appuntando il dito contro il cappello,--che se
dovessi vivere cento anni nei vostri paesi, forse, a poco poco,
adotterei la vostra maniera di vestire,--le scarpe, la cravatta ed anche
i brutti colori che piacciono a voi;--ma quell'arnese lì,--quella
orribile cosa nera... ah! Dio m'è testimonio che vorrei piuttosto la
morte!
§ § § § §
A questo punto comincia il mio giornale di Fez, che abbraccia tutto il
tempo trascorso dal ricevimento dell'Imperatore fino alla partenza per
Mechinez.
* * * * *
20 Maggio.
..... Oggi il primo custode del palazzo ci diede in segretezza la chiave
della terrazza, raccomandandoci caldamente di usare prudenza. Pare
ch'egli abbia ricevuto ordine, non di rifiutarci quella chiave, ma di
non darla che quando ne fosse pregato; e questo perchè le terrazze (a
Fez come nelle altre città del Marocco) appartengono alle donne, e sono
considerate quasi come un'appendice dell'arem. Siamo dunque saliti sulla
terrazza, che è vastissima, e tutta circondata da un muro più alto d'un
uomo, munito di alcune finestre della forma di feritoie. Il palazzo
essendo molto alto, e posto in un luogo eminente, si vedono di lassù
migliaia di terrazze bianche, le alture circostanti alla città, i monti
lontani; e sotto, un altro piccolo giardino, di mezzo al quale s'alza
una palma smisurata, che sorpassa l'edifizio di quasi un terzo del
proprio fusto. Avvicinando il viso a quelle finestrine, ci parve
d'affacciarci a un mondo nuovo. Sulle terrazze vicine e lontane v'erano
molte donne, la maggior parte, a giudicar dal vestito, di condizione
agiata,--signore,--se questo titolo si può dare alle donne moresche.
Parecchie stavano sedute sui parapetti, altre passeggiavano, alcune
saltellavano con un'agilità di scoiattoli di terrazza in terrazza, si
nascondevano, ricomparivano, e si spruzzavano acqua nel viso ridendo
come pazze. Più d'una era seduta in un atteggiamento che avrebbe senza
dubbio corretto se avesse sospettato che l'occhio d'un uomo la stava
osservando. C'erano vecchie, giovani, bambine di otto o dieci anni,
tutte con vestiti di forme bizzarre e di colori vivissimi. Le più
avevano le treccie giù per le spalle, un fazzoletto di seta rossa o
verde stretto intorno al capo a modo di benda, una specie di caffettano
di vario colore, con larghe maniche, serrato intorno alla vita da una
cintura azzurra o vermiglia; un corpettino di velluto aperto sul petto;
calzoncini, babbuccie gialle e grossi anelli d'argento sopra la noce del
piede. Le serve e le bambine non avevano altro che la camicia. Una sola
di queste «signore» era abbastanza vicina da poterne discernere il
viso. Era una donna sui trent'anni, vestita in gala, affacciata a una
terrazza posta a un salto di gatto sotto la nostra. Guardava in un
giardino, colla testa appoggiata sulla mano. La osservammo col
cannocchiale. Dei del cielo, che pittura! Nero d'antimonio sotto gli
occhi, rossetto sulle guancie, bianchetto nel collo, hennè sulle unghie:
era tutta una tavolozza. Ma bella, malgrado i trent'anni: un visetto
pieno, due occhi a mandorla, velati di lunghe ciglia e languidissimi; un
nasino un po' rivolto in su; una boccuccia rotonda, secondo
l'espressione dei poeti moreschi, come un anello; e un corpicino di
silfide di cui il vestito sottile metteva in evidenza le curve molli e
gentili. Pareva triste, e forse era cagione della sua tristezza una
quarta sposa di quattordici anni, entrata nell'arem pochi dì innanzi,
della quale essa aveva già sentito il trionfo nel freddo amplesso di suo
marito. Di tratto in tratto si guardava una mano, un braccio, le treccie
che le cadevano sul seno, e sospirava. Una voce sfuggita a un di noi la
riscosse; guardò in su, e accortasi che la guardavamo, scavalcò il
parapetto della terrazza colla destrezza d'un acrobata, saltò sopra una
terrazza sottostante, e scomparve. Per veder meglio, mandammo a pigliare
una seggiola, si giocò a pari e dispari a chi toccasse pel primo, toccò
a me, la misi contro il muro, vi salii su e riuscii con mezzo il busto
al disopra del parapetto. Fu come l'apparizione d'un nuovo astro nel
cielo di Fez: mi si passi il paragone immodesto. Mi videro subito dalle
prime case, fuggirono, ricomparvero, annunziarono l'avvenimento alle
donne delle terrazze più vicine; in pochi minuti, di terrazza in
terrazza, si sparse la notizia per mezza la città; sbucarono curiose da
tutte le parti, io mi trovai alla berlina. Ma la bellezza dello
spettacolo mi tenne fermo al mio posto. Erano centinaia di donne e di
bambine, ritte sui parapetti, sulle torricine, sulle scale esterne,
tutte rivolte verso di me, tutte vestite di colori fiammanti, dalle più
vicine di cui discernevo i volti attoniti, fino alle più lontane,
d'altri quartieri della città, che apparivano appena come puntini
bianchi, verdi e vermigli; alcune terrazze affollate che sembravano
piene di fiori; per tutto un brulichio, un va e vieni, un
gesticolamento, da parere che tutta quella gente assistesse a
qualche fenomeno celeste. Per non mettere sottosopra tutta la città,
tramontai, ossia discesi dalla seggiola, e per qualche minuto non ci
salì nessuno. Poco dopo stava alla berlina il Biseo ed era anch'egli
bersagliato da mille sguardi, quando, sopra una terrazza lontana, tutte
le donne gli voltarono improvvisamente le spalle, e corsero ad
affacciarsi dalla parte opposta; e così di terrazza in terrazza, per una
lunga fila di case. Sul primo momento non capimmo che cosa fosse
accaduto. Il vice-console fu il primo a indovinarlo.--Un grande
avvenimento,--disse;--passano per le strade di Fez il Comandante e il
capitano.--E infatti di lì a poco, si videro rosseggiare sopra una delle
alture che dominano la città, le divise dei soldati della scorta, e col
cannocchiale si riconobbe il Comandante ed il capitano a cavallo. Un
altro voltafaccia di donne sopra un gran numero di terrazze, ci
annunziò, poco dopo, il passaggio d'un'altra comitiva italiana; e
trascorsi dieci minuti vedemmo biancheggiare sull'altura opposta la
_cuffía_ egiziana dell'Ussi e il cappello inglese del Morteo. Dopo
questo l'attenzione universale si rivolse daccapo a noi, e saremmo stati
là a godercela un pezzo; ma sopra una terrazza vicina cinque o sei
monelle di schiave, di tredici o quattordici anni, si misero a guardarci
e a sghignazzare così insolentemente, che fummo costretti, per il decoro
della cristianità, a privare il bel sesso metropolitano della nostra
meravigliosa presenza.
* * * * *
Ieri siamo stati a pranzo dal Gran Visir Taib Ben Iamani, soprannominato
Boascerin, che significa, secondo alcuni, vincitore al gioco della
palla, e secondo altri, padre di venti figli: gran vizir, però, non
d'altro che di titolo, per aver occupato quella carica suo padre sotto
il regno del precedente Sultano.
Il messo latore dell'invito fu ricevuto dall'Ambasciatore in nostra
presenza.
--Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,--disse con molta
gravità,--prega l'Ambasciatore d'Italia e il suo seguito di voler
pranzare oggi in casa sua.
L'Ambasciatore ringraziò.
--Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,--continuò colla stessa
gravità--prega pure l'Ambasciatore e il suo seguito di portar le
forchette e i coltelli e di condurre con sè i loro servi per farsi
servire a tavola.
Andammo verso sera, tutti in giubba e cravatta bianca, a cavallo, col
solito seguito armato. Non ricordo in che parte della città si trovi la
casa, tanti sono i giri e le svolte, le salite e le discese che si
fecero per stradicciuole coperte, uggiose, sinistre, badando ogni
momento a frenare le mule che scivolavano, e a curvare la testa per non
urtare nelle volte umide delle interminabili gallerie.
Scendemmo in un androne oscuro ed entrammo in un vasto cortile
rettangolare, pavimentato a musaico, e circondato da altissimi pilastri
bianchi, sui quali s'incurvano dei piccoli archi ornati d'arabeschi di
stucco e dipinti di verde: una bizzarra architettura moresco-babilonese,
che ci destò una piacevole meraviglia. Nel mezzo del cortile spicciavano
da sette vasche di marmo bianco sette alti zampilli, che facevano il
rumore d'una pioggia dirotta. Tutt'intorno v'erano porticine socchiuse e
finestrine binate. Nel mezzo dei due lati più corti, due grandi porte
aperte, che davano accesso a due sale. Sulla soglia d'una di queste
porte ci aspettava il Gran Vizir, in piedi; dietro di lui due vecchi
mori, suoi parenti; a destra e a sinistra due ali di schiavi e di
schiave.
Scambiati i soliti saluti, il Gran Vizir sedette sopra una materassa
distesa lungo la parete, incrociò le gambe, si strinse sul ventre con
tutte e due le mani un grosso guanciale rotondo,--suo atteggiamento
abituale e notissimo,--e non si mosse più di così per tutta la sera.
Era un uomo sui quarantacinque anni, vegeto, di lineamenti regolari, ma
non simpatico per una certa falsa luce che gli brillava negli occhi.
Aveva il turbante e il caffettano bianco. Parlava con molta vivacità e
rideva sonoramente ad ogni parola propria o d'altri, rovesciando
indietro la testa, e continuando a tener la bocca spalancata molto tempo
dopo che aveva riso.
Alle pareti erano appesi alcuni quadretti con iscrizioni del Corano in
caratteri d'oro; nel mezzo della sala una tavola da osteria di villaggio
e alcune seggiole rustiche; tutt'intorno materasse bianche, sulle quali
buttammo i nostri cappelli.
Sidi-Ben-Iamani intavolò una vivace conversazione coll'Ambasciatore; gli
domandò se era ammogliato, perchè non s'ammogliava; gli disse che, se
fosse stato ammogliato, gli avrebbe fatto un grande piacere conducendo
la moglie a pranzo con sè; che l'Ambasciatore inglese ci aveva condotto
la figliuola, la quale s'era molto divertita; che tutti gli Ambasciatori
avrebbero dovuto ammogliarsi espressamente per condurre le loro donne a
veder Fez e a pranzare in casa sua, e simili discorsi, interrotti da
alte risate.
Mentre, il Gran Vizir parlava, i pittori ed io, seduti sulla soglia
della porta, guardavamo di sott'occhio le schiave, le quali a poco a
poco, incoraggiate dalla nostra aria di curiosità benigna, s'erano
avvicinate, non viste dal Gran Vizir, fino quasi a toccarci, e stavan lì
piantate a guardare e a farsi guardare, con una certa compiacenza. Erano
otto bei pezzi di ragazze tra i quindici e i vent'anni, alcune mulatte,
altre nere, con grand'occhi, narici dilatate, seni prominenti, tutte
vestite di bianco, strette intorno alla vita da una larghissima cintura
ricamata, le braccia e i piedi nudi, braccialetti ai polsi, grandi
cerchi d'argento alle orecchie e due grossi anelli alle gambe. Non
avrebbero avuto nessuno scrupolo, ci parve, a lasciarsi pizzicare la
guancia da una mano cristiana. L'Ussi accennò al Biseo il bellissimo
piede d'una di esse; questa se n'accorse e si mise a osservare il
proprio piede con grande curiosità. Tutte le altre fecero lo stesso,
paragonando i propri ai piedi della prima. L'Ussi fece scattare il
gibus; diedero un passo indietro, poi sorrisero e si riavvicinarono. Una
voce del Gran Vizir, che ordinava di apparecchiare la tavola, le fece
scappare.
La tavola fu apparecchiata dai nostri soldati. Un servo della casa vi
piantò nel mezzo tre grosse torcie di cera vergine di vario colore. Le
stoviglie erano del gran vizir: non due piatti uguali; grandi e piccoli,
bianchi e dipinti, finissimi e di qualità infima, alla rinfusa. Le
serviette pure appartenevano alla casa, ed erano pezzi di tela di
cotone, di diversa grandezza, senz'orlo, tagliati in fretta e in furia
poche ore prima del desinare.
Ci mettemmo a tavola a notte fatta. Il Gran Vizir rimase sulla sua
materassa, col guanciale tra le braccia, discorrendo e ridendo coi suoi
due parenti.
Non descriverò il pranzo; non voglio ridestare memorie dolorose. Basterà
dire che furono trenta piatti, ossia trenta dispiaceri gravi, senza
contare i piccoli fastidi dei dolci.
Al quindicesimo piatto riuscendo oltremodo difficile il proseguire la
lotta senza il refrigerio d'un po' di vino, l'ambasciatore incaricò il
Morteo di far domandare al Gran Vizir se non gli sarebbe spiaciuto che
mandassimo a pigliare qualche bottiglia di Champagne.
Il Morteo parlò nell'orecchio a Selam e Selam ripetè la domanda
nell'orecchio a Sua Eccellenza.
Sua Eccellenza fece una lunga risposta a bassa voce, e intanto noi colla
coda dell'occhio spiavamo ansiosamente il suo volto. Ma il suo volto non
ci dava grandi speranze.
Selam s'alzò mortificato, e riferì la risposta nell'orecchio
all'Intendente il quale ci diede il colpo di grazia colle seguenti
parole:
--Il Gran Vizir dice che non avrebbe difficoltà.... che anzi ben
volentieri acconsentirebbe.... ma che ci sarebbe un inconveniente... ed
è che si macchierebbero i bicchieri.... e forse anche la tavola.... e
che in ogni modo la vista... l'odore.... e poi la novità della cosa....
--Ho capito,--rispose l'Ambasciatore;--non parliamone più.
Tutti i nostri volti presero un leggero color verde.
Finito il pranzo, l'Ambasciatore rimase a discorrere col Gran Vizir, e
noi uscimmo dalla sala. Era buio e piovigginava. Nell'altra sala, in
fondo al cortile, illuminata da una torcia, desinavano, seduti sul
pavimento, il nostro caid, i suoi ufficiali e i segretari del Gran
Vizir. A tutte le finestrine dei quattro muri rischiarate di dentro,
facevano capolino donne e bambini, dei quali non apparivano che i
contorni neri. Per una porta socchiusa del pian terreno si vedeva una
sala illuminata splendidamente, dove erano sedute e sdraiate in cerchio,
in atteggiamenti voluttuosi, le mogli e le concubine del gran vizir,
indiademate come regine; ma velate leggermente dal fumo dei profumieri
che ardevano ai loro piedi. Schiave e servi andavano e venivano fra la
sala da pranzo e le cucine, attraversavano il cortile, entravano in
certe porte, salivano e scendevano; saranno state cinquanta persone in
movimento, e non si sentiva una voce, un passo, un fruscìo. Era una
scena muta e misteriosa come uno spettacolo fantasmagorico, dinanzi
alla quale rimanemmo lungo tempo attoniti, nascosti nell'ombra, senza
profferire parola.
Andandocene, si vide appesa a un pilastro del cortile una grossa
correggia di cuoio con molti nodi. L'interprete domandò a un servo della
casa a che cosa servisse:
--A flagellarci--rispose.
Montammo a cavallo, e ci mettemmo in cammino verso casa, accompagnati da
uno stuolo di servi del gran vizir, ognuno dei quali portava una grande
lanterna. Era buio fitto e pioveva a rovescio. Non si può immaginare lo
strano effetto di quella lunghissima cavalcata, di quelle lanterne, di
quella turba di gente armata e incappucciata, di quello scalpitìo
assordante, di quel frastuono di grida selvaggie, per quel labirinto di
strade anguste e di passaggi coperti, in mezzo al profondo silenzio
della città addormentata. Pareva una processione funebre per i meandri
d'una immensa grotta o un'incamiciata di soldati che s'avanzasse per le
gallerie sotterranee d'una fortezza per fare un colpo di mano. A un
tratto, il convoglio si fermò, si fece un silenzio sepolcrale e s'intese
una voce irata che disse in arabo:--La strada è chiusa!--Un momento dopo
si sentì uno strepito precipitoso di colpi. Erano i soldati della
scorta che cercavano di rovesciare coi calci dei fucili una delle mille
porte che durante la notte impediscono la circolazione per le strade di
Fez. Il lavoro durò un pezzo; lampeggiava, tonava, scrosciava la
pioggia; i servi e i soldati andavano e venivano colle lanterne,
proiettando le loro lunghe ombre sui muri; il caid, ritto sulle staffe,
minacciava gli abitanti invisibili delle case circostanti; e noi ci
godevamo quel bel quadro del Rembrandt con un gusto infinito. Finalmente
s'udì un fortissimo schianto, la porta cadde e ci rimettemmo in cammino.
A poca distanza da casa, sotto una volta sepolcrale, sei soldati di
fanteria ci presentarono le armi con una mano sola, tenendo coll'altra
un moccolo acceso; e fu questa l'ultima scena della rappresentazione
fantastica intitolata:--Un pranzo in casa del gran vizir.--Ma no;
l'ultima scena fu quando, appena rientrati nel nostro cortile, ci
precipitammo sulle sardine di Nantes e sulle bottiglie di Bordeaux, e
l'Ussi, alzando il bicchiere sopra le nostre teste, esclamò con accento
solenne:--A Sidi-Ben-Iamani Boascerin, gran vizir del Marocco, nostro
graziosissimo ospite, Stefano Ussi, cristianamente perdonando,
consacra!
* * * * *
Il Sultano ha ricevuto l'Ambasciatore in udienza privata. La sala dei
ricevimenti è grande, bianca e nuda come una prigione. Non v'è altro
ornamento che un gran numero di orologi a pendolo, di tutte le
dimensioni e di tutte le forme, in parte schierati sul pavimento, lungo
le pareti; in parte ammucchiati sopra una tavola, in mezzo alla sala.
Gli orologi, è da notarsi, sono per i mori un oggetto principalissimo
d'ammirazione e di divertimento. Il Sultano stava dentro una piccola
alcova, seduto, colle gambe incrociate, sopra un palco di legno, alto un
metro. Aveva indosso, come al ricevimento pubblico, una cappa
bianchissima, il cappuccio sul capo, i piedi nudi, le babbuccie gialle
in un canto e un cordone verde a traverso il petto, al quale doveva
essere appeso un pugnale. In questa forma gl'Imperatori del Marocco
ricevono tutti gli Ambasciatori: il loro trono, come disse il Sultano
Abd-er-Rhaman, è il cavallo e il loro padiglione il cielo.
L'Ambasciatore, avendone prima manifestato il desiderio a Sid-Mussa,
trovò dinanzi al palco imperiale una modesta seggiola, sulla quale, a un
cenno del Sultano, sedette; il signor Morteo, interprete, rimase in
piedi. Sua Maestà Mulei el Hassen parlò lungamente, senza mai levar le
braccia di sotto la cappa, senza fare un movimento del capo, senza
alterare d'un solo accento l'abituale monotonia della sua voce dolce e
profonda. Parlò dei bisogni del suo Impero, di commerci, d'industrie, di
trattati, scendendo a particolari minuti, con molto ordine e grande
semplicità di linguaggio. Fece molte domande ascoltò le risposte con
viva attenzione, e conchiuse dicendo con un accento di leggera
mestizia:--_È vero; ma siamo costretti a procedere lentamente;_--strane
ed ammirabili parole sulle labbra d'un Imperatore del Marocco. Vedendo
che non accennava mai, neanche negl'intervalli di silenzio, a troncare
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