Marocco - 02

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maestà d'un re e della disinvoltura d'un soldato. Ed è strano che quella
stessa gente che sta tante ore del giorno accovacciata, immobile, quasi
intorpidita, spieghi, non appena è scossa dalla passione, un vigore di
gesto e di voce che tocca la frenesia. Ma anche nel prorompere delle
passioni più violente, serbano una sorta di dignità tragica, che
potrebbe servir d'esempio a molti attori. Ricorderò per molto tempo
l'arabo di stamane, un vecchio alto e consunto, il quale, avendo
ricevuto, per quello che si disse, una mentita da un tale con cui fino
allora era andato disputando pacatamente, impallidì, dette indietro, e
poi si slanciò giù per la strada coprendosi il viso colle mani convulse
e gettando un urlo di rabbia e di dolore. Io non ho mai visto una figura
più terribile e più bella.
* * * * *
La maggior parte non hanno addosso che una semplicissima cappa bianca;
eppure quanta varietà fra di loro! Chi la porta aperta, chi chiusa, chi
tirata da un lato, chi ripiegata sulla spalla, chi infilata, chi
sciolta, ma sempre posta con garbo, variata di pieghe pittoresche,
cascante, in linee facili e severe, come se l'avesse panneggiata, o
piuttosto, come la vorrebbe saper panneggiare un artista. Ognuno di
costoro arieggia un senatore romano. Stamattina l'Ussi ha scoperto un
meraviglioso Marco Bruto in mezzo a un gruppo di beduini. Ma se non ci è
abituata la persona, non basta la cappa a nobilitar la figura. Parecchi
di noi n'han comperata una per il viaggio, e se la provarono; e m'è
parso vedere dei vecchietti convalescenti infagottati in un lenzuolo da
bagno.
* * * * *
Non ho ancora visto tra gli arabi un gobbo nè uno storpio nè un
rachitico; ma molti senza naso, effetto di morbo celtico; moltissimi
ciechi, e i più fra questi colle occhiaie vuote; vista che mi fa
rabbrividire quando penso che ad alcuni, forse, è stato strappato il
globo dell'occhio in virtù della legge del taglione, che vige
nell'Impero. Ma nessuna bruttezza ridicola in mezzo a tante figure
strane e rincrescevoli. Il vestito ampio nasconde i piccoli difetti,
come la gravità comune e l'apparenza lignea, terracea o bronzina delle
carni, dissimula la differenza d'età. Il perchè s'incontrano ad ogni
passo uomini d'un'età indefinibile, dei quali si può dire soltanto che
non sono nè vecchi nè adolescenti; e o si giudicano maturi, e un lampo
di sorriso rivela inaspettatamente la giovinezza; o si credono giovani,
e il cappuccio rovesciato mostra tutt'a un tratto i capelli grigi.
* * * * *
Gli Ebrei di qui arieggiano nei lineamenti del viso quelli dei nostri
paesi; ma la statura più alta, il colorito più bruno, i lunghi capelli
neri, e sopra tutto il vestire pittoresco li fa parere tutt'altra gente.
Portano un vestito della forma presso a poco d'una veste da camera, di
vario colore, per lo più oscuro, stretto intorno alla vita da una fascia
rossa; una berrettina nera; calzoni larghi che sporgono appena un palmo
disotto alle falde, e le pantofole gialle. Ed è strano il numero di
«eleganti» che si vedono in mezzo a loro, vestiti di stoffe finissime,
con camicie ricamate, ciarpe di seta, catene ed anelli d'oro; ma punto
vistosi; austeri, invece, nell'insieme dell'abbigliamento, e pieni di
grazia e di dignità signorile, eccetto quei pochi disgraziati che si
prostituirono al cappello cilindrico e al soprabito nero. Fra i ragazzi
vi sono delle figurine gentili; ma quella specie di veste da camera in
cui si fasciano, non s'addice alla età loro. Ogni ragazzo ebreo mi par
un dilettante da teatrino di collegio, vestito per far la parte del
protagonista nel _Campanello dello speziale_.
* * * * *
Trovo, sinora, che non è un'esagerazione quello che si dice della
bellezza delle ebree marocchine, che ha un carattere suo proprio,
sconosciuto in ogni altro paese. È una bellezza opulenta e splendida, di
grandi occhi neri, di fronti nivee, di bocche porporine, di contorni
statuarii, una bellezza da palco scenico, che abbarbaglia da lontano, e
strappa piuttosto un applauso che un sospiro, e piace di raffigurarsela
in mezzo alle fiaccole e alle tazze inghirlandate d'un banchetto antico,
come nella sua cornice naturale. Le ebree di Tangeri non vestono in
pubblico il ricchissimo costume tradizionale; son vestite presso a poco
all'europea, ma di colori ciarlatanissimamente vistosi, blù solferino e
rosso di carminio, giallo di zolfo e verde d'erba montanina, scialli e
gonnelle che feriscon l'occhio da una collina all'altra; in modo che
paiono donne ravvolte dentro a bandiere di tutti gli Stati del mondo. Il
sabato, passando per le strade abitate dagli ebrei, si vedono da ogni
parte quei colori, quei visi floridi, quegli occhioni dolci e ridenti,
quelle treccie lunghe e nerissime; nidiate di ragazze chiassose e
curiose; un rigoglio di gioventù e di bellezza sensuale, che contrasta
vivamente colla solitudine austera delle altre vie.
* * * * *
Mi fanno ridere i ragazzi arabi. Di quei piccini, che possono appena
camminare, anch'essi insaccati nella cappa bianca, non si vede altro
che il cappuccio, e paiono spegnitoi ambulanti. La maggior parte hanno
la testa rasa nuda come la mano, eccetto una trecciolina sul cocuzzolo
lunga un par di palmi, che si direbbe lasciata apposta per poterli
appendere ai chiodi come le marionette. Alcuni l'hanno invece dietro
l'orecchio o sopra la tempia, con qualche ciocca di capelli tagliati
in forma di quadrato o di triangolo, che è il distintivo degli ultimi
nati nelle famiglie. I più hanno un bel visetto pallido, un corpicino
ritto e sciolto e un'espressione d'intelligenza precoce. Nelle parti
più frequentate della città, non badano agli Europei; nelle strade
appartate, si contentano di guardarli attentamente, coll'aria di
dire:--Non mi piaci.--Qualcuno avrebbe voglia di dire un'impertinenza:
glie la vedete scintillare negli occhi e guizzare sulle labbra; ma di
rado se la lasciano sfuggire dalla bocca, non tanto per rispetto del
Nazareno, quanto per paura del padre, che sente l'odore delle Legazioni.
In ogni caso, però, alla vista d'un soldo si quetano. Ma bisogna
guardarsi da tirare il codino, perchè ieri, passando, diedi una
tiratina a un fantoccio alto un palmo, e lui mi si voltò contro
inviperito, borbottando alcune parole, che significavano, mi disse
l'interprete:--Dio faccia arrostire tuo nonno, maledetto Cristiano!
* * * * *
Ho finalmente veduto due santi, che vuol dire idioti o pazzi, poichè
qui, come in tutta l'Affrica settentrionale, è venerato come santo colui
al quale Dio, in segno di predilezione, ha tolto la ragione per
ritenerla prigioniera nel cielo. Il primo era davanti a una bottega,
sulla strada principale. Lo vidi da lontano e mi fermai. Sapevo che ai
santi tutto è lecito, e non volevo espormi a ricevere una legnata tra
capo e collo come il signor Sourdeau, console di Francia, o uno sputo
nel viso come il signor Drummond Hay. Ma l'interprete che
m'accompagnava mi spinse innanzi dicendomi:--Vada franco; i santi di
Tangeri han messo testa a partito dopo che le Legazioni fecero dare
degli esempi sonori, e in ogni caso gli arabi stessi le servirebbero di
scudo, per impedire al santo di compromettersi.--Allora passai davanti a
quello spauracchio, osservandolo attentamente. Era un vecchio, tutto
faccia e tutto pancia, coi capelli bianchi lunghissimi, una barbaccia
che gli scendeva fin sul petto, una corona di carta intorno alla fronte,
un mantello rosso sbrandellato sulle spalle e in mano una piccola lancia
colla punta dorata. Stava seduto in terra, colle gambe incrociate e le
spalle al muro, guardando con aria annoiata la gente che passava. Mi
soffermai: mi guardò. Ci siamo--pensai--ora lavora la lancia.--Ma la
lancia ebbe giudizio, e fui anzi meravigliato dell'espressione
tranquilla e intelligente di quegli occhi e d'un risolino astuto che vi
brillava dentro, come se volesse dire:--Tu aspetti ch'io ti dia addosso,
eh? A esser minchioni! Era certamente uno di quegli impostori che, sani
di mente, si fingono pazzi per godere i privilegi della santità. Gli
gettai una moneta ch'egli raccolse con sbadataggine affettata, e tornai
verso la piazzetta dove, appena arrivato, ne incontrai un altro. Questo
era santo davvero. Era un mulatto, quasi tutto nudo, appena umano nel
viso, tutt'una crosta immonda dalla testa ai piedi, e secco a segno che
lasciava veder lo scheletro osso per osso, e pareva un prodigio che
vivesse. Girava lentamente per la piazza sorreggendo a fatica una gran
bandiera bianca, che i ragazzi correvano a baciare, e un altro pezzente
accompagnato da due rabbiosi suonatori di piffero e di tamburo,
chiedeva la limosina per lui di bottega in bottega. Gli passai accanto,
mi mostrò il bianco dell'occhio; lo fissai, si fermò; mi parve che
apparecchiasse qualcosa in bocca, mi scansai lesto lesto e non mi volsi
più indietro.--Ha fatto bene, mi disse l'interprete, a scansarsi,
perchè, se avesse sputato, lei non avrebbe avuto dagli altri arabi altra
consolazione che di sentirsi dire: Non asciugare, fortunato Cristiano!
Non cancellare il segno della benevolenza di Dio! Te benedetto, che il
santo t'ha sputato sul viso!
* * * * *
Sta notte ho inteso di nuovo il suono di chitarra e la voce della prima
sera, e ho _sentito_ per la prima volta la musica araba. In quella
perpetua ripetizione dello stesso motivo, quasi sempre malinconico, c'è
qualcosa che a poco a poco va all'anima. È una specie di lamentazione
monotona che finisce per soggiogare il pensiero come il mormorio d'una
fontana, il canto dei grilli e il battere dei martelli sulle incudini
che si ode la sera passando vicino a un villaggio. Mi sento forzato a
raccogliermi e a meditare come per afferrare il significato riposto di
quella eterna parola che mi risuona all'orecchio. È una musica barbara,
ingenua e piena di dolcezza, che mi fa risalire col pensiero fino alle
età primitive, mi ravviva le impressioni infantili delle prime letture
della Bibbia, mi richiama alla mente dei sogni dimenticati, mi desta
mille curiosità di paesi e di popoli favolosi, mi trasporta a grandi
lontananze, in boschi d'alberi sconosciuti, in mezzo a sacerdoti
secolari curvi intorno a idoli d'oro; o in pianure sconfinate, in
solitudini solenni, dietro le carovane stanche che interrogano collo
sguardo l'immenso orizzonte infocato e ripiegano la testa
raccomandandosi a Dio. Nulla di quello che mi circonda mi fa sentire un
così mesto desiderio di riveder mia madre, come quelle poche note d'una
voce fioca e d'una chitarra scordata.
* * * * *
Una stranissima cosa son le botteghe moresche. Sono tutte una specie
d'alcova, alta circa un metro da terra, con una sola apertura verso la
strada, alla quale il compratore s'affaccia, come ad una finestra,
appoggiandosi al muro. Il bottegaio sta dentro, seduto all'orientale,
con una parte delle merci ammontata dinanzi, e una parte dietro,
disposta in piccoli scaffali. È curioso l'effetto che fan quei vecchi
mori barbuti, immobili come automi, in fondo a quei bugigattoli oscuri.
Pare che non la merce, ma essi medesimi siano esposti in mostra, come i
_fenomeni viventi_ nelle baracche delle fiere. Son vivi? son di legno?
dov'è l'ordigno che li fa comparire e sparire? E così immobili e
silenziosi passano ore ed ore, e giornate intere, facendo scorrere fra
le dita le pallottoline d'un rosario, e borbottando preghiere. Non si
può immaginare l'aria di solitudine, di noia, di tristezza che spira là
dentro. Si direbbe che ognuna di quelle botteghe è una tomba, nella
quale il padrone, già separato dal mondo, aspetta la morte.
* * * * *
Ho visto due bambini condotti in trionfo dopo la funzione solenne della
circoncisione. Uno poteva avere sei anni, l'altro cinque. Erano tutti e
due a cavallo a una mula bianca, vestiti d'abiti rossi, gialli e verdi,
ricamati d'oro, e coperti di nastri e di fiori, in mezzo ai quali si
vedevano appena i loro visetti pallidi, che serbavano ancora
l'espressione dello spavento e dello stupore. Davanti alla mula,
gualdrappata e inghirlandata come un cavallo di corte, camminavano tre
sonatori col tamburo, il piffero e il cornetto, sonando furiosamente;
dai lati e dietro, venivano i parenti e gli amici, uno dei quali teneva
i bimbi fermi sulla sella, un altro porgeva loro dei confetti, altri li
accarezzavano, alcuni tiravan schioppettate in aria saltando e gridando.
Se non avessi saputo il significato della cerimonia, avrei creduto che
quei poveri bimbi fossero due vittime condotte al sacrificio; e
nondimeno era uno spettacolo non privo di gentilezza e di poesia. Ma
l'avrei trovato anche più poetico, se non m'avessero detto che
l'operazione sacra era stata fatta dal rasoio d'un barbiere.
* * * * *
Stasera ho assistito ad una strana metamorfosi di Racma, la serva nera
del ministro. La sua compagna mi venne a cercare, mi condusse in punta
di piedi davanti a un uscio socchiuso, e spalancandolo tutt'a un tratto,
esclamò:--Guardi Racma!--Io rimasi talmente meravigliato dell'aspetto in
cui mi si presentò quella nera, ch'ero abituato a vedere nei panni di
una modestissima schiava, che per un momento non credetti ai miei occhi.
Avrei detto ch'era una sultana fuggita dal palazzo dell'Imperatore, la
regina di Tumbuctu, una principessa di qualche regno sconosciuto
dell'Affrica, venuta là sul tappeto miracoloso di Bisnagar. Non la vidi
che per pochi momenti, non saprei dire esattamente com'era vestita. Era
un bianco di neve, un rosso di porpora e uno sfolgorio di larghi galloni
d'oro, sotto un gran velo trasparente, che presentavano insieme col viso
nerissimo una così fragorosa armonia di colori e una ricchezza così
barbaramente magnifica da non trovar parola per descriverla. Mentre
m'avvicinavo per osservarne i particolari, tutta quella pompa scomparve
sotto il lugubre lenzuolo maomettano, e la regina si trasformò in
spettro, e lo spettro scomparve, lasciando nella stanza il puzzo
nauseabondo di selvaggiume, proprio della razza nera, che finì di
togliermi ogni illusione.
* * * * *
Udendo un gran chiasso nella piazzetta, mi affacciai alla finestra e
vidi passare un nero con tutto il busto nudo, a cavallo a un asino,
fiancheggiato da alcuni arabi armati di bastoni e seguito da uno sciame
di ragazzi che urlavano. Sul primo momento credetti che fosse uno
scherzo e guardai col cannocchiale. Mi ritirai inorridito. I calzoni
bianchi del nero erano macchiati di sangue, che gocciolava dalla
schiena. Gli arabi coi bastoni erano soldati che lo battevano. Domandai
informazioni. Aveva rubato una gallina.--Fortunato lui!--mi disse un
soldato della Legazione:--pare che non gli taglieranno la mano.
* * * * *
Sono da sette giorni a Tangeri, e non ho ancora visto il viso
d'un'araba. Mi par di trovarmi in un grande veglione di donne mascherate
da streghe, come se le figurano i bimbi, camuffate in un lenzuolo
mortuario. Camminano a passi lunghi, lentamente, un po' curve,
coprendosi il viso col lembo d'una specie di mantello di tela, sotto il
quale non hanno altro che una camicia a larghe maniche, stretta intorno
alla vita da un cordone, come la tonaca d'un frate. Del loro corpo non
si vede che gli occhi, la mano che copre il viso, tinta di rosso
coll'henné alle estremità delle dita, e i piedi nudi, pure tinti,
infilati in larghe pantofole di cuoio giallo. La maggior parte non
lasciano vedere che mezza la fronte ed un occhio: l'occhio, per lo più,
scuro, e la fronte color di cera. Incontrando un Europeo per una strada
appartata alcune si coprono tutto il viso con un movimento brusco e
sgraziato e passano stringendosi al muro; altre arrischiano un'occhiata
tra diffidente e curiosa; qualcuna, più ardita, saetta uno sguardo
provocatore e abbassa il viso sorridendo. Ma la più parte hanno un
aspetto triste, stanco, avvilito. Son graziose le ragazzine, non ancora
obbligate a coprirsi; occhi neri, visetto pieno, carnagione pallida,
boccuccie rotonde, mani e piedi piccini. Ma a vent'anni son già vizze, a
trenta, vecchie, a cinquanta, disfatte.
* * * * *
V'è a Tangeri un mostro, una di quelle creature su cui non si può
fissare lo sguardo, e che gettano per un momento anche nell'anima d'un
credente lo sgomento del dubbio. Si dice che è una donna; ma non sembra
nè donna nè uomo. È una testa d'urango, mulatta, coi capelli corti ed
irsuti, uno scheletro colla pelle, coperta di cenci neri, quasi sempre
distesa come un corpo morto nel mezzo della piazzetta, o seduta in un
angolo, immobile e muta come un'insensata, quando non la molestino i
ragazzi, ai quali si rivolta urlando o piangendo. Può aver quindici
anni, può averne trenta: la sua mostruosità nasconde l'età. Non ha
parenti, non ha casa, non si sa come si chiami nè donde venga. Passa la
notte accovacciata per le strade, in mezzo alle immondizie e ai cani.
Gran parte del giorno dorme; quando ha da mangiare, ride; quando ha
fame, piange; quando è sole, è un mucchio di polvere; quando piove, è un
ammasso di fango. Una notte, passandole accanto, uno di noi le mise
nelle mani una moneta d'argento ravvolta in un pezzo di carta, affinchè
la mattina avesse il piacere d'una sorpresa. La mattina la trovammo in
mezzo alla piazza che singhiozzava disperatamente, mostrando una mano
insanguinata: qualcuno, graffiandola, le aveva strappato la moneta. Tre
giorni dopo la incontrai, a cavallo a un asino, tutta in lagrime,
sostenuta da due soldati, seguita da una turba di ragazzi che le davan
la baia. Qualcuno mi disse che la portavano all'ospedale. Non la rividi
che ieri addormentata accanto al carcame d'un cane, più fortunato di
lei.
* * * * *
So finalmente chi sono questi uomini biondi dalla faccia di malaugurio,
che passandomi accanto per le strade appartate mi gettano uno sguardo in
cui pare che scintilli la tentazione dell'omicidio! Sono quei Rifani,
berberi di razza, che non hanno altra legge che il loro fucile, che non
riconoscono nè caid nè magistrato; i pirati audaci, i banditi
sanguinarii, i ribelli eterni che popolano le montagne della costa da
Tetuan alla frontiera algerina; che non riuscirono a domare nè i cannoni
dei vascelli europei nè gli eserciti del Sultano; gli abitanti, in fine,
di quel Rif famoso, dove nessun straniero può mettere piede che sotto la
salvaguardia dei santi e dei sceicchi; a cui si riferiscono ogni sorta
di leggende paurose; e i popoli vicini ne parlano vagamente come d'un
paese lontano e inaccessibile. Se ne vedono di frequente per Tangeri.
Son uomini alti e robusti; molti vestiti d'una cappa oscura, ornata di
nappine di vario colore; alcuni col viso segnato di rabeschi gialli;
tutti armati di fucili lunghissimi, di cui portano la guaina rossa
attorcigliata intorno alla fronte in forma di turbante; e vanno a
gruppi, parlando a voce bassa, col capo chino e gli occhi all'erta, come
drappelli di bravi che cerchino la vittima. E appetto a loro gli Arabi
più selvaggi mi paiono amici d'infanzia.
* * * * *
Eravamo a desinare, a notte fitta, quando risonarono alcune fucilate
nella piazzetta. Si corse fuori, e si vide ancora, da lontano, un
bizzarro spettacolo. La stradetta che conduce alla porta del Soc di
Barra era rischiarata, per un buon tratto, da grandi fiaccole, che
apparivano al disopra delle teste della folla, intorno a qualcosa che
pareva una cassa, posta sulla groppa d'un cavallo; e questa enimmatica
processione andava innanzi lentamente, accompagnata da una musica
malinconica, da un canto strascicato e nasale, da fucilate, da grida
stridule, da latrati di cani. Rimasto solo in mezzo alla piazza, stetti
qualche minuto almanaccando che cosa potesse significare quell'apparato
lugubre, se in quella cassa ci fosse un cadavere, un condannato a morte,
un mostro, un animale destinato al sacrifizio; e in quell'incertezza mi
prese un senso di ribrezzo, che mi fece voltar le spalle e tornare a
casa pieno di tristi pensieri. Un minuto dopo sopraggiunsero gli amici,
ed ebbi da loro la spiegazione dell'enimma. Dentro la cassa v'era chiusa
una sposa, e la gente intorno erano i parenti che la portavano a casa
del marito.
* * * * *
È passata per la piazzetta una turba d'arabi, uomini e donne, preceduta
da sei vecchi che portavano sei grandi bandiere di colori diversi, e
tutti insieme cantavano ad alta voce non so che preghiera, con un
accento supplichevole ed un aspetto triste, che mi fece senso. Domandai:
mi si disse che chiedevano ad Allà la grazia della pioggia. Li seguitai,
andavano alla moschea principale. Non sapendo che qui è rigorosamente
proibito ai cristiani di metter piede nelle moschee, quando fui davanti
alla porta, feci l'atto d'entrare. Un vecchio arabo mi si slanciò contro
e borbottando con voce affannata qualcosa che interpretai per:--Che cosa
fai, disgraziato!--mi spinse indietro coll'atto di chi rimova un
fanciullo da un precipizio. Mi dovetti dunque contentare di vedere dalla
strada le arcate bianche del cortile, non dolendomi però gran fatto,
dopo aver visto le gigantesche moschee di Costantinopoli, d'essere
escluso da quelle di Tangeri, prive d'ogni aspetto monumentale, fatta
eccezione dei minareti. Ma nè anco i loro minareti,--grosse torri
quadrate od esagone, rivestite di mosaici di molti colori, e sormontate
da una torricina a tetto piramidale,--valgono i minareti bianchi e
leggerissimi che si alzano al cielo come smisurate antenne d'avorio
dalla sommità delle colline di Stambul. Mentre stavo là guardando nel
cortile, una donna, di dietro alla fontana delle abluzioni, mi fece un
atto colla mano. Potrei lasciar credere che fosse un bacio; ma era un
pugno.
* * * * *
Son salito alla Casba, o castello, posto sopra una collina che domina
Tangeri. È un gruppo di piccoli edifici circondati di vecchie mura, dove
stanno le autorità, i soldati e i prigionieri. Non ci trovai che due
sentinelle assonnate, sedute davanti a una porta, in fondo a una
piazzetta deserta, e qualche mendicante disteso in terra, saettato dal
sole e divorato dalle mosche. Di lassù si abbraccia collo sguardo tutta
Tangeri, che si stende ai piedi delle mura della Casba e risale su per
un'altra collina. L'occhio rifugge quasi da tutta quella bianchezza
purissima, macchiata soltanto qua e là dal verde di qualche fico
imprigionato fra muro e muro. Si vedono i terrazzi di tutte le case, i
minareti delle moschee, le bandiere delle Legazioni, i merli delle mura,
la spiaggia solitaria, la baia deserta, i monti della costa, uno
spettacolo vasto, silenzioso e splendido, che rasserenerebbe la più cupa
nostalgia. Mentre stavo contemplando mi riscosse una voce acuta e
tremula, d'un'intonazione strana, che veniva dall'alto. Mi voltai, e
solamente dopo aver un po' cercato, scopersi sulla cima del minareto
d'una moschea della Casba una piccola macchia nera, il _muezzin_, che
invita i fedeli alla preghiera lanciando ai quattro venti il nome di
Allà e di Maometto. Poi tornò a regnare tutt'intorno il silenzio
malinconico del mezzogiorno.
* * * * *
Farsi cambiare il danaro, in questo paese, è una calamità. Ho dato una
lira francese al tabaccaio perchè mi rendesse dieci soldi. Questo moro
feroce aprì una cassetta e cominciò a pigliare e a buttar sul banco
manate di monetaccie nere e sformate, finchè ce ne fu un mucchio da
farne il carico ordinario d'un facchino, diede una contata alla lesta e
stette ad aspettare che me le intascassi.--Scusate--gli dissi, cercando
di ripigliar la mia lira;--non sono abbastanza robusto da poter comprare
nella vostra bottega.--Poi m'accomodai pigliando altri sigari e portando
via una tascata soltanto di quel tritume di danaro per farmi spiegare
che cosa fosse. È una moneta chiamata _flu_, di rame, la cui unità val
meno d'un centesimo e va ancora scemando ogni giorno di valore, perchè
il Marocco n'è inondato, ed è inutile aggiungere a qual fine l'abbia
profusa e la profonda il Governo, quando si dica che il Governo paga con
questa moneta e non riceve che oro ed argento. Ma ogni male ha il suo
bene, e questi flù, questo flagello del commercio, hanno la inestimabile
virtù di preservare i marocchini da molti malanni, e in specie dalla
jettatura, in grazia del così detto anello di Salomone, una stella di
sei punte che v'è impressa da una parte; immagine dell'anello vero
chiuso nella tomba del gran Re, il quale governava con esso i buoni e i
cattivi genii.
* * * * *
Non v'è che un luogo dove passeggiare, ed è la spiaggia che si stende
dalla città verso il capo Malabat, una spiaggia sparsa di conchiglie e
di vegetali rigettati dal mare, e coperta in varii punti da larghe
distese d'acqua, difficili a guadarsi durante l'alta marea. Questi sono
i Campi Elisi o le Cascine di Tangeri. L'ora della passeggiata è la
sera, verso il tramonto. A quell'ora vi sarà una cinquantina d'Europei
che passeggiano a coppie o a gruppi, a qualche centinaio di passi gli
uni dagli altri, in modo che dalle mura della città si riconoscono uno
per uno alla distanza d'un miglio. Viene innanzi una signora inglese a
cavallo, accompagnata da una guida; più in là, due mori della campagna;
dopo i mori, il Console di Spagna colla sua signora; poi un Santo; poi
una cameriera francese con due bimbi; poi uno stormo di campagnuole
arabe che passano un'acqua, scoprendo le ginocchia e nascondendosi il
viso, e più lontano, a intervalli, un cappello a staio, un cappuccio
bianco, un _chignon_, fino all'ultimo che dev'essere il Segretario della
Legazione di Portogallo coi calzoni chiari che gli hanno portato ieri da
Gibilterra; perchè in questa piccola colonia europea tutti sanno tutto
di tutti. Se non fosse irriverente il paragone, direi che mi pare una
passeggiata di condannati a domicilio coatto, o di viaggiatori tenuti in
ostaggio dai pirati d'un'isola selvaggia, che aspettino l'arrivo d'un
bastimento col denaro del riscatto.
--- --- --- --- ---
È assai più facile raccapezzarsi nell'immensità di Londra che in mezzo a
questo pugno di case che starebbero tutte in un canto dell'Hayd-Park.
Tutti questi vicoletti, cantucci, crocicchi, dove appena si può passare,
si somigliano fra loro come le cellule d'un'arnia, e non è che
un'attentissima osservazione dei più minuti particolari che possa far
distinguere un luogo da un altro. Finora, appena uscito dalla piazza e
dalla strada principale, mi smarrisco. In pieno giorno, in uno di questi
corridoi silenziosi, due arabi potrebbero legarmi, imbavagliarmi e farmi
sparire per sempre dalla faccia della terra senza che nessuno vedesse e
sentisse nulla. Eppure un cristiano può girare solo per questo
labirinto, in mezzo a questi barbari, di giorno e di notte, con maggior
sicurezza che in qualunque nostra città. Qualche asta di bandiera
europea, ritta sopra un terrazzo come l'indice minaccioso di una mano
nascosta, basta a ottenere quello che non ottiene fra noi una legione
d'armati. Che differenza di civiltà tra Londra e Tangeri! Ma ogni città
ha i suoi vantaggi. Là vi sono i grandi palazzi e le strade ferrate
sotterranee; qui si può attraversar la folla col soprabito sbottonato.
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Non c'è in tutta Tangeri nè un carro nè una carrozza; non si sente
strepito d'officine nè suono di campane nè grida di venditori; non si
vede nessun movimento affrettato nè di cose nè di persone; gli stessi
Europei, per non saper dove battere il capo, restano per ore immobili in
mezzo alla piazza; tutto riposa e invita al riposo. Io stesso, che son
qui da pochi giorni, comincio a sentir l'influsso di questa vita molle e
sonnolenta. Arrivato al Soc di Barra, mi sento irresistibilmente
risospinto verso casa; lette dieci pagine d'un libro, il libro mi sfugge
di mano; una volta abbandonata la testa sulla spalliera della poltrona,
ho bisogno di riepilogarmi almeno un paio di capitoli dello Smiles, per
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