Marocco - 05

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viaggio colla formola:--La pace sia sulla vostra strada,--e accompagnò
l'Incaricato fin sull'uscio, stringendo la mano a tutti coll'apparenza
d'una grande cordialità. Il Caid Misfiui, sempre muto, ci porse la punta
delle dita, senza guardarci nel viso.--La mano, veh!--dissi tra me
stendendogli la mia;--non la testa.
Eravamo già fuori della sala, quando il ministro ci raggiunse.
--Che giorno partite? domandò al Comm. Scovasso.
--Domenica,--questo rispose.
--Partite lunedì!--disse in tono premuroso Sidi-Bargas.
L'Incaricato gli fece domandare perchè.
--Perchè è giorno di buon augurio!--rispose con serietà,--e fatto un
nuovo inchino, disparve.
Sidi-Misfiui, mi fu detto poi, ha tra i Mori la fama di gran dotto, fu
maestro del Sultano regnante, ed è, come gli si legge nel viso, un
mussulmano fanatico. Sidi-Bargas gode la riputazione più amabile di gran
giocatore di scacchi.
§ § § § §
Tre giorni prima della partenza, la stradetta dove dà la porta della
Legazione era già affollata di curiosi. Dieci grandi cammelli, che
dovevano portare a Fez, prima del nostro arrivo, una parte delle
provvigioni di vino, vennero l'un dopo l'altro a inginocchiarsi davanti
alla porta per ricevere il carico, e partirono accompagnati da un
drappello di servi e di soldati. Dentro la casa, in quegli ultimi tre
giorni, raddoppiò il lavoro e il via vai. Ai servi e ai soldati della
Legazione s'aggiunsero i servi venuti da Fez. Ad ogni ora del giorno
arrivavano provvigioni. La casa pareva un'officina, un magazzino e uno
scalo. Si temette un momento che non bastasse il tempo agli apparecchi
per poter partire il giorno fissato. Ma la domenica sera, tre di maggio,
tutto era pronto, compresa l'asta altissima d'una smisurata bandiera
tricolore che doveva sventolare in mezzo alle tende; e la notte poterono
essere caricati sulle mule tutti i bagagli, che partirono il lunedì
mattina, molte ore prima di noi, affinchè, arrivando la sera alla tappa,
trovassimo l'accampamento piantato.
Ricorderò sempre, con una emozione gradevole, quegli ultimi momenti che
passammo nel cortile della Legazione prima della partenza.
C'eravamo tutti. Erano arrivati il giorno innanzi, per unirsi a noi, un
vecchio amico dell'Incaricato d'affari, il signor Patxot, antico
ministro di Spagna a Tangeri, e il signor Morteo, genovese, agente
consolare d'Italia a Mazagan. C'era il medico della carovana, Miguerez,
nativo di Algeri; un ricco moro; Mohamed-Ducali, suddito italiano, che
accompagnava l'ambasciata in qualità di scrivano; il secondo dracomanno
della Legazione, Salomone Aflalo; due marinai italiani, uno ordinanza
del comandante Cassone e l'altro calafato a bordo del _Dora;_ i soldati
della Legazione in gran gala; i cuochi, gli operai, i servi, tutte
persone sconosciute che due mesi di vita comune nell'interno del Marocco
dovevano rendermi famigliari, e che io mi preparavo a studiare sin da
quel momento, ad uno ad uno, per farli un giorno movere e parlare nel
libro che avevo in testa. Tutti avevano nel vestito qualchecosa di
particolare, che dava a quella riunione un aspetto straordinariamente
pittoresco. Erano cappelli piumati, cappe bianche, grandi ghette, veli,
bisaccie, coperte da campo di colori bizzarri. C'era da fare un bazar
tra pistole, barometri, quaderni, album e cannocchiali. Pareva che
fossimo preparati a partire per il Capo di Buona Speranza. Si fremeva
tutti d'impazienza, di curiosità e d'allegrezza. Per giunta il tempo era
bellissimo e soffiava un'auretta marina deliziosa. Maometto era
coll'Italia.
Alle cinque in punto l'ambasciatore montò a cavallo e sulle terrazze
delle Legazioni s'alzarono le bandiere in segno di saluto.
Preoccupato com'ero della mia cavalcatura, in quel tafferuglio
pericoloso della partenza, non ricordo che confusamente la folla che
ingombrava le strade, le belle ebree affacciate alle terrazze, e un
ragazzo arabo che mentre uscivo per la porta del Soc, esclamò con un
accento strano:--Italia!
Sul Soc si unirono a noi i rappresentanti di tutte le Legazioni, per
accompagnarci, secondo l'uso, fino a qualche miglio da Tangeri; e
prendemmo tutti insieme la via di Fez, confusi in una cavalcata
rumorosa, davanti a cui sventolava la bandiera verde del Profeta.


HAD-EL-GARBÌA

Era una folla di ministri, di consoli, di dracomanni, di segretarii, di
cancellieri, una grande ambasciata internazionale, che rappresentava sei
monarchie e due repubbliche, composta per la maggior parte di gente che
aveva girato mezza la terra. Fra gli altri, il console di Spagna,
vestito del grazioso costume della provincia di Murcia, con un
pugnaletto alla cintura; il console gigantesco degli Stati Uniti, antico
colonnello di cavalleria, che s'alzava di tutta la testa al di sopra
della comitiva, e cavalcava un bel cavallo arabo bardato alla messicana;
il dracomanno della Legazione di Francia, un uomo di forme atletiche,
piantato sopra un enorme cavallo bianco, col quale presentava in certi
atteggiamenti i contorni fantastici e poderosi di un centauro; delle
faccie inglesi, portoghesi, andaluse, tedesche. Tutti parlavano, ed era
una conversazione in dieci lingue, accompagnata da risate,
canterellamenti e nitriti. Davanti a noi cavalcava il portabandiera,
seguito da due soldati della Legazione d'Italia; dietro venivano i
cavalieri della scorta, guidati dal generale mulatto, coi fucili ritti
sulle selle; dai lati uno sciame di servi arabi a piedi. Tutta questa
comitiva, dorata dagli ultimi raggi del sole, presentava uno spettacolo
così splendidamente pittoresco, che ognuno di noi lasciava trasparire
sul volto la compiacenza d'essere una figura del quadro.
A poco a poco quasi tutti coloro che ci accompagnavano, si accomiatarono
e tornarono a Tangeri; non rimasero più con noi che l'America e la
Spagna.
La strada, per allora, non era delle peggio; la mia mula pareva la mula
più docile dell'Impero; che cosa mi rimaneva a desiderare? Ma non c'è
felicità intera sulla terra. Il capitano mi si avvicinò e mi diede una
notizia spiacevole. Il vice-console, Paolo Grande, nostro compagno di
tenda, era sonnambulo. Il capitano stesso l'aveva incontrato la notte
prima, su per le scale della casa della Legazione, ravvolto in un
lenzuolo, con un lume in una mano e una pistola nell'altra. I servi
della casa, interrogati, avevano confermata la cosa. Dormire sotto la
tenda con lui era pericoloso. Il capitano pregava me, poichè avevo
maggiore famigliarità col vice-console, d'indurlo a rimettere a qualcuno
le sue armi durante la notte. Io promisi di fare tutto il possibile.--Mi
raccomando--; disse allontanandosi;--anche in nome del Comandante; si
tratta di salvare la pelle.--Questa ci mancava!--pensai, e cercai subito
il vice-console. Egli stesso mi venne accanto. Di domanda in domanda
riuscii a sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco
e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la
descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta
per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne
avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando
andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da
quel pensiero molesto.
Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna
verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da
un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati,
serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di
rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere
sull'orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si
vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune
fucilate. Era un gruppo d'arabi che dalla sommità d'una collina
salutavano l'ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta;
cominciavamo a desiderare l'accampamento. La fame in qualcuno, in altri
la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il
passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano
correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo
un'altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro
primo accampamento e lo salutammo con un grido.
Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in
mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare,
di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare
delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa.
Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati,
cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in
tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran
circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là
dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo
piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente.
Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V'erano quattro
letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini,
seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori
italiani e un grande sventolatore all'indiana. Era un accampamento
principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era
posta fra quella dell'ambasciatore e quella degli artisti.
Un'ora dopo l'arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata
a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato
fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi.
Eravamo sedici, compreso il console d'America coi suoi due figli e il
console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana
riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a
quella campagna deserta s'alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al
sugo e del risotto alla milanese. L'autore, un grosso cuoco francese
venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli
onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l'un dall'altro in italiano,
in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un
bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran
cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don
Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si
disputò sulla quistione d'Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla
guerra carlista, sull'immortalità dell'anima, sulle proprietà del
terribile _cobra capello_, l'aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano
morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al
clamore della conversazione, mi disse nell'orecchio che mi sarebbe stato
riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi
scritto ch'egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest'occasione per
pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle
bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console
di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in
onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un
motivo dell'_Italiana in Algeri_, uscimmo dalla tenda per andar a
dormire.
L'accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda
dell'Ambasciatore, che s'era ritirato prima di noi, vegliava il fido
Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava
lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era
tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto
quella spina del sonnambulo!
Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi
d'intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma
mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la
cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così
piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco, parlava delle cose più
insignificanti collo stile e coll'accento d'un predicatore ispirato.
Profondeva gli aggettivi terribile--immenso--divino--ad ogni proposito.
Il suo gesto più riposato era di agitare le mani al di sopra della
testa. A vederlo discutere, con quegli occhi che gli uscivan dal capo,
con quel naso aquilino che pareva volesse agganciare l'avversario, si
sarebbe giudicato un uomo irascibile e imperioso; ed era invece la più
buona, la più arrendevole pasta di giovanotto che si possa immaginare.
--Animo--disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto.
--Signor Grande,--io cominciai--lei ha l'abitudine di levarsi durante la
notte?
Parve molto meravigliato della mia domanda.--No--rispose--e mi
spiacerebbe che l'avesse qualchedun altro.
Quest'è curiosa! pensai.--Dunque--soggiunsi--lei riconosce che è un
abitudine pericolosa.
Mi guardò.
--Scusi--disse poi--mi pare che su quest'argomento lei non dovrebbe
scherzare.
--Mi scusi lei, io risposi,--non ho menomamente l'intenzione di
scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi.
--È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le
cattive conseguenze.
--Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi?
--Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io.
--È una vera impertinenza!--diss'io balzando a sedere sul letto.
--Oh stiamo a vedere adesso,--gridò il viceconsole alzandosi
istizzito,--che è un'impertinenza il non volersi lasciar ammazzare!
Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e
prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d'esser
stati corbellati tutt'e due. A lui pure avevan fatto credere che io
giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle
spalle e una pistola nel pugno.
§ § § § §
La notte passò senz'accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per
vedere l'aurora.
L'accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo
alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno.
Il cielo era tutto color di rosa ad oriente.
Mi avanzai fino in mezzo all'accampamento e rimasi per molto tempo
immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d'intorno.
Le tende erano piantate sul fianco d'una collina tutta coperta d'erbe,
di fichi d'india, d'aloè e d'arbusti fioriti. Vicino alla tenda
dell'ambasciatore s'alzava una palma altissima, inclinata graziosamente
verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura
ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde
cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti
nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una
casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di fumo. Era come un
immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un'aria fresca e
odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore
che mi giungesse all'orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi
spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di
roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante
la notte, chi sa di dove, per vedere l'accampamento. Parevano scolpiti
nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere
palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di
malevolenza, nè d'imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi
visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della
solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei
dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un
sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai
indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m'erano
sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti
altri, più lontano, seduti in mezzo all'erba, a due a due, a tre a tre,
anch'essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano
gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze
piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del
sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall'accampamento della
scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano
annuciava ai compagni l'ora della preghiera, la prima delle cinque
preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni
soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi
s'inginocchiarono su, rivolti verso l'oriente; si soffregarono tre
volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e
poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere
inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull'erba,
alzando le mani aperte all'altezza delle orecchie, e accoccolandosi
sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della
scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte
della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato
sull'orizzonte, scottava.
§ § § § §
Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai
curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.
Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del
comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni,
un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea,
d'indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della
singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come
il Goe delle _Cinque settimane in pallone_, di meravigliarsi soltanto
della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra,
l'Africa, la China dov'era stato, la luna se ce l'avessero portato,
erano la stessissima cosa.
--Che ne dici di questa vita?--gli domandò il comandante, mentre
l'aiutava a vestirsi.
--Che vuol che ne dica?--rispose.
--Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t'ha
fatto nessuna impressione?
Stette un po' pensando, e rispose ingenuamente:--Nessuna impressione.
--Ma come! Quest'accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per
te?
--Eh no, signor comandante.
--Ma quando mai l'hai visto prima d'ora?
--L'ho visto ieri sera.
Il comandante lo guardò.
--Ma ieri sera--domandò poi reprimendo la stizza--che impressione t'ha
fatto?
--Eh.... rispose candidamente il buon marinaio--; si capisce.... la
stessa impressione di questa mattina.
Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione.
Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di
Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il
tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per
maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso,
minchione quanto ce n'entrava, ma buono e pieno di buon volere; un
fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva
il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca,
sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera
ridicola, e gli dava l'aria d'una caricatura di cherubino. Sapeva una
trentina di parole spagnuole, e con queste s'ingegnava di farsi capire,
quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s'esprimeva quasi
sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli
arabi è facile sbagliare. Glielo domandai.
Prima si coperse il viso con una mano, poi meditò qualche momento e
rispose:
--_Cuando guerra España.... año y medio._ Al tempo della guerra colla
Spagna, che fu nel 1860, un anno e mezzo; aveva dunque diciasette anni.
--Che pezzo d'uomo per la sua età! dissi al vice-console.
--Immenso!--rispose.
Il terzo personaggio fu il cuoco dell'Ambasciatore, che ci portò il
caffè; un piemontese pretto, tagliato tutto d'un pezzo in un pilastro
dei portici di piazza Castello, il quale da Torino, ch'egli chiamava il
_giardino d'Italia_, era piovuto, pochi giorni prima, a Tangeri, e non
aveva ancora ritrovato sè stesso. Il pover'uomo non faceva che
esclamare:--Oh che paese! Oh che paese!
Gli domandai se prima di partire da Torino, non gliel'avevan detto che
paese fosse il Marocco, che città fosse Tangeri. Mi rispose di sì. Gli
avevan detto:--Badate, Tangeri non è Torino.--Non sarà come Torino--egli
aveva pensato--; pazienza! Sarà come Genova, come Alessandria, via!--E
invece s'era ritrovato in una città di quella fatta! _N mes ai
sarvaj!_[1] E gli avevan messo ad aiutarlo due arabi che non capivano
una parola di piemontese! _O mi povr'om!_ E oltre a questo bisognava
fare un viaggio di due mesi a traverso i _deserti dell'Egitto_! Egli
prevedeva che non ne sarebbe tornato vivo.
--Ma almeno--gli dissi--quando tornerete a Torino, avrete qualche cosa
da raccontare.
--Ah!--rispose con accento malinconico, andandosene via--che cosa si può
raccontare d'un paese dove non si trovano due foglie d'insalata!
§ § § § §
Fatta colezione, l'Ambasciatore diede ordine di levare l'accampamento.
Durante quella lunga operazione, alla quale lavoravano poco meno di
cento persone, osservai un tratto singolare del carattere degli arabi,
che è la passione smaniosa del comando. Non c'era bisogno di
nessun'indicazione, per riconoscere alla prima in mezzo a quella folla
confusa il capo mulattiere, il capo dei facchini, il capo dei servi
delle tende, il capo dei soldati della Legazione. Chiunque era investito
d'un'autorità, la faceva sentire e vedere, a proposito e a sproposito,
colla voce, colle mani, cogli occhi, con tutte le forze dell'anima e del
corpo. E chi non aveva autorità, coglieva ogni menomo pretesto per dare
un ordine a un eguale, per illudersi d'essere qualchecosa più degli
altri. Il più cencioso dei servi pareva beato di poter assumere per un
momento un atteggiamento imperioso. La più semplice operazione, come
d'annodare una corda o di sollevare una cassa, provocava uno scambio di
grida tonanti, di sguardi fulminei, di gesti da sultano sdegnato.
Persino Civo, il modesto Civo, sultaneggiava contro due arabi della
campagna che si permettevano di guardar da lontano i bauli del suo
padrone.
§ § § § §
Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana
cominciò a discendere lentamente nella pianura.
Il console di Spagna e i suoi due compagni ci avevano lasciati
all'alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee
all'ambasciata che il console d'America e i suoi figliuoli.
Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia,
che significa fontana di vino, per le vigne che v'erano nei tempi
andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle
montagne che chiudevano la pianura.
Per più d'un'ora si camminò sopra un terreno leggermente ondulato, in
mezzo a campi d'orzo e di miglio, per sentieri tortuosi, che formavano
coi loro incrociamenti un gran numero d'isolette coperte d'erbe
rigogliose e di fiori altissimi. Non si vedea nessuno per la campagna,
nessuno per la strada. Solamente dopo una mezz'ora di cammino,
incontrammo una lunga fila di cammelli condotta da due beduini, i quali
passandoci accanto mormorarono il solito saluto:--La pace sia sulla
vostra strada.
§ § § § §
Era una pietà per me il vedere quei poveri servi arabi che venivano
accanto a noi, a piedi, carichi d'ombrelli, di pastrani, di
cannocchiali, d'album, di mille gingilli, di cui ignoravano il nome e
l'uso; costretti a seguitare correndo il passo rapido delle nostre mule,
soffocati dalla polvere, arsi dal sole, mal nutriti, mezzi nudi,
soggetti a tutti, non possessori d'altro al mondo che d'un cencio di
camicia e d'un paio di ciabatte; venuti a piedi da Fez a Tangeri, per
tornare a piedi da Tangeri a Fez; e poi, chi sa! seguitare qualche altra
carovana da Fez a Marocco, e tirare innanzi così tutta la vita,
senz'altro compenso che di non morire di fame e di poter riposare le
ossa sotto una tenda! Pensavo, guardandoli, alla «piramide della
esistenza» del Goethe. V'era, fra gli altri, un ragazzo mulatto di
tredici o quattordici anni, bello e sveltissimo, il quale fissava sempre
in viso ora a me ora ad altri dell'ambasciata due grandi occhi neri
pieni di curiosità e di simpatia, che diceano e domandavano confusamente
mille cose. Era un trovatello, frutto chi sa di che strani amori, che
cominciava coll'ambasciata italiana la corsa faticosa, nella quale forse
non doveva arrestarsi che per cadere nella fossa. Un altro, un vecchio
tutt'ossa e pelle, correva col capo basso, cogli occhi chiusi, coi pugni
stretti, colla rassegnazione disperata d'un dannato. Altri parlavano e
ridevano ansando. A un tratto, uno spiccò la corsa, passò dinnanzi a
tutti e disparve. Dieci minuti dopo lo trovammo seduto all'ombra d'un
fico. Aveva fatto un mezzo miglio per guadagnare sulla carovana cinque
minuti di cammino e goderseli all'ombra.
§ § § § §
Intanto eravamo arrivati ai piedi d'una piccola montagna, chiamata in
arabo la Montagna Rossa dal colore della sua terra; ripida, rocciosa e
ancora irta degli avanzi d'un bosco abbattuto. Quella salita c'era stata
annunziata fin da Tangeri come il passo più pericoloso del viaggio. Mula
mia,--dissi tra me--ti raccomando il mio contratto coll'editore;--e la
spinsi su coll'animo preparato a un capitombolo. I sentieri salivano
serpeggiando in mezzo a grandi sassi che mi parevano stati acuminati e
affilati apposta da un mio nemico personale per incidermi le parti
posteriori; a ogni movimento incerto della mula, mi sentivo scappare
dalla testa un capitolo del mio libro futuro; due volte la povera
bestia, piegandosi sui ginocchi, slanciò la mia anima sui confini d'un
mondo migliore; ma infine riuscii a toccare sano e salvo la sommità,
dove m'accorsi con grande meraviglia d'essermi lasciato indietro i
compagni, i due pittori eccettuati, i quali m'avevano preceduto per
osservare dall'alto l'ambasciata che s'avanzava.
Lo spettacolo valeva veramente la fatica d'una salita forzata.
La carovana da mezzo il fianco della montagna s'allungava per più d'un
miglio nella pianura. Il primo era il gruppo dell'ambasciata, fra cui
spiccava il cappello piumato dell'Ambasciatore e il turbante bianco di
Mohammed Ducali; e ai lati e dietro uno sciame di servi a piedi e a
cavallo sparpagliati pittorescamente fra i massi e i cespugli della
salita. Dietro a questi, venivano su a coppie, a gruppi, a piccole file,
ravvolti nelle loro cappe bianche e turchine, curvi sulle loro selle
scarlatte, i cavalieri della scorta che presentavano l'immagine d'una
gran cavalcata di maschere; e dietro la scorta, la fila interminabile
dei muli e dei cavalli, che portavan le tende, le casse, il mobilio, la
cucina, i viveri, fiancheggiati da servi e da soldati, gli ultimi dei
quali apparivano appena come una punteggiatura bianca e rossa nel verde
della campagna. Non si può immaginare come questa processione
variopinta, armata, luccicante, animava quella vallata solitaria, che
spettacolo bizzarro e festoso presentava! Se in quel momento avessi
avuto la virtù di pietrificarla in sull'atto, per poterla contemplare a
mio comodo, non so se avrei resistito alla tentazione. Voltandomi per
rimettermi in cammino, ebbi un'altra sorpresa--l'Oceano Atlantico--che
si stendeva azzurro e queto come un lago a poche miglia dalla montagna.
V'era un sol bastimento in vista, vicinissimo alla costa, che navigava
verso lo stretto. Il Comandante guardò col cannocchiale: era un
bastimento italiano. Quanto avremmo dato per esser visti e
riconosciuti!
Dalla Montagna Rossa si discese in un'altra bellissima valle, tutta
coperta di fiori, che formavano come tanti tappeti di color lilla, roseo
e bianco. Nessuna casa, nessuna tenda, nessuna creatura umana.
L'ambasciatore decise di fare una fermata: scendemmo da cavallo e
sedemmo all'ombra d'un gruppo d'alberi; il convoglio dei bagagli seguitò
la sua strada.
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