Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 13

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costruttura di nuovi tempj, ed all'abbattimento degli antichi, ma ciò,
che fra le leggi loro sembravagli o troppo superstizioso, o soverchio
sottile, mutava egli e cancellava: di che chiarissima testimonianza
ne danno le molte sue costituzioni, che a questo fine furon da lui
promulgate, e che si leggono nel Codice di Teodosio[467]. E Costanzo
suo figliuolo, che alL'Imperio gli succedè, tenne pure il medesimo
ordine, e volle ancor egli in molte cose allontanarsi dagli antichi
instituti, ed in cose di religione massimamente, com'è chiaro da molte
sue costituzioni, che si leggon in quel Codice[468].
Dal che ne nacque, che Costantino lasciò di se varia e diversa fama
appo i Cristiani, e presso a' Gentili. I nostri per questi fatti
il cumularon d'eccelse lodi; e quindi prese argomento Nazario[469]
nell'Orazion panegirica, che nell'anno 321 gli fece, d'innalzar le
sue lodi, con dire: _Novae leges, regendis moribus, et frangendis
vitiis constitutae, veterum calumniosae ambages recisae, captandae
simplicitatis laqueos perdiderunt_. Isidoro[470] nel libro dell'Origini
pur disse, che da Costantino cominciarono le _nuove leggi_: e Prospero
Aquitanico[471] chiamò Principi legittimi gli Autori di tali leggi,
perchè da' Principi Cristiani furono promulgate.
Ma presso a' Gentili, i quali mal volentieri soffrivano queste
mutazioni, così lui come Costanzo suo figliuolo furon acerbamente
biasimati e mal voluti. Perciò Gregorio, ed Ermogeniano Giureconsulti
ambedue Gentili che fiorirono sotto Costantino e suoi figliuoli,
dubitando, che per queste nuove costituzioni di Principi cristiani la
giurisprudenza de' Gentili non venisse affatto a mancare, si diedero a
compilare i loro Codici, ne' quali le leggi degl'Imperadori Gentili,
cominciando da Adriano infino a Diocleziano, uniron insieme; perchè
quanto più fosse possibile si ritenesse l'antica. E quindi avvenne,
che assunto all'Imperio Giuliano nipote del G. Costantino, come quegli
che nacque da Costanzo suo fratello, avendo pubblicamente rinunziata
la religione cristiana, ed abbracciato il paganesimo, ingegnossi a
tutto potere (ancorchè non gli paresse usare l'armi della crudeltà,
come avean fatti gli altri Imperadori Gentili suoi predecessori) di
ristabilire il culto dell'antica religione, e l'antiche leggi, per
abbattere il Cristianesimo: onde fu tutto rivolto a cancellare ciò,
che Costantino avea fatto, chiamandolo perciò, come narra Ammiano
Marcellino[472], _Novatore_ e perturbatore dell'antiche leggi, e
degli antichi costumi: _Julianum, memoriam Constantini, ut Novatoris,
turbatorisque priscarum legum, et moris antiquitus recepti, vexasse_;
molte sue leggi perciò ancor ora nel Codice di Teodosio si leggono,
per le quali è manifesto non avere avuto ad altro l'animo rivolto, che
ad abolir le leggi di Costantino, e restituir l'antiche: ecco quali
fossero le sue frequenti formole sopra di ciò: _Amputata Constitutione
Constantini patrui mei, etc. antiquum Jus, cum omni firmitate
servetur_[473]; ed altrove:[474] _Patrui mei Constantini Constitutionem
jubemus aboleri, etc. Vetus igitur Jus revocamus_. Ed avendo questo
Principe secondo l'antica disciplina di molte costituzioni accresciuta
la ragion civile, e sopra tutto invigilato alla spedizione delle
liti, avendo anche in gran parte recise l'imposizioni, che tiravan i
suoi predecessori, e dati chiari documenti della sua vigilanza, valor
militare, e di molte altre virtù, fu che non pure presso a' Gentili
acquistasse fama d'un Principe saggio e prudente, come Libanio[475]
per questo stesso l'innalza e lo magnifica nell'Orazion funebre, che
gli fece; ma che ancor da Zonara riportasse questi encomj; e ciò che
sembrerà strano, eziandio dai Scrittori di questi ultimi nostri tempi;
fra quali tiene il primo luogo Michele di Montagna[476], il quale oltre
a prender la di lui difesa dell'Apostasia, e d'altri misfatti, che
comunemente se gl'imputano, di eccessive lodi lo cumula, e fin'al cielo
l'estolle.
Ma perchè l'Imperio di questo Principe non durò più che due anni,
essendo stato nel fiore della sua età ucciso da' Parti, non avendo che
31 anni; succeduto Valentiniano il Vecchio nell'Occidente, e Valente
suo fratello nell'Oriente, Principi a' quali non era men a cuore la
religione cristiana, di quello che fu a Costantino; riuscì perciò
vano ogni sforzo di Giuliano contro di lei, la quale fu parimente
dagli altri Principi successori ritenuta, avvegnacchè mal concia e
depravata per la pestilente eresia d'Arrio, che attaccatasi ne' Capi
dell'Imperio, si diffuse per tutto l'orbe cristiano, e penetrò ancora
ne' petti delle Nazioni straniere; ed essendo da questi Principi state
calcate le medesime orme di Costantino, ed alle costui leggi altre lor
proprie aggiunte, si venne a dare alla giurisprudenza quell'aspetto e
quella forma, che nel Codice di Teodosio ora ravvisiamo.


CAPITOLO VI.
_De' Giureconsulti, e loro libri; e dell'Accademia di Roma._

Quantunque la giurisprudenza de' Romani per la nuova divisione
dell'Imperio, per la nuova disposizione degli Ufficiali, e per la
nuova politia, e religione in esso introdotta, prendesse altri aspetti
e nuove forme, non può nulladimeno dubitarsi, che la cagione del
suo cambiamento e della sua declinazione, non in gran parte fosse
anche stata la perduta antica disciplina, e la mancanza d'una buona
educazione ne' giovani: mancata dunque la disciplina, e l'educazione,
si videro i giovani dati in braccio a' lussi, a' frequenti conviti,
alle delicatezze, a' giuochi, ed alle meretrici, siccome di questo
secolo appunto si doleva Ammiano Marcellino[477]: onde non potè
certamente produrre que' incorrotti e gravi Magistrati, quei saggi
e prudenti Giureconsulti, gli Africani, i Marcelli, i Papiniani, i
Paoli, ed i tant'altri insigni e rinomati, che ne' preceduti secoli
fiorirono. L'opera de' Giureconsulti, che ne' tempi di Costantino, e
de' suoi figliuoli, a que' primi lumi succederono (essendovi tra essi
stato un certo _Innocenzio_ cotanto da Eunapio celebrato, _Anatolio_,
ed alcuni altri d'oscuro nome) non si raggirava in altro, se non
ad insegnare ed esporre nell'Accademie ciò, che da que' preclari ed
incomparabili Spiriti trovavasi scritto, e di raccogliere, comentare,
e a miglior lezione ridurre i loro libri. Ed essendo mancato l'uso
dell'interpretazione, e de' responsi, e ridotto l'esercizio de'
Giureconsulti a due cose solamente, cioè all'insegnare nell'Accademie,
e all'arringare, o scrivere per le liti nel Foro, che tratto tratto
cominciò a farsi per danajo contra l'antica legge Cincia: si ridusse il
mestiere in questi tempi a tal vilipendio, che alla fine divenne arte
di liberti. Perciò Mamertino[478] soleva compiangere questa perduta
dignità della giurisprudenza, anche prima di Giuliano, ed amaramente
dolersi, e dire: _Juriscivilis scientia, quae, Manlios, Scaevolas,
Servios in amplissimum gradum dignitatis extulerat, libertorum
artificium dicebatur._ Presso a Fozio[479] si legge, che Asterio
Vescovo di Amasea, che visse intorno l'anno 400, raccontava esser
egli stato discepolo d'un certo Scita servo comprato da un cittadino
d'Antiochia, che pubblicamente professava giurisprudenza; quando presso
agli antichi Romani l'esercizio degli Oratori, o Padroni delle cause,
che erano gli Avvocati parlanti, era sì onorevole, che i Senatori
romani, e gli altri personaggi grandi vi menavan la lor giovanezza:
parimenti era il principal modo nello stato popolare di giungere alle
cariche grandi, poichè difendendo le cause gratuitamente, siccom'essi
facevano, obbligavano strettamente molte persone, ed acquistavano per
conseguenza un gran numero di clienti, e quindi un grandissimo rispetto
ed autorità fra il Popolo, che lor importava molto per conseguire i
grandi Ufficj. S'aggiungea, che coloro, che sapevan ben arringare,
avean un gran vantaggio nell'assemblee del Popolo, il quale si mena
volentieri per l'orecchie: onde avviene che nello Stato popolare
gli Avvocati sono ordinariamente quegli, che hanno più potenza od
autorità; ma sotto gl'Imperatori l'autorità degli Avvocati fu assai
diminuita, come dice l'Autore del Dialogo _de Oratoribus_, attribuito
a Tacito, perciocchè il favor popolare non serviva più a niente per
ottener le grandi cariche, ed allora fu, che non potendo più esser
ricompensati, se non con danari, divennero per tanto mercenarj; gli
Imperadori però non volendogli affatto abbassare, gli ridussero in
Milizia, attribuendo loro in conseguenza tutti que' belli privilegi,
che avevan i soldati, ed ancora altri particolari, spezialmente questo,
che dopo aver esercitata la loro carica per lo spazio di 29 anni,
divenissero Conti[480]. Ma se tanto abbassamento si fosse solamente
veduto ne' Giureconsulti, sarebbe stato più comportabile; penetrò egli
nell'Accademie ancora, e ne' Tribunali.
L'Accademia di Roma erasi per l'ignoranza e viltà de' Professori, e
per le dissolutezze degli Scolari ridotta a tal lagrimevole stato,
che Valentiniano il Vecchio, perchè non fosse affatto estinta, fu
neccessitato nell'anno 370, essendo in Treveri, promulgare una ben
lunga costituzione, che dirizzò ad Olibrio Prefetto della città di
Roma, nella quale XI leggi accademiche stabilì, dando riparo a molti
abusi in quella introdotti. Volle primieramente, che gli Scolari,
i quali dalle province dell'Imperio andavan a Roma per istudiare,
portassero lettere dimissoriali spedite da' Rettori, ovvero da'
Consolari, Correttori, o Presidi di quelle province donde partivano,
nelle quali lettere si esprimesse la loro patria, i loro natali, ed i
meriti e la dignità de' loro progenitori, e della loro razza.
Per II ordinò, che giunti in Roma dovessero presentar queste lettere al
Maestro del Censo, ed a' Censuali; III che questi Ufficiali avesser il
pensiero subito che gli Scolari eran entrati in Roma, di domandar loro
a quale professione intendevan applicare, se all'eloquenza romana o
greca, ovvero se volessero attendere a' più profondi studj, come della
filosofia, o giurisprudenza; IV che fosse cura e pensiero de' medesimi
Ufficiali assegnare agli Studenti gli Ospizj in luoghi lontani e remoti
da ogni disonestà; V che dovessero invigilare a' lor andamenti, e star
tutt'accorti per allontanargli dalle prave conversazioni, molto per
la gioventù pericolose; VI proibì Valentiniano a' medesimi Scolari la
troppa frequenza de' pubblici spettacoli, dando riparo con ciò a quegli
abusi, che Ammiano Marcellino si doleva d'essers'introdotti per questi
giovani, che consumavan il tempo in continui lussi, in amoreggiamenti,
ed in frequenti spettacoli, come corruttela di costumi, e cagione
d'allontanarsi dagli studj; VII proibì loro parimente gl'intempestivi e
frequenti conviti, ne' quali solevan per gran parte del giorno e della
notte menar l'ore in crapule, e tra mille licenziosi ragionamenti;
VIII che quegli Scolari, che contro queste leggi menassero vita
licenziosa, e indegnamente si portassero, dovessero severamente
punirsi, con battergli pubblicamente, indi scacciargli dalla città, e
fargli imbarcare, per mandargli donde eran venuti; IX stabilì il tempo
de' loro studj: che il ventesimo anno della loro età sia il fine di
quelli, quando prima ne' tempi di Diocleziano era nell'età di 25 anni,
e che cinque anni dovessero impiegare a' studj più gravi: siccome della
giurisprudenza particolarmente, stabilì ancora il nostro Giustiniano;
X ordinò, che si dovessero in un libro notare i nomi degli studiosi
in ciascun mese, quali essi fossero, e donde venissero, per sapersi
quanto tempo eran dimorati in Roma, ed il tempo ancora de' loro studj:
ciò che ancora oggi noi diciamo _Matricolarsi_, e descriversi nella
_Matricola_; XI Valentiniano stabilì, che dovesse ogn'anno mandarsi a
lui la Matricola, per conoscere quali fossero gli Studiosi in quella
descritti, acciocchè secondo il merito ed istituzione di ciascuno
potesse egli premiargli, e servirsene nel governo della Repubblica.
Cotanto questo provvido Principe ebbe a cuore l'educazione de' giovani,
e la riforma di questa Accademia; tanto che ristorata per queste
leggi, potè ne' seguenti anni richiamare a se, e dall'Affrica, e dalla
Francia, e dall'altre province occidentali, in gran numero i giovani
ad apprender le buone lettere, e la legge civile in Roma, che fu perciò
poi detta il domicilio delle leggi.
Si riparò da Valentiniano nel miglior modo che si potè la ruina
della giurisprudenza nell'Accademie; ma nel Foro, e ne' Tribunali era
pur troppo miserabile lo scempio, e l'aspro governo, che di quella
facevasi da' Giudici, e dagli Avvocati. La dappocaggine dei Magistrati,
e sovente la loro rapacità ed ambizione, l'ignoranza ancora degli
Avvocati, e più la malizia, ed i lor inganni avevan posto in confusione
tutte le costituzioni de' Principi, ed i libri de' Giureconsulti.
Da' soli Codici Gregoriano ed Ermogeniano poteva aversi certezza,
quando s'allegava qualche costituzione imperiale per la decisione
d'alcun litigio, e a quelli si dava tutto il peso e autorità: del
resto, tutto era disordine, e confusione. Perocchè da Costantino,
e da' suoi successori molte costituzioni eran state promulgate di
condizioni varie, appartenenti a diverse regioni de' due Imperj, ed
a varj Magistrati, secondo il bisogno indirizzate, e spesse volte fra
loro opposte; delle quali prima che da Teodosio il Giovane si fossero
in un certo volume raccolte e partite, non s'aveva distinta notizia, e
moltissime ne stavan sepolte; onde ciascun allegava, e cacciava fuori
quella costituzione, che pareagli condurre alla decision favorevole
della sua causa[481].
De' libri di tanti famosi e celebri Giureconsulti non minor era la
confusione ed il disordine. La notizia, che se n'aveva, era assai
confusa ed incerta: quale sentenza avesse per la disputazione del Foro
acquistata forza di legge, e dovessero i Giudici seguire, era uscito
dalla lor memoria; s'allegava indifferentemente, e sovente si recitava
un responso all'altro contrario; delle contrarietà de' quali era allora
il numero grandissimo, tanto che Giustiniano con tutti i suoi sforzi
non potè nella sua Compilazione toglierli affatto. A questa confusione
sen'aggiungeva un'altra considerabilissima, che que' Codici, i quali
giravano attorno fra le mani degli uomini, non essendo ancor in Europa
introdotto l'uso delle stampe, eran per l'incuria de' Librari, e degli
Antiquarj, scorrettissimi, e pieni di mille errori.
A riparar tanti danni, che per lungo tempo avevan ne' Tribunali a
questo lagrimevole stato ridotta la giurisprudenza, surse alla fine
Valentiniano III nell'Occidente, e Teodosio il Giovane nell'Oriente.
Questi Principi furono, che cospirando ad un medesimo fine, unirono
insieme la lor opera, ed il loro studio, prendendosi ciascuno a riparar
per la sua parte mali così gravi: Valentiniano a dar compenso a'
disordini, che per la dubbia autorità delle costituzioni de' Principi,
e varietà de' libri di Giureconsulti antichi ne seguivano; e Teodosio
ad impresa più nobile e generosa accingendosi, alla fabbrica d'un nuovo
Codice, ed allo ristabilimento dell'Accademia di Costantinopoli, volse
tutti i suoi pensieri.
Valentiniano adunque nell'anno 426 risedendo in Ravenna, dove aveva
trasferita la sede dell'Imperio, mandò al Senato di Roma una ben lunga
e prolissa orazione, per la quale fra le molte cose, a tutti questi
disordini spezialmente diede riparo: parte di questa orazione si legge
nel Codice di Teodosio, sotto il _tit. de Responsis prudentum_, e
parte, ancorchè in questo Codice oggi non sia, fu da Giustiniano[482]
però inserita nel suo, sotto il _tit. de Legibus_. In questa parte
registrata da Giustiniano dassi la norma, quali costituzioni imperiali,
quali rescritti potessero ne' giudicj leggersi ed allegarsi per le
decisioni delle cause, e quali fra quelle dovessero appresso i Giudici
aver forza e vigore: quali leggi, come generali, dovessero da tutti
ugualmente osservarsi, con eccettuarne que' rescritti, che a relazione,
e particolar richiesta furono in qualche particolar negozio emanati:
che non tutti i rescritti de' Principi, che dalle Parti si producevano
nei giudicj, avessero vigore; non quelli, che contro alle disposizioni
delle leggi, da' litiganti erano stati estorti; non quegli altri nè
meno, che contenevan surrezioni, ed orrezioni, i quali tutti volle, da'
Giudici si rifiutassero, e non s'eseguissero[483].
In quell'altra parte della sua orazione da Teodosio approvata, e nel
suo Codice inserita, dassi particolar provvidenza intorno a' libri
degli antichi Giureconsulti, che senz'ordine sparsi in questa età erano
di non poca confusione.
Volle primieramente, che agli scritti di questi cinque Giureconsulti,
cioè di Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino si prestasse
intera fede, ed allegati e ne' giudicj letti, avessero appo i Giudici
tutta la forza, e tutta l'autorità per la decisione delle cause.
II Che quest'istessa forza avessero le sentenze, ed i trattati di
Scevola, di Sabino, di Giuliano, di Marcello, e degli altri G. C., che
da que' cinque nelle lor opere fossero stati inseriti, o che da essi
si celebrassero. Gli scritti di questi antichi Giureconsulti eran in
Occidente allora ancor in essere, se bene nel Regno di Tolosa appo i
Goti ne' tempi posteriori fossero dispersi, come testifica l'Interprete
su questa costituzione di Valentiniano. In Oriente però si conservarono
fino a' tempi di Giustiniano, il quale di questi scritti si valse
nella sua compilazione delle Pandette. III Diede le cautele, e la
norma in qual maniera i Giudici potessero sicuramente degli scritti di
questi G. C. valersi nella decisione delle cause, e come i Causidici
dovessero allegargli, cioè, che quelli, che per lo più si portavan
attorno inemendati e scorretti, si riscontrassero co' Codici emendati:
per le quali correzioni solevan in quest'età, non solamente per li
libri di giurisprudenza, ma di tutt'altre professioni, scegliersi
uomini i più dotti, ed i più esatti Gramatici di questi tempi; de'
quali non altro era la loro cura e studio, se non di ridurre ad una
perfetta lezione col confronto de' più esatti ed emendati testi, gli
scritti, che correvano per le mani de' Professori. Siccome altresì
all'emendazione degli esemplari di Livio, e de' libri della Scrittura
Sacra spezialmente, ove le scorrezioni erano più perniziose, furon
impiegati uomini avvedutissimi. Di Luciano, testimone dignissimo ne è
Suida: ed Ireneo scongiurava il suo libraro _per dominum nostrum Jesum
Christum, et gloriosum ejus adventum, quo judicaturus est vivos, et
mortuos, ut conferat postquam transcripserit, et emendet ad exemplar
unde descripsit_. L'istessa sollecitudine ebbero Aponio, Girolamo, ed
Agostino, i quali non molto si curavano de' ricchi e vistosi Codici, ma
tutto il loro studio era d'avergli esatti ed emendati[484]. Cotanto in
questi tempi s'invigilava a tal opera, come quella, che riputavasi di
somma importanza; poichè da ciò sovente dipendeva la decisione di molte
controversie nella Chiesa, e d'infinite cause nel Foro.
Diffinì in oltre Valentiniano, siccome abbiamo anche altrove ricordato,
che quando ne' giudicj venivan allegate diverse ed opposte sentenze
di questi antichi e famosi Giureconsulti, dovesse il maggior numero
degli Autori prevalere, cioè, che le loro sentenze si numerassero,
non si pesassero, ed a quello dovesse il Giudice appigliarsi, di che
ebbe poi contrario sentimento Giustiniano; ma se il caso portasse,
che il numero dell'una parte, e dell'altra fosse uguale, volle che
fra tutti soprastasse Papiniano, in guisa che prevalesse quella
parte, che dal suo canto trovavasi avere sì illustre Giureconsulto:
la qual prerogativa non dovrà sembrar strana per Papiniano, riputato
in ogni età il più insigne di tutti gli altri, quando ne' tempi de'
nostri avoli si narra, che simile prerogativa per decreto regio
fosse stata ancora conceduta a Bartolo per la Spagna e per la
Lusitania, se dobbiamo prestar fede a Gio. Batista de Gazalupis,
che lo rapporta[485]. Maggiore fu quella di S. Gio. Crisostomo
nell'interpretazione delle Scritture Sacre; giacchè nella Chiesa
orientale fu per invecchiata consuetudine introdotto, che la di lui
interpretazione dovesse preporsi a quanto mai dagli altri Padri della
Chiesa si fosse variamente esposto: siccome nell'occidentale di gran
peso furono anche le sue interpretazioni; di che ben chiari testimoni
posson essere a noi Girolamo, ed Agostino. Di vantaggio stabilì
Valentiniano, che se in tutto, e d'autorità, e di numero fossero pari
le sentenze allegate, in questo caso al prudente arbitrio del Giudice
il tutto si rimettesse, il quale fra se medesimo con giusta bilancia
pesando l'opinioni, a quelle dovesse attenersi, che più giuste, e
all'equità conformi reputasse.
Per ultimo le note di Paolo, e d'Ulpiano fatte al Corpo di Papiniano
lor maestro, rifiutò, e volle che niuna autorità avessero ne' giudicj:
ed in questo altresì fu poi differente il sentimento di Giustiniano,
il quale non affatto le rifiutò, ma molte, e particolarmente quelle di
Paolo, nella compilazione de' Digesti mescolò e ritenne: le Sentenze
di Paolo però, ordinò Valentiniano, che sempre valessero, ed avessero
ogni autorità e vigore. E di questa costituzione di Valentiniano,
e dell'altre simili in questi tempi promulgate, intese Giustiniano,
quando disse, ch'era stato ordinato, che le sentenze de' Giureconsulti
avessero tanta autorità, sicchè non fosse lecito a' Giudici
allontanarsi da' loro responsi, siccome fu anche da noi avvertito nel
primo libro di questa Istoria.
Tale fu la providenza di Valentiniano III acciocchè nel Foro si
togliessero que' perpetui disordini, e quelle confusioni, che recava
la poca notizia delle costituzioni de' Principi, e de' libri de'
Giureconsulti: onde fu in Occidente restituita la giurisprudenza, nel
miglior modo che fu possibile, a qualche dignità e splendore.

§. I. _Dell'Accademia di Costantinopoli._
Ma maggiori furon gli sforzi di Teodosio il Giovane, per ristorare
la giurisprudenza in Oriente: egli cominciò dodeci anni prima della
fabbrica del suo nuovo Codice a ripararla nell'Accademie. Costantino
il Grande fin dall'anno 332 per fornir la città di Costantinopoli di
tutto ciò che mai fosse di rado ed eccellente, e per renderla in tutto
emula di Roma, aveva posta ogni sua cura e diligenza, ad invitare in
quella molti Professori di lettere. Costanzo suo figliuolo verso l'anno
354 l'adornò d'una famosa Biblioteca, onde Temistio perciò il cumulò di
tante lodi. Valente nell'anno 372 l'accrebbe grandissimamente, tanto
che volle, che alla conservazione della medesima vi fossero sette
Antiquarj, quattro greci e tre latini, i quali badassero a comporre
i Codici, ed a riparar quelli dal tempo consumati, ed altri Ministri
destinò, perchè ne avessero cura e pensiero. Niuno però infino a' tempi
di Teodosio il Giovane, pensò a stabilire in questa città un'Accademia,
che potesse pareggiar quella di Roma. Teodosio adunque fu colui, che
nell'anno 425 pensò di stabilirla: il suo luogo fu il Campidoglio
nella regione VIII lontana dal mare, e mediterranea, ricca di molti
portici costrutti a questo fine, e fu perciò chiamata _Capitolii
Auditorium_. Acciocchè abbondasse di Professori, e di Scolari, e
ritenesse quella dignità e grandezza, ch'egli intendeva di dargli,
stabilì, che i Professori non potessero insegnar la gioventù fuori
di questo Auditorio nelle private _celle_, come prima soleva farsi in
Roma. Assegnò a quest'Accademia molti Professori secondo la facultà,
che dovevan appararsi; e tutti arrivavan al numero di trent'uno. Tre
Oratori per la romana eloquenza, e diece Gramatici. Per l'eloquenza
greca stabilì cinque Sofisti, e parimente diece Gramatici: onde
vent'otto eran coloro, parte Gramatici, parte Oratori e Sofisti, perchè
di queste facultà istruissero la gioventù. Per coloro poi, che a più
profonde scienze volevan impiegarsi, ne stabilì tre solamente, uno per
la filosofia, e per la giurisprudenza due, i quali in essa insegnassero
le leggi civili[486]. A' tempi dello stesso Teodosio vi spiegò le leggi
Leonzio famoso Giureconsulto, che tra' Legisti fu il primo ad aver
l'onore e 'l grado di Conte Palatino: nè mancaron da poi altri celebri
Professori, che la renderon chiara ed illustre. A' tempi di Giustiniano
professaron quivi giurisprudenza Teotilo, e Cratino, que' medesimi, che
chiamati da lui intervennero alla fabbrica dei Digesti[487].
Nè fu minore in quest'Accademia il concorso dei giovani per apprender
legge civile, di quello, che nell'Occidente teneva Roma, e Berito
nell'Oriente. E maggiore eziandio si vide, quando da Giustiniano
fu vietato all'altre Accademie, come a quella d'Alessandria e di
Cesarea, d'esplicar le leggi, non concedendo licenza ad altre, fuorchè
nell'Oriente, a quella di Berito, ed a questa di Costantinopoli, e
nell'Occidente a quella di Roma.


CAPITOLO VII.
_Delle costituzioni de' Principi, onde formossi il Codice Teodosiano._

Non bastò a Teodosio d'aver in cotal guisa dato riparo alla cadente
giurisprudenza, e d'averla in cotal modo restituita nell'Accademie:
erano ancora pochi coloro, come dice l'istesso Teodosio[488], _qui
juris civilis scientia ditarentur, et soliditatem verae doctrinae
receperint_. L'immensa copia de' libri[489], la gran mole delle tante
costituzioni imperiali fra se discordanti, tenevagli ancor'in una
profonda oscurità e densa caligine. A toglier queste tenebre volse
finalmente Teodosio l'animo suo, onde alla fabbrica d'un nuovo Codice
tutto inteso, rifiutate le tante efimere costituzioni de' Principi
dettate secondo l'occasion de' tempi, e le molte inutili e fra di lor
contrarie, raccolse in un volume solamente quelle, che credè bastare
a quanto mai potesse occorrere ne' Tribunali per la decisione delle
cause.
Adunque nell'anno 438, come ben pruova l'avvedutissimo Gotofredo, non
già nell'anno 435 come stimò Cironio, e credettero altri, ingannati
dalla erronea soscrizione della Novella di Teodosio[490], fu tal
Codice da questo Principe compilato e pubblicato: alla fabbrica
del quale elesse otto insigni e nobili Giureconsulti, e come e' ci
testifica, di conosciuta fede, di famosa dottrina, e tale in somma
da potersi paragonare agli antichi. Il primo, che vi ebbe la maggior
parte, fu Antioco, già Prefetto P. ed Ex-Console, di cui s'incontrano
sovente presso a Marcellino, Suida, e Teodoreto onorate memorie. Fuvvi
Massimino, _vir Illustris_, come lo chiama Teodosio istesso[491],
_Exquaestor nostri Palatii, eminens omni genere literarum_. Fuvvi
Martirio, _vir Illustris, Comes, et Quaestor nostrae Clementiae
fide interpres_. Furonvi Speranzio, Apollodoro, e Teodoro, _viri
spectabiles, Comites sacri nostri Consistorii_. Fuvvi Epigenio, _vir
spectabilis, Comes, et Magister memoriae_; e per ultimo Procopio,
_vir spectabilis, Comes ex magistro libellorum, jure omnibus veteribus
comparandi_: tutti delle più sublimi dignità fregiati, e della dottrina
legale espertissimi.
L'impiego a lor dato in quest'opera fu di raccoglier le costituzioni
di molti Principi, che stavano nascose ed in tenebre sepolte, ed in un
corpo unirle: quelle poi raccolte, emendarle, e dalle molte brutture
ed errori purgarle: per ultimo colla maggior brevità in compendio
raccorciarle.
Era senza alcun dubbio assai grande la selva delle costituzioni degli
Imperadori cristiani, che da Costantino M. infine a questi tempi
s'erano nell'uno, e nell'altro Imperio diffuse e sparse; onde non
bisognò meno a questi Compilatori, che il numero di sedici libri, ne'
quali ancorchè accorciate, potessero accorle ed unirle. Imperciocchè
se si riguarda il tempo, che si framezza, non è meno di cento ventisei
anni, cioè dagli anni di Costantino 312 infino a questo anno 438; se
gl'Imperadori, le cui costituzioni in questo Codice si raccolsero, il
lor numero non è minore di sedici: Costantino M: tre suoi figliuoli
Costantino, Costanzo e Costante: Giuliano, Gioviano, Valentiniano,
Valente, Graziano, Valentiniano il Giovane, Teodosio M., Arcadio,
Onorio, Teodosio il Giovane, Costanzo e Valentiniano III; se le varie
sorte delle costituzioni, in esso s'incontrano non pur gli editti,
ma eziandio i varj rescritti, le molt'epistole a' Magistrati dirette:
l'orazioni al Senato, le prammatiche, gli atti, ed i decreti fatti nel
Concistoro de' Principi, e finalmente i molti lor mandati a' Rettori
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