Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 02

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Reame, che certamente non avremmo occasione di dolerci oggi di tal
mancanza. Poichè qual cosa non ci avremmo potuto promettere dalla forza
del suo divino ingegno, dalla gran perizia delle leggi, dell'Istoria, e
dell'erudizione; da quella maravigliosa eloquenza, e dall'infaticabile
applicazione ed esatta sua diligenza? Nè minori prerogative, a mio
credere, si ricercano per riducere una tal impresa al suo compiuto
fine, le quali, se disgiunte pur con maraviglia osserviamo in molti,
tutte congiunte in lui solo s'ammiravano.
Grave dunque, e per avventura superiore alle mie poche forze, sarà
il peso, ond'io ho voluto caricarmi: e tanto più grave, ch'avendo
riputato, che non ben sarebbe trattata l'Istoria legale, senza
accoppiarvi insieme l'Istoria civile, ho voluto congiungere in uno la
politia di questo Reame con le sue leggi, l'Istoria delle quali non
avrebbe potuto esattamente intendersi, se insieme, onde sursero, e qual
disposizione e forma avessero queste province, che con quelle eran
governate, non si mostrasse. E quindi è avvenuto, che attribuendosi
il lor cambiamento a' regolamenti dello Stato ecclesiastico, che poi
leggi canoniche furono appellate, siasi veduta avvolgersi questa mia
fatica in più alte imprese, ed in più viluppi essermi intrigato, da
non poter così speditamente sciormene: perciò fui più volte tentato
d'abbandonarla, imperocchè, pensando tra me medesimo alla malagevolezza
dell'impresa, a' romori del Foro, che me ne distoglievano, e molto
più conoscendo la debolezza delle mie forze, ebbi credenza, che non
solamente ogni mio sforzo vano sarebbe per riuscire, ma che ancora
di soverchia audacia potrebbe essere incolpato; onde talora fu, che,
atterrito da tante difficoltà, rimossi dall'animo mio ogni pensiero
di proseguirla, riserbando a tempo migliore, ed a maggior ozio queste
cure.
S'aggiungeva ancora, che fin dalla mia giovanezza aveva io inteso, che
il _P. Partenio Giannettasio_ nelle solitudini di Surrento, sciolto
da tutte le cure mondane, con grandi aiuti, e grandi apparati, erasi
accinto a scrivere l'Istoria Napoletana, e se ben mio intendimento
fosse dal suo tutto differente, nientedimeno dovendoci amendue,
avvegnachè con fine diverso, raggirare intorno ad un medesimo soggetto,
e ch'egli spiando più dentro, mi potesse toglier la novità di molte
cose, ch'io aveva notate, ed altre forse meglio esaminarle, che non
poteva io, a cui e tanti aiuti, e tant'ozio mancava, fui più volte in
pensiero d'abbandonar l'impresa.
Ma per conforto, che me ne davano alcuni elevati spiriti, non
tralasciai intanto di proseguire il lavoro, con intendimento, che per
me solo avesse avuto a servire, e per coloro, che se ne mostravan
vaghi; fra' quali non mancò chi, oltre d'approvare il fatto, e di
spingermi al proseguimento con acuti stimoli, di soverchia viltà
accagionandomi, più audace perciò mi rendesse. Considerava ancora, che
queste fatiche, quali elle si fossero, non doveano esporsi agli occhi
di tutti: esse non dovean trapassare i confini di questo Reame; poichè
a' curiosi solamente delle nostre cose erano indirizzate; e che se mai
dovessero apportar qualche utilità, a noi medesimi fossero per recarla,
e spezialmente, a coloro, che ne' Magistrati, e nell'Avvocazione
sono impiegati, l'umanità de' quali essendo a me per lunga sperienza
manifesta, m'assicurava, non dover essere questo mio sforzo riputato
per audace, e che appo loro qualunque difetto avrebbe trovato più
volentieri scusa e compatimento, che biasimo o disprezzo.
Ma mentre io così spinto per tanti stimoli proseguiva l'impresa, ecco,
ch'appena giunto al decimo libro di quest'opera, si vide uscire alla
luce del Mondo nell'anno 1713. la cotanto aspettata Istoria Napoletana,
dettata in idioma latino da quel celebre letterato. Fu immantinente
da me letta, e contro ad ogni mia espettazione, non si può esprimere,
quanto mi rendesse più animoso al proseguimento; poichè conobbi,
altro quasi non essere stato l'intendimento di quel valentuomo, che in
grazia di coloro, che non hanno della nostra italiana favella perfetta
contezza, trasportare in buon latino l'Istoria del _Summonte_.
Essendomi pertanto liberato da questo timore, posso ora imprometter
con franchezza a coloro, che vorranno sostenere il travaglio di legger
quest'Istoria, d'offerirne loro una tutta nuova, e da altri non ancor
tentata.
Mi sono studiato in oltre, tutte quelle cose, che da me si narrano,
di fortificarle coll'autorità d'uomini degnissimi di fede, e che
furono, o contemporanei a' successi, che si scrivono, o i più diligenti
investigatori delle nostre memorie. Il mio stile sarà tutto schietto
e semplicissimo, avendo voluto, che le mie forze, come poche e
deboli, s'impiegassero tutte nelle cose, più che nelle parole, con
indirizzarle alla sola traccia della verità; ed ho voluto ancora, che
la sua chiarezza dipendesse assai più da un diritto congiungimento de'
successi colle loro cagioni, che dalla locuzione, o dalla commessura
delle parole. Non ho voluto nemmeno arrogarmi tanto d'autorità, che si
dovesse credere alla sola mia narrazione; ho perciò procurato additar
gli Autori nel margine, i più contemporanei agli avvenimenti, che si
narrano, o almeno de' più esatti, e diligenti; e tutto ciò, che non
s'appoggiava a documenti legittimi, o come favoloso l'ho ricusato, o
come incerto l'ho tralasciato.
Io non son cotanto ignaro delle leggi dell'istoria, che non m'avvegga,
alcune volte non averle molto attentamente osservate; e che forse
l'aver voluto con troppa diligenza andar ricercando molte minuzie,
abbia talor potuto scemarle la dignità; e che sovente, tirando le
cose da' più remoti principj, siami soverchio dilungato dall'istituto
dell'opera. Ma so ancora, che non ogni materia può adattarsi alle
medesime forme, e che il mio suggello, raggirandosi intorno alla
politia e stato civile di questo Reame, ed intorno alle sue leggi,
siccome la materia era tutt'altra, così ancora doveasi a quella
adattare altra forma; e pretendendo io, che qualche utilità debba
ricavarsene, anche per le cose nostre del Foro, non mi s'imputerà a
vizio, se discendendo a cose più minute, venga forse in alcuna parte a
scemarsene la gravità, perchè finalmente non dovranno senza qualche lor
frutto leggerla i nostri Professori, a' quali per la sua maggior parte,
e massimamente in ciò, che s'attiene all'Istoria legale, è indirizzata;
anzi alcune cose avrebbero per avventura richiesto più pesato e sottile
esaminamento; ma non potendomi molto giovar del tempo, sarebbe stato
lo stesso, che non venirne mai a capo. E l'essermi io talora dilungato
ne' principj delle cose, fu perchè non altronde poteano con maggior
chiarezza congiungersi gli avvenimenti alle cagioni; il che, oltre alla
notizia, mena seco anche la chiarezza, come si scorgerà nel corso di
quest'Istoria.
Ma sopra quali più stabili fondamenti potea io appoggiar l'Istoria
civile del nostro Reame, se non cominciando da' Romani, de' quali fu
propria, per così dire, l'arte del Governo, e delle leggi; quando
queste istesse nostre province ebbero la sorte d'esser per lungo
tempo da essi signoreggiate? Per questo fine nel primo libro, anzi
che si faccia passaggio a' tempi di _Costantino Magno_, che sarà
il principio della nostra Istoria, si darà, come per _Apparato_, un
saggio della forma e disposizione dell'Imperio romano, e delle sue
leggi: dei favori de' Principi, onde furon quelle sublimate: della
prudenza delle loro costituzioni: della sapienza de' Giureconsulti;
e delle due celebri Accademie del Mondo, una di Roma in occidente,
l'altra di Berito in oriente; poichè conoscendosi in brieve lo stato
florido, in cui eran queste nostre province, così in riguardo di ciò,
che s'attiene alla loro politia, come per le leggi, ne' tempi, ch'a
Costantino precederono, con maggior chiarezza potranno indi ravvisarsi
il dichinamento, e le tante rivolte e mutazioni del loro stato civile,
che seguiron da poi, che a questo Principe piacque di trasferire la
sede dell'Imperio in Costantinopoli, e d'uno, ch'egli era, far due
Imperi.


STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO PRIMO

Quest'ampia e possente parte d'Italia, che Regno di Napoli oggi
s'appella, il qual circondato dall'uno e dall'altro mare, superiore
ed inferiore, non ha altro confine mediterraneo, che lo Stato della
chiesa di Roma, quando per le vittoriose armi del Popolo romano fu
avventurosamente aggiunta al suo Imperio, ebbe forma di governo pur
troppo diversa da quella, che sortì da poi ne' tempi degli stessi
romani Imperadori. Nuova politia sperimentò quando sotto la dominazione
de' Re d'Italia pervenne. Altri cambiamenti vide sotto gl'Imperadori
d'oriente. E vie più strane alterazioni sofferse, quando per varj casi
trapassata di gente in gente, finalmente sotto l'Augustissima Famiglia
Austriaca pervenne.
Non fu ne' tempi dalla libera Repubblica divisa in _province_, come
ebbe da poi; nè comunemente altre leggi conobbe se non le romane. I
varj Popoli che in lei abitarono presero insieme, o diedero il nome
alle tante _regioni_, ond'ella fu divisa; e le città di ciascuna
regione, secondo che serbarono amicizia, e fedeltà al P. R. quelle
condizioni o dure, o piacevoli ricevettero, che s'aveano meritate.
Nè bisogna cercare miglior forma di governo di quella, che in cotai
primi tempi v'introdussero i providi Romani, appo i quali l'arte del
governare fu così lor propria, che per quella sopra tutte l'altre
Nazioni del Mondo si distinsero. Testimonio è a noi l'incomparabile
Virgilio[15], il quale dopo aver date a ciascuna Nazione le lodi
per quelle arti, onde sopra tutt'altre preson grido, del solo Popolo
romano cantò, esser stata di lui propria l'arte del governare, e del
ben reggere i Popoli. Per questa, non già per quella del conquistare
si rendè quest'inclita gente sopra tutt'altre sublime; imperocchè se
si vuole por mente alla grandezza del suo Imperio, posson ancora gli
Assiri in alcun modo vantarsi del loro per Nino acquistato; i Medi,
ed i Persi di quello per Ciro; ed i Greci dell'altro per Alessandro
Magno fondato. Gli acquisti de' Turchi non furono inferiori a quelli
de' Romani, e sotto i famosi Imperadori Maometto II. e Solimano,
il loro imperio non fu a quello minore[16]; ed anche gli Spagnuoli
con maggior ragione potranno opporgli quello de' Serenissimi Re di
Spagna; maggiore, se si riguarda l'ampiezza de' confini, di quanti
ne vide il Mondo giammai[17]. E quantunque la prudenza de' consigli,
l'intrepidezza de' loro animi, la felicità, e le molte virtù, onde
tutte le loro imprese erano ricolme, fossero state eccellenti, ed
incomparabili; nulla di manco il giudizio del Mondo, e de' più gravi
Scrittori[18], che riputarono quasi tutte le loro spedizioni ingiuste,
e le loro armi sovente senza ragionevol cagione mosse e sostenute,
venne a' medesimi, e alla lor gloria non picciol detrimento a recare.
Solamente in celebrando la sapienza del governo, e la giustizia
delle loro leggi si stancarono le penne più illustri del Mondo, e
per questo unico pregio meritamente sopra tutt'altri ne andarono
gloriosi. Chiarissimo argomento sarà l'essersi veduto, che rovinato
ed estinto già il loro impero, non per questo mancò ne' nuovi dominj
in Europa fondati, la maestà e l'uso di quelle. Nè per altra cagione
è ciò avvenuto, se non perchè le leggi de' Romani con tanta maturità
e sapienza dettate, si diffusero e propagarono per tutte le parti del
Mondo; non tanto per la potenza del loro imperio, nè perchè secondo la
ragion delle genti fu sempremai inalterabil legge di vittoria, che i
vinti passassero ne' costumi, e sotto le leggi de' vincitori, quanto
per l'evidente utilità, che i popoli soggiogati ritraevano dal loro
equabile e giusto governo. Quindi avvenne che le Nazioni più remote e
barbare spontaneamente ricevessero le loro leggi, avendo la giustizia
e prudenza delle medesime per conforto della loro servitù. Così
Cesare mentre trionfa in Eufrate, ed al suo imperio si sottopongono
quelle regioni, vittorioso dava a que' popoli le leggi, ma a' _popoli
volenti_. Nè vi bisognava meno, che la sapienza del lor governo, e
la giustizia di queste leggi per produrre fra tante nazioni diverse
e lontane quella docilità ed umanità di costumi, che Libanio[19]
esagerava a coloro, che viveano secondo gl'istituti e leggi romane;
e quella concordia, e quel nodo d'una perfetta società civile, che
ci descrive Prudenzio[20] fra coloro, che sotto il giogo di quelle
usavano. Anzi non sono mancati Scrittori[21] gravissimi, fra' quali non
è da tacere l'incomparabile Agostino[22], che credettero per divina
previdenza essersi fatto, che i Romani signoreggiassero il Mondo,
affinchè per lo loro governo ricolmo di sapienza e di giustizia, i
costumi e la fierezza di tante Nazioni si rendessero più trattabili
e mansueti; perchè con ciò il genere umano si disponesse con maggior
facilità a ricevere quella religione, la qual finalmente dovea
abbattere il gentilesimo, e stabilita in più saldi fondamenti dovesse
illuminar la terra, e ridurla ad una vera credenza, laonde in premio
della loro giustizia fosse stato a loro conceduto l'imperio del Mondo.
Gl'Impp. Diocleziano e Massimiano in un loro Editto, che si legge nel
Codice Gregoriano, ci lasciarono delle leggi romane questo gravissimo
encomio: _Nihil nisi sanctum, ac venerabile nostra Jura custodiunt: et
ita ad tantam magnitudinem Romana majestas cunctorum Numinum favore
pervenit: quoniam omnes suas leges religione sapienti, pudorisque
observatione devinxit_[23]. Per questa cagione avvenne che le Nazioni
d'Europa, non come leggi d'un sol Popolo, ma come le leggi universali
e comuni di tutte le genti le riputassero, e che i Principi e le
Repubbliche si studiassero comporre i loro Stati alla forma di quelle,
in guisa che oggi pare, che l'orbe cristiano si regga e si governi
alla lor norma, ond'è che nell'Accademie ben istituite pubblicamente
s'insegnino, e s'apparino a questo fine.
Ben egli è vero, che a chiunque riguarda la felicità dell'armi del
P. R. parrà cosa stupenda, come in così breve tempo avesse potuto
stendere il suo imperio sopra tante province, e sì lontane. Nè potrà
senza sorprendersi, sentire, come nella sua infanzia, quasi lottando
co' vicini, tosto gli vincesse; che soggiogata indi a poco l'Italia,
adulto appena, stendesse le sue braccia in più remoti paesi. Prendesse
la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e s'inoltrasse poi nell'ampie
regioni della Spagna; e renduto già virile e possente, soggiogasse da
poi la Macedonia, la Grecia, la Siria, la Gallia, l'Asia, l'Africa, la
Bretagna, l'Egitto, la Dacia, l'Armenia, l'Arabia, e l'ultime province
dell'oriente; tanto che alla perfine oppresso dal grave peso di
tanta, e sì sterminata mole, bisognò che cedesse sotto il suo incarico
medesimo.
Ma forse cosa più ammirabile e degna di maggior commendazione dovrebbe
sembrare l'istituto e la moderazione, che praticò colle genti vinte e
debellate. E non seguendo l'esempio degli Ateniesi, e de' Lacedemoni,
da' quali tutte come straniere venivan trattate prendendo di loro
troppo aspro governo: quelle condizioni, o dure o piacevoli lor
concedeva, che s'avesse meritato, o la loro fedeltà ed amicizia,
ovvero l'ostinazione e protervia. Alcuni Popoli, dice Flacco[24],
pertinacemente contra i Romani guerreggiarono. Altri conosciuta
la virtù loro serbaron a' medesimi una costante pace. Alcuni altri
sperimentando la loro fedeltà e giustizia, spontaneamente a color si
rendettono ed unirono, e frequentemente portaron le armi contra loro
nemici; onde era di dovere, che secondo il merito di ciascuna Nazione
ricevessero le leggi e le condizioni; imperciocchè non sarebbe stata
cosa giusta, che con eguali condizioni s'avessero avuto a trattare
i Popoli fedeli, e coloro che tante volte violando la fede ed i
giuramenti dati, ruppero la pace, e portarono guerra a' Romani. Per
questa cagione fu da essi con diverse condizioni governata l'Italia
dall'altre province dell'Imperio. Quindi avvenne, che nelle città
istesse d'Italia fossero stati introdotti que' varj gradi, e quelle
varie ragioni di cittadinanza Romana, di Municipj, di Colonie, di
Latinità, di Prefetture, e di Cittadi Federate; e quindi avvenne
ancora, che rendutisi Signori di tante, e sì remote province, con
prudente consiglio si fosse istituito, che altre fossero Vettigali,
altre Stipendiarie, o Tributarie: altre Proconsolari, ed altre
Presidiali.


CAPITOLO I.
_Delle Condizioni delle città d'Italia._

I Romani avendo cacciati i loro Re, si vollero esentare affatto dalla
signoria pubblica, per godere di una perfetta ed intera libertà,
così per le loro persone, come per le loro facoltà. In quanto alle
persone, essi non dipendevano da alcun Re, o Monarca: siccome non
vollero dipendere da alcun Magistrato per diritto di signoria, per
cui potessero essere chiamati sudditi, ch'è quel, che chiamavano _Jus
libertatis_, il qual era uno de' diritti e privilegi de' cittadini
romani. Nè tampoco vollero astringersi affatto alla potenza pubblica
de' Magistrati, avendole tolto la facoltà di condannare a morte,
e di far battere alcun cittadino romano. Ed egli è da credere, che
sarebbonsi eziandio astenuti di Magistrati, se avessero potuto trovare
altra forma di governarsi: cotanto odiavano la Signoria pubblica, a
cagion della tirannia d'alcuni de' loro Re, i quali se n'erano abusati.
Era ancora diritto de' cittadini romani l'esser annoverati nelle Tribù,
e nelle Centurie da' Censori: dare i suffragi: poter esser assunti
a' primi onori e supremi Magistrati: esser soli ammessi nelle legioni
romane, e partecipi de' beneficj militari, e del pubblico erario: goder
soli della potestà patria verso i figliuoli[25], delle ragioni della
gentilità, dell'adozioni, della toga, del commercio, de' connubj, e
degli altri privilegi spiegati dottamente dal Sigonio[26].
In quanto alle facoltà, vollero ancora i Romani, che i loro retaggi
fossero interamente liberi, cioè a dire, esenti dalla pubblica
signoria, e che appartenessero ai proprietari di quelli _Optimo Jure_,
ovvero, com'essi dicevano, _Jure quiritium_. Ciò che spinse Bodino[27]
a dire, che la signoria pubblica sia una invenzione di popoli barbari,
e che i Romani non la riconoscevano, nè sopra le persone, nè sopra i
beni; la qual cosa è ben vera per le persone de' cittadini romani, e
di coloro, che per privilegio eran tali divenuti; ed intorno a' beni,
per le terre d'Italia: ma egli è facilissimo avvisare, che essi la
riconoscevano a rispetto di coloro, che non erano cittadini romani,
e che per conseguenza non avevano quel diritto di libertà, ch'era lor
proprio: e sopra i retaggi situati fuori d'Italia, ben la riconobbero,
come si vedrà quinci a poco, non essendo a' provinciali per le loro
robe conceduto quel _Jus Quiritium_, che si conosceva per quell'antica
loro divisione _rerum mancipi et nec mancipi_.
Questi erano i più ragguardevoli privilegi de' cittadini romani, cioè
di coloro che in Roma, o ne' luoghi a se vicini ebbero la fortuna di
nascere: e secondo, che alcuni di essi erano conceduti per ispezial
grazia, e favore agli altri luoghi d'Italia, vennero quindi a formarsi
quelle varie condizioni di Municipj, di Colonie, di Città federate e di
Prefetture.
La condizione de' _Municipj_ era la più piacevole ed onorata, che
potesse alcuna città d'Italia avere, particolarmente quando era a'
medesimi conceduto anche il privilegio de' suffragi; nel qual caso,
toltone l'ascrizione alle Curie romane, ch'era propria de' cittadini
di Roma, i quali in essa dimoravano, i Municipj poco differivano da'
cittadini romani stessi; ed eran chiamati _Municipes cum suffragio_
per distinguergli da coloro, a' quali tal privilegio non era conceduto,
detti perciò _Municipes sine suffragio_. Era ancora lor permesso creare
i Magistrati, e di ritener le leggi proprie a differenza de' Coloni,
che non potevan aver altre leggi, che quelle de' Romani. E quindi
deriva, che infino a' nostri tempi, le leggi particolari d'un luogo o
d'una città, le appelliamo leggi municipali; la quale prerogativa, o
permettendo o dissimulando il Principe, veggiamo anche oggi, che molte
città di queste nostre province la ritengono[28].
A' Municipj seguivano nell'onore le _Colonie_. Non possono gli
Scrittori d'ogni età abbastanza lodar l'istituto di Romolo, così
frequentemente da poi praticato da' Romani, di mandare nelle regioni
vinte o vote, nuovi abitatori, che chiamarono Colonie. Da questo
meraviglioso istituto ne derivavano più comodi: alla città di Roma, la
quale oppressa dalla moltitudine de' cittadini per lo più impotenti
e gravosi, veniva perciò a sgravarsene: a' cittadini medesimi, i
quali, con assegnarsi loro in quelle regioni i campi, venivano ad aver
conforto e comodità di vivere: agli stessi Popoli soggiogati, perchè
erano i loro paesi più frequentati, i campi meglio coltivati, ed il
tutto riducevasi a più grata forma di vivere, onde acquistavan essi
ancora costumi più politici e civili: e per ultimo, allo stesso romano
Imperio; poichè oltre all'esser cotal ordinamento cagione, che nuove
terre, e città s'edificassero, rendeva il paese vinto al vincitor
più sicuro, e riempieva d'abitatori i luoghi voti, e manteneva nelle
regioni gli uomini ben distribuiti: di che nasceva, che abitandosi
in una regione più comodamente, gli uomini più vi moltiplicavano, ed
erano all'offese più pronti, e nelle difese più sicuri, perchè quella
Colonia, la qual è posta da un Principe in paese nuovamente occupato,
è come una rocca, ed una guardia a tener gli altri in fede. Per queste
cagioni le Colonie, come quelle, che in tutto derivavano dalla città
di Roma, a differenza de' Municipj, (che per se soli si sostenevano,
appoggiati a' propri Magistrati, ed alle proprie leggi) niente di
proprio aveano, ma dovevan in tutto seguire le leggi e gl'instituti del
P. R. La qual condizione, ancor che meno libera apparisse, nulladimeno
era più desiderabile ed eccellente per la maestà e grandezza della
città di Roma, di cui queste Colonie eran piccioli simulacri ed
immagini. E col sottoporsi alle leggi del P. R. per la loro eccellenza
ed utilità, era più tosto acquistar libertà, che servitù. Oltre che le
leggi particolari e proprie de' Municipj, come rapporta Agellio[29],
eran così oscure e cancellate, che per l'ignoranza delle medesime, non
potevano nè anche porsi in usanza. Ma l'amministrazione ed il governo
delle Colonie non d'altra guisa era disposto, se non come quello della
città stessa di Roma; imperocchè siccome in Roma eravi il Popolo ed il
Senato, così nelle Colonie la Plebe ed i Decurioni: costor l'immagine
rappresentando del Senato, colei del Popolo. Da' Decurioni ogn'anno
eleggevansi due o quattro, secondo la grandezza o picciolezza della
Colonia, appellati _Duumviri_ o _Quatuorviri_, che avevan somiglianza
co' Consoli romani. Vi si creava l'Edile, il qual dell'annona, de'
pubblici edificj, delle strade, e delle simiglianti cose teneva
cura: il Questore, cui davasi in guardia il pubblico Erario, ed altri
Magistrati minori a somiglianza di Roma. In breve vivevasi in tutto co'
costumi, colle leggi e cogli istituti de' Romani stessi: ed ai nuovi
abitatori pareva, come se vivessero nella città stessa di Roma. Augusto
fu che, avendo in Italia accresciute ventiotto altre Colonie, stabilì
che queste non avessero facoltà indipendente d'eleggere dal loro corpo
i Magistrati, ma lor concedette solamente, che i Decurioni dassero essi
i suffragi di que' Magistrati che volevano, i quali suffragi dovessero
mandar chiusi e suggellati in Roma, dove doveano crearsi[30].
Oltre a Municipj e alle Colonie furon ancora, prima della guerra
italica, altre cittadi in Italia, che tenevano condizioni assai più
onorate e libere. Queste erano le _città federate_, le quali toltone
qualche tributo, che pagavan a' Romani per la lega e confederazione con
essi pattuita, nell'altre cose erano riputate in tutto libere. Avevano
la lor propria forma di Repubblica, vivevano colle leggi loro, creavano
esse i Magistrati, e spesso ancora s'avvalevan de' nomi di Senato e di
Popolo. Così appresso Livio leggiamo, che Capua ne' primi tempi, quando
era Città Federata, non peranche ridotta in Prefettura, si governava
in forma di Repubblica, avendo Magistrati, Senato e Popolo, e proprie
leggi. De' Tarentini ancor si legge, che se bene vinti, furono da'
Romani lasciati nella loro libertà: de' Napolitani, de' Prenestini[31],
di que' di Tivoli, e d'altri Popoli, essere il medesimo accaduto, ben
ce n'accerta Polibio[32], le città de' quali eran così libere, ch'era
permesso a' condennati in esilio, di farvi dimora, e soddisfar così
all'imposta pena.
Sieguono nell'ultimo luogo le _Prefetture_. Non v'ha dubbio alcuno, che
fra tutte le città d'Italia, quelle ridotte in forma di Prefettura,
sortissero una condizione durissima; poichè quelle città che ingrate
e sconoscenti al P. R. la fede datagli violavano, ridotte di nuovo in
sua podestà, non altra condizione ricevevano, che di Prefettura; laonde
siccome alle province ogni anno da Roma solean mandarsi i Pretori, così
in queste città mandavansi i Prefetti, all'amministrazione e governo
de' quali eran commesse; e perciò vennero chiamate Prefetture. Coloro,
che in esse abitavano, non potevan usare, o le proprie leggi ritenere
come i Municipj, nè dal loro corpo creare i Magistrati, come i Coloni:
ma da' Magistrati di Roma venuti, eran essi retti, e con quelle leggi
vivevano che a coloro d'imporre piaceva. Di questa condizione fu già
un tempo Capua, cioè dopo la seconda guerra di Cartagine, ed avantichè
da Cesare fosse stata mutata in forma di Colonia. Le Prefetture
ancora eran di due sorti. Dieci città, tutte poste in questo Reame,
eran governate da dieci Prefetti, che dal Popolo romano si creavano
e si mandavan al governo delle medesime. Queste furono Capua, Cuma,
Casilino[33], Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessula[34],
Atella e Calatia[35]. All'altre soleva il Pretor Urbano ogni anno
mandare i Prefetti per reggerle, e queste erano Fondi, Formia[36],
Ceri, Venafro, Alife, Piperno, Anagni, Frusilone, Rieti, Saturnia,
Nursia ed Arpino.
Fu tempo, che il numero delle città federate in Italia era maggiore
delle Colonie, de' Municipj e delle Prefetture: ma da poi si videro
varie mutazioni, passando l'una Città nella condizione dell'altra, e
questa in quella. Così Capua da Città Federata passò in Prefettura,
indi nel Consolato di C. Cesare in Colonia: Cuma, Acerra, Suessula,
Atella, Formia, Piperno ed Anagni prima Municipj, indi Colonie, e
talora anche Prefetture. Fondi, Ceri ed Arpino in alcun tempo furono
Municipj: Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli e Saturnia, Colonie:
e Calatia, Venafro, Alife, Frusilone, Rieti e Nursia, mentre durò la
libertà del P. R. furono sempre Prefetture.
Ma non dobbiamo tralasciar di notare, che questi varj gradi, e varie
condizioni delle città d'Italia ebbero tutta la lor fermezza, mentre
durò la libertà del P. R. poichè dopo, tralasciando che Augusto privò
della libertà molte Città Federate, le quali licenziosamente troppo
di quella abusavano[37]: essendosi per la legge Giulia adeguati i
suffragi di tutti, e conceduta parimente la cittadinanza a tutta
l'Italia, siccome da poi da Antonino Pio fu conceduta alle province: le
ragioni de' Municipj, delle Colonie e delle Prefetture furono abolite,
e cominciarono questi nomi a confondersi, in guisa che alle volte la
Colonia veniva presa per Municipio, il Municipio per Colonia, ed anche
per Prefettura: onde dopo la legge Giulia tutte le città d'Italia, alle
quali fu conceduto il Jus de' suffragi, potevan Municipj nomarsi; e da
poi Antonino Pio fece una la condizione non pur delle città d'Italia,
ma di tutte le genti, e Roma fu comun patria di tutti coloro, che al
suo imperio eran soggetti[38].
Queste furon le varie condizioni delle città d'Italia. Non dissimil
avrem ora da narrar quelle, che il Popolo romano concedette alle
province fuori di quella.


CAPITOLO II.
_Delle Condizioni delle Province dell'Imperio._

Le terre delle province non lasciarono d'esser nella signoria pubblica
dell'Imperio romano, e d'essere tributarie, come prima. I Romani,
avendo nel corso di cinquecento anni soggiogata l'Italia, portando le
vittoriose loro armi fuori di essa, sottoposero al loro imperio molti
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