Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 06

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che volle anche far Giustiniano, quando a queste tre parimente le
restrinse[186].
Fu veramente cosa di somma maraviglia, che fra quelli romani
Imperadori, che ressero l'Imperio fino a Costantino, essendovi stati
alcuni iniqui, crudeli, e più tosto mostri sotto spezie umana, come
Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Caracalla, ed altri; le
loro costituzioni nondimeno ugualmente splendessero di saviezza, di
giustizia e di gravità: tutte sagge, tutte prudenti, eleganti, brevi,
pesanti, e tutto diverse da quelle, che da Costantino, e dagli altri
suoi successori furon da poi promulgate, convenienti più tosto ad
Oratori, che a Principi[187]. Il che non altronde derivò, se non
da quel buon costume, ch'ebbero di valersi nel loro stabilimento
dell'opera di celebri Giureconsulti, senza il consiglio de' quali così
nell'amministrazione della Repubblica, come in tutte l'altre cose più
gravi, niente si facea. Per questa ragione dee presso di noi esser
in maggior pregio il Codice di Giustiniano, che quello di Teodosio;
imperocchè Giustiniano compilò il suo anche delle costituzioni
degl'Imperadori avanti Costantino, ciò che non fece Teodosio, che
solamente volle raccorre quelle de' Principi, che da Costantino
M. infino al suo tempo regnarono. E per questa ragione parimente
osserviamo, che alcune costituzioni, delle quali i Giureconsulti fanno
menzione nelle _Pandette_, si trovano nel Codice di Giustiniano, ma non
già possono leggersi in quello di Teodosio.


CAPITOLO IX.
_De' Codici Papiriano, Gregoriano, ed Ermogeniano._

Le costituzioni di questi Principi, che dopo Augusto, incominciando
da Adriano infino a Costantino M. fiorirono, furono per la somma loro
eccellenza anche raccolte in certi Codici. La prima compilazione,
ancorchè non universale di tutti i Principi, che precedettono, per
quanto n'è stato a noi tramandato, fu quella, che _Papirio Giusto_
fece delle costituzioni di Vero, e d'Antonio; questo celebre G. C. del
quale Giustiniano ce ne lasciò anche memoria nelle _Pandette_, fiorì
ne tempi di Settimio Severo, e le costituzioni di questi due fratelli
compilò; partendole in venti libri[188]. Giacomo Labitto[189] in quella
sua opera ingegnosa, e molto utile, dell'_Indice delle leggi_, fa
un catalogo di tutte le leggi, che da questi venti libri di Papirio
raccolse Triboniano. Nè dopo questa compilazione s'ha memoria, che
se ne fosse fatta altra nei tempi, che seguirono, se non quelle due
di Gregorio e d'Ermogeniano, Giureconsulti, che fiorirono ne' tempi
di Costantino M. e de' suoi figliuoli, e da coloro presero il nome
i due Codici _Gregoriano_, ed _Ermogeniano_. In questi due Codici
furon raccolte le costituzioni di più Principi, cominciando da Adriano
Imperadore fino a' tempi di Costantino: poichè nel Codice Gregoriano si
riferisce una costituzione sotto il Consolato di Diocleziano nell'anno
296, dieci anni prima dell'imperio di Costantino[190]. Questi due
Giureconsulti si proposero l'istessa epoca, e ne' loro Codici amendue
raccolsero le costituzioni indistintamente di quelli Principi, che
da Adriano fino a Costantino M. ressero l'Imperio, come è manifesto
dalle leggi, che in essi si leggono; onde meritamente fu da Giacomo
Gottifredo[191] notato d'error Cujacio, che stimò aversi Gregorio, ed
Ermogeniano proposte epoche diverse, e che ne' loro Codici riferissero
le costituzioni di diversi Principi, non senza distinzione alcuna, come
fecero, ma bensì Gregorio d'alcuni, ed Ermogeniano d'altri.
Credette Giacomo Gottifredo non fuor di ragione, che intanto questi
Giureconsulti avessero cominciata la loro compilazione da Adriano, e
non da Principi predecessori, perchè Adriano fu creduto autore d'una
certa nuova giurisprudenza per quel celebre suo _Editto perpetuo_, che
stabilì, la cui materia ed ordine, servì per cinosura ed archetipo
della giurisprudenza; e che fu il corpo più nobile della legge de'
Romani, e Capo della giurisprudenza, che a noi è oggi rimasa. E forte
indizio n'è, che Ermogeniano[192] istesso ne' libri epitomatici, le
reliquie de' quali pur le dobbiamo a Giustiniano, si propone voler
seguire l'ordine medesimo dell'Editto perpetuo. Fu ancora d'Adriano
singolare e notabile la forma, che diede per l'amministrazione degli
uffici pubblici e palatini, e della milizia parimente, la qual forma
fu costantemente osservata fino a Costantino, il quale cominciò
a variarla, e poi a' tempi di Teodosio il Giovane fu all'intutto
variata e mutata, e prese la giurisprudenza altro aspetto, come si
farà vedere nel corso di quest'istoria. Nè pare inverisimile ciò, che
suspica Gotifredo[193], che questi Codici, quando si pervenne all'età
di Costantino, e de' suoi figliuoli Imperadori cristiani, si fossero
continuati da questi Giureconsulti gentili, per ritenere almeno qualche
aspetto dell'antica giurisprudenza, giacchè per le nuove leggi, le
quali da coloro, e da altri cristiani Imperadori frequentemente si
promulgavano, veniva a cagionarsi in quella notabile mutazione. E che
cotali Giureconsulti de' tempi di Costantino, e dei suoi figliuoli,
fossero pur anche gentili, con assai forti congetture ce n'assicura il
lodato Gotifredo.
Egli è però a noi incerto, se per autorità pubblica, o per privata
fossero stati questi due Codici compilati da Gregorio, e da
Ermogeniano: parendo che un luogo d'Egineta riferito da Gotifredo possa
persuaderne a credere, che fossero stati scritti per privata autorità.
Ma che che sia di ciò, egli è indubitato, che l'autorità di questi
Codici fu grandissima; e furono pubblicamente ricevuti, in maniera che
gli Avvocati, e gli Scrittori di que' tempi, e de' più bassi ancora,
degl'interi loro libri si servirono, quando dovevan allegar qualche
costituzione. Di essi valevasi S. Agostino[194], come è manifesto
nel _lib. 2. ad Pollentium_; ove s'allega del Codice Gregoriano una
costituzione d'Antonino, che fu pretermessa nel Codice di Giustiniano.
De' medesimi ancora si servì l'Autore della collazione delle leggi
Mosaiche colle romane, che secondo Freero[195], e Gotifredo[196]
fiorì nel sesto secolo prima però di Giustiniano, e nell'istessa età
di Cassiodoro: si allega da costui una costituzione di Diocleziano
dal Codice Gregoriano nel _lib. 5. de nuptiis_; parte della quale fu
inserita da Giustiniano nel suo Codice[197]; e dell'istesso Codice
Gregoriano se ne rapporta un'altra, con notarsi ancora il Consolato
di Diocleziano nell'anno 296. Se ne servì parimente l'Autore di
quell'antica consultazione, che serbata dall'ingiuria del tempo ancor
oggi leggiamo per l'industria di Cujacio fra le sue, citandosi del
Codice Ermogeniano la _l. 2. de Calumniatoribus_: se ne valse per
ultimo Triboniano, il quale da questi due Codici, e da quello di
Teodosio compilò il suo per ordine di Giustiniano. E del compendio,
ovvero breviario di essi si servirono dappoi, oltre all'Autore della
suddetta antica consultazione, Papiniano nel libro de' Responsi, ed
altri Scrittori de' tempi più bassi, come a suo luogo dirassi. Di
questi due Codici oggi appena sono a noi rimase alcune reliquie, e
certi frammenti, che dopo lo scempio fattone da Triboniano sono a noi
pervenuti, e che pur le dobbiamo alla diligenza di Cujacio.
Della compilazione del Codice Teodosiano, come quella, che si fece
molti anni da poi ne' tempi di Teodosio il Giovane, avrem occasione
di lungamente ragionare, quando de' fatti illustri di quel Principe ci
toccherà favellare.


CAPITOLO X.
_Delle Accademie._

Non solamente in questi fioritissimi tempi, e specialmente sotto
l'Imperio d'Adriano, per tanti celebri Giureconsulti, e per la sapienza
di questo Principe, per quel suo editto, e per le tante costituzioni
degli altri savissimi Principi, era lo studio della giurisprudenza nel
maggior suo splendore, e nel colmo della sua grandezza, ma lo rendevan
ancor florido e rilevato le due celebri Accademie del Mondo, l'_Ateneo_
di Roma in Occidente, e la _Scuola_ di Berito in Oriente.

I. _Dell'Accademia di ROMA in Occidente_
Prima d'Adriano nell'inclita città di Roma non vi erano pubbliche
Accademie. I Maestri nelle loro private stanze, ch'essi chiamavan
_pergole_, insegnavano alla gioventù[198]; ed i Giureconsulti stessi,
oltre a quelle commendabili loro funzioni d'interpretare, scrivere,
rispondere, consigliare, ed altre rapportate di sopra, avean ancora
per costume nelle lor case insegnare a' giovani la ragion civile;
e Cicerone racconta di se, ch'egli attese a questi studj sotto la
disciplina di Q. Scevola figliuolo di Publio, ancorchè questi, com'e'
dice, _nemini ad docendum se dabat_[199]. Labeone[200] così s'avea
diviso l'anno, che sei mesi era in Roma frequentato da' studiosi, che
andavan da lui ad apprender la legal disciplina, e sei altri mesi si
ritirava in Villa a comporre libri, onde lasciò quattrocento volumi.
Sabino, come anche narra Pomponio[201], poichè non era dei beni di
fortuna abbastanza fornito, sovente da' suoi scolari era sovvenuto:
_huic nec amplae facultates fuerunt: sed plurimum a suis auditoribus
sustentatus est_; e così anche si praticava nell'altre professioni,
siccome per le matematiche n'abbiamo il testimonio di Svetonio[202], e
per la grammatica l'Autore del libro degl'illustri Grammatici.
Adriano fu il primo, che nella regione VIII del Foro romano fondò
l'Ateneo, ove pubblicamente dovessero insegnarsi le discipline, e le
lettere; e quel luogo, ch'è posto alle radici del monte Aventino, ancor
oggi ritiene la memoria delle scuole de' Greci[203], imperocchè in esso
si facea professione non meno della latina, che della greca eloquenza,
e non meno i Retori, e Poeti latini, che i greci vi avevan il loro
luogo. Fanno di questo Ateneo onorata memoria Dione[204], Lampridio,
Capitolino, Gordiano, e Simmaco[205].
Alessandro Severo l'ampliò, e ridusse in forma più nobile. Stabilì il
salario a' Retori, Medici, Grammatici, ed a tutti gli altri Professori.
Instituì gli Auditori pubblici, ed assegnò ancora alcune rendite a'
Studenti, figliuoli di poveri, pur che però fossero ingenui[206].
I Romani di queste genti di lettere non facevan ordine a parte, ma
le lasciavano mescolate nel terzo stato, e non avean tante persone,
quante noi, che prendesser le lettere per professione e vocazione loro
speciale[207]: da poi quelle poche ch'essi n'aveano, le ridussero in
milizie, le quali eran uffici quasi perpetui, di maniera che facevan di
loro più stima, che noi, e di grandissimi privilegi onoravangli, come
si vede nel Codice di Teodosio.
Or per la celebrità di questa famosa Accademia, concorrevano in Roma in
gran numero i giovani da tutte le parti per apprender le buone lettere,
e spezialmente la legal disciplina. Non eran sole queste nostre
province, ch'oggi forman il Regno di Napoli, a mandar lor giovanetti
a studiare in Roma, ma le province più remote e lontane eziandio;
e non pur dalle Gallie, ma dalla Grecia, e dall'Affrica ancora ne
venivano. Nelle nostre Pandette sono ancor rimasi alcuni vestigi, che
n'accertano di quest'usanza di mandarsi in Roma i giovani a studiare:
abbiamo un responso di Scevola, che diede a favor d'un giovane, che
_studiorum causa Romae agebat_, rapportato da Ulpiano[208], il qual
anche parla del viatico solito assegnarsi dai padri a' figliuoli
quando gli mandavan in Roma a studiare: e questo medesimo Giureconsulto
altrove[209] fa anche memoria di quest'usanza di mandare i giovani a
Roma a studiare, della quale ne fa altresì menzione Modestino[210],
ed altri nostri Giureconsulti. E venivano, particolarmente per dare
opera allo studio delle leggi, sin dalla Grecia i giovani in Roma;
onde si rendè celebre anche perciò la sfacciata libidine di Domiziano,
che imprigionò Arca avvenente fanciullo, il qual fin dall'Arcadia era
venuto in Roma per apprender la giurisprudenza, solamente perchè con
rado e memorando esempio non volle acconsentire alle sue impudiche
voglie[211]: di che il giovanetto appresso Filostrato[212] tutto
dolente accagionava suo padre, che potendo farlo instruire delle
greche lettere in Arcadia, l'avea mandato in Roma per apprender le
leggi. I Greci medesimi, che non sogliono esser paghi, se non di loro
stessi, e delle cose proprie, pur furono costretti confessare, che
dalle leggi romane solamente potevasi apprender una giusta e diritta
norma di costumi; onde Dione Crisostomo[213] orando presso a' Corinti,
e volendo persuader loro, ch'egli essendo dimorato per lungo tempo in
Roma appresso l'Imperador Trajano, avea sempre onestamente vivuto, di
quest'argomento si valse: ch'egli stando in Roma, era stato in mezzo
alle leggi, non potendo traviare, chi fra quelle conversava. Ne vennero
anche dall'Affrica, come nei tempi più bassi testimonia d'Alipio
l'incomparabil Agostino[214], del quale narra, che _Romam processerat,
ut jus disceret_. Dalla Gallia, e dall'altre province occidentali in
questi medesimi tempi men a noi lontani era frequente il concorso
de' giovani in Roma per lo studio delle leggi. Di Germano Vescovo
altissiodorense n'è testimone Errico altissiodorense in que' suoi
versi[215]. E Costanzo[216] nella di lui vita pur dice: _Post Auditoria
Gallicana, intra Urbem Romam Juris scientiam plenitudini perfectionis
adjecit_. Rutilio Numaziano[217] favellando di Palladio gentil giovane
franzese, pur disse, ch'era stato mandato in Roma ad apprender legge.
E Sidonio[218] Apollinare persuade Eutropio, che vada ad apprender
giurisprudenza in Roma, che perciò chiamolla, _domicilium legum_.
Onde non pur dagli Scrittori di questi tempi, ma anche de' tempi
che seguirono, meritò Roma questi encomi, non solamente per la
giurisprudenza, ma per l'eloquenza, e per tutt'altre discipline. Così
leggiamo appresso Claudiano, Roma esser chiamata _Armorum, Legumque
parentem, quae prima dedit cunabula juris_[219]: ed altrove _legum
genitricem_: appresso Simmaco, _Latiaris facundiae domicilium_[220]: e
così appresso Ennodio, Girolamo, Cassiodoro, e molt'altri Scrittori.
E fu cotanta la cura degl'Imperadori, ed il loro studio d'invigilar
sempre al decoro e ristabilimento di quest'Accademia, ch'essendo,
ne' tempi di Valentiniano il vecchio, Roma già caduta dal suo antico
splendore, ed i giovani dati in braccio a' lussi, e ad ogni sorte di
vizio, tanto che l'Accademia era molto scaduta dal suo instituto, ed
introdotti in essa molti abusi, pensò questo Principe, di cui era
molto grande la sollecitudine de' studj di Roma, riparare a cotali
disordini, e promulgò quivi a tal effetto quella celebre costituzione,
che dirizzò nell'anno 370. ad Olibrio Prefetto di quella città, parte
della quale ancor si legge nel Codice Teodosio[221], ove stabilì
undici leggi accademiche per rimediare a tanti abusi, delle quali
in più opportuno luogo farem parola. Tanto che ristorata per queste
leggi potè poi lungamente mantenere il suo lustro, e tirare a se,
come innanzi, i giovani da tutte le parti d'occidente per apprender
le lettere, e massimamente la Giurisprudenza. Così ne' tempi di
Teodorico Ostrogoto vediamo ancor durare quest'usanza di mandarsi a
Roma i giovani ad apprender le discipline; anzi volle questo Pincipe,
che non dovesse concedersi licenza a' medesimi di far ritorno alle
paterne case, se non compiuti in quella città i loro studj. In fatti
negò tal licenza a Filagrio, ancorchè suo benemerito, il quale avendo
mandat'in Roma a studiare alcuni suoi nipoti, e volendo richiamarli,
ordinò a Festo, che non gli lasciasse partire, esagerando cotanto la
stanza di Roma per li giovani: _Nulli sit ingrata Roma, quae dici non
potest aliena: illa eloquentiae faecunda mater: illa virtutum omnium
latissimum templum_[222]. La negò parimente a Valeriano, il quale avea
mandati li suoi figliuoli a Roma a studiare, e scrisse a Simmaco, che
non lasciassegli partire[223]. Questo medesimo instituto fu da poi
continuato da Atalarico suo nipote, il qual imitando Valentiniano
ne prese anche spezial cura e pensiero, e si legge ancora appresso
Cassiodoro[224] una lettera, che volle scrivere perciò al Senato di
Roma, nella quale riordina i studj, e stabilisce i soliti stipendi
per coloro, che militavano in quell'Accademia, nella quale oltre a'
Grammatici, Oratori ed altri Professori, v'avevan ancora luogo gli
_Espositori delle leggi_: onde per questo nuovo ristoramento potè da
poi, eziandio ne' tempi più barbari, meritar Roma que' pregi e quegli
encomj, che le danno più Scrittori di questa bassa età, raccolti dal
Savarone[225] sopra Sidonio[226] Apollinare.

II. _Dell'Accademia di BERITO in Oriente._
Berito è città posta nella provincia di Fenicia in Oriente, e fu
cotanto benemerita a Teodosio il Giovane, che la decorò del titolo di
metropoli della Fenicia, come Tiro, città per lo studio delle leggi non
men celebre in Oriente, che Roma nell'Occidente; e siccome in Roma la
legge civile era insegnata in latino, così a Berito in greco. Per la
famosa accademia in essa stabilita fu chiamata la _città delle leggi_;
e che riempieva perciò il Mondo delle medesime. Da chi quest'Accademia
fosse stata instituita, non se ne sa niente di certo: quel che però non
può pors'in disputa è, che fiorisse molto tempo prima di Diocleziano
Imperadore, com'è manifesto da una costituzione di questo Imperadore,
che si legge nel Codice di Giustiniano[227], indirizzata a Severino,
e ad altri scolari dell'Arabia, i quali per apprender la disciplina
legale dimoravan in Berito.
A questa città, come domicilio delle leggi, concorrevano i giovanetti
di tutte le province dell'Oriente. Chiarissima testimonianza è
quella, che ce ne dà Gregorio Taumaturgo Vescovo di Neocesarea
nell'orazion panegirica ad Origene[228], ove narra aver egli appresa
la giurisprudenza romana nell'Accademia di Berito, celebre per lo
studio di tutte le professioni, ma singolarmente per quella delle
leggi. Nè minore fu la fama di questa Accademia sotto Costanzo e
Costante circa gli anni di Cristo 350. Il Geografo antico[229], (il
qual Autore dobbiam noi alla diligenza dell'eruditissimo Giurisconsulto
G. Gotifredo) che fiorì ne' tempi medesimi, parlando della città di
Berito, e dell'Accademia delle leggi dice così, secondo l'antica
traduzione latina: _Berytus Civitas valde delitiosa, et Auditoria
legum habens, per quae omnia judicia Romanorum. Inde enim viri
docti in omnen orbem terrarum adsident Judicibus, et scientes leges
custodiunt Provincias, quibus mittuntur legum ordinationes._ Per
ciò Nonno[230] nelle Dionisiache diceva, che Berito riempieva la
terra tutta di leggi. Eunapio[231] ancora, che fiorì sotto Costanzo,
Zaccaria Scolastico[232] e Libanio[233], che visse sotto Valente,
chiamano perciò Berito madre delle leggi. E ne' tempi dell'Imperador
Valente fu tanto il concorso de' giovani a questa città per apprender
le leggi, che Libanio stesso si duole essersi perciò tralasciato lo
studio dell'eloquenza. Ed Agatia[234], favellando della ruina di Berito
a cagione del tremuoto, che abbattè quasi tutta la città, afferma
esservi accaduta strage grandissima de' cittadini, e di gran numero di
coloro, che ivi dimoravano per apprender le leggi Romane. Finalmente
il nostro Giustiniano[235] pur nomò Berito _città delle leggi_, ed
altrove[236], _nutrice_ delle medesime; donde egli fece venir Doroteo
ed Anatolio, perchè unitamente con altri avesser parte nella fabbrica
de' Digesti, non concedendo licenza d'esplicar le leggi in Oriente
ad altre Accademie, fuorchè a quelle di Berito, e di Costantinopoli
(perchè questa si trovava ne' suoi tempi fondata già da Teodosio il
Giovane l'anno 425.) siccome nell'Occidente a quella di Roma.
Vi furon ancora in questi tempi in alcune città d'Oriente altre
Accademie, ove si professavan lettere, come in Laodicea, della
quale Alessandro Severo fece menzione in una sua costituzione, che
ancor oggi leggiamo nel Codice di Giustiniano[237]. In Alessandria,
intitolata il _Museo_, della quale parla Agatia[238]; ed in Cesarea.
Siccome in Occidente, oltre di quella famosa di Roma, alcune città
avevan similmente le loro scuole, ove potevan i giovani apprender
lettere. Nè la nostra Napoli ne fu priva, poichè, come dirassi quando
dell'instituzione dell'Accademia napoletana favelleremo, Federico II.
Imperadore non fu il primo, che da' fondamenti la ergesse, ma l'essere
stata sempre questa città, come Federico stesso la chiama, _antiqua
mater, et domus studii_[239], si mosse egli perciò a rinovar questi
suoi antichi studj, e ad ingrandirli in una più nobile, e magnifica
forma, innalzando l'Accademia napoletana sopra tutt'altre, e comandando
perciò, che i giovani così di questo Regno, come di quello di Sicilia
andassero in Napoli ad apprender le discipline, come più a lungo si
diviserà, quando di tal ristoramento farem parola. Nè mancarono Scuole
nell'altre città greche di queste nostre province, in quella maniera,
che richiedeva il loro istituto; ma questi studj, allorchè fioriva
Roma, rimasero tutti oscurati ed estinti, tosto che sorse l'_Ateneo_;
e da poi avendo Roma riempiuto l'Imperio tutto delle sue leggi, le
province d'Occidente mandavan i loro giovani in quella città, come
lor madre, ad apprenderle; siccome quelle d'Oriente mandavangli a
Berito. E si diede finalmente l'ultima mano alla ruina di tutte queste
Scuole minori, quando Giustiniano a tre sole città concedè licenza
d'esplicar le leggi, cioè all'una, e all'altra Roma, ed a Berito; non
ad Alessandria, non in Cesarea, non alla perfine ad alcuna altra città
dell'uno, o dell'altro Imperio.
Dell'Accademia di Costantinopoli non era qui luogo di favellare, come
quella, che molto tempo da poi nell'anno 425. fu da Teodosio il Giovane
instituita e ridotta nella sua forma; onde se ne darà saggio nel libro
seguente di quest'istoria.

III.
Ecco in qual floridissimo stato erano queste nostre province ne' tempi,
che a Costantino precedettero: quando ciascheduna città si studiava di
comporre la sua politia e governo, ad imitazion di Roma, della quale
vantavano essere piccioli simulacri ed immagini: quando secondo le sue
leggi vivevano: e quando la giurisprudenza romana, ch'era la lor norma
e regola, era giunta nel colmo e nella più alta stima, se si pon mente
o a' favori de' Principi, o alla prudenza delle loro costituzioni,
o alla sapienza de' Giureconsulti, o alla maestà dell'Accademie, e
dottrina de' Professori, o alla probità de' Magistrati. Non è occulto,
che alcuni pur troppo vaghi di novità, volendo rendersi per qualche
stravaganza rinomati, non si sono ritenuti di biasimar le leggi
romane come troppo sottili e ricercate, e che sovente s'oppongono
al buon senso, ed al comunale intendimento degli uomini. Si è veduto
ancora, chi ha voluto perciò prendersi briga d'andarle esaminando, con
riprovarne alcune, come alla ragione ed all'equità contrarie. Altri
ne dettaron particolari trattati, che vengon rapportati da Giorgio
Pasquio[240]: e fra' nostri volle anche tentarlo il Cardinal di Luca,
che ne distese più discorsi[241]. Ma ben si sarà potuto conoscere
quanto costoro siano traviati; i quali col debole e corto lume de'
loro ingegni han preteso affrontare una verità per tanti secoli
conosciuta e professata da' maggiori uomini, che fiorirono quando il
genere umano si vide in tant'elevamento ed eminenza, in quanta non
fu mai per l'addietro, e che non sappiamo se mai potrà ritornare in
quella sublimità, in cui fu ammirato mentre durò il roman Imperio.
I Romani ci diedero le leggi savie e giuste, come per isperimento
si conobbe ch'erano le più utili, conformi all'equità naturale, e
adattate per la società civile ed all'umano commercio: che se fosse
ad ognuno lecito farsi giudice sopra le leggi, ed a suo giudicio e
capriccio dar regola a questa bisogna, vorrebbe ciascuno, fidando nel
suo ingegno, sostenere al pari di chiunque altro la propria opinione;
ed ecco i disordini e le confusioni, ed ecco alla per fine introdotto
fra noi un deplorabile scetticismo. Solone perciò dimandato s'egli
aveva date agli Ateniesi le più giuste e le più savie leggi, rispose,
le migliori che si confacessero a' loro costumi, e le più acconce a'
loro profitti; imperocchè la giustizia e la sapienza delle leggi non
dipende da ragioni astratte e metafisiche, ma dall'utilità che recan
a' popoli, al commercio ed alla vita civile: di che per più secoli ne
diedero bastanti riprove le romane: onde avvenne che ruinato l'Imperio,
non per questo ne' nuovi dominj in Europa stabiliti, cessò la maestà e
l'uso delle medesime. L'utilità e l'onestà sono la norma delle leggi,
e quelle saranno sempre le giuste, che riescono a' popoli utili ed
oneste: ciò che meriterebbe un trattato a parte, non essendo del nostro
instituto.
Altri vi sono, i quali empiono il Mondo di querele contra i Romani
per la moltiplicità di tante leggi: questa querela non è nuova, ma
molto antica, e fin da' tempi della libera Repubblica s'intese; tanto
che Cesare[242], e Pompeo pensarono di darvi qualche compenso, con
ridurre ad un cert'ordine la giurisprudenza romana: il che se non
potè mai ridursi ad effetto da uomini sì illustri, molto meno s'è
potuto da poi sperare dagli altri, come impresa affatto disperata ed
impossibile, non che dura e malagevole. Ma queste querele, o quanto
meglio farebbon costoro, se le scagliassero contra i depravati costumi
degli uomini, contra la lor ambizione e dissolutezza, anzi che contro
alle leggi: ben è egli vero che moltitudine di vizj e moltitudine di
leggi si secondano, e si producono l'una l'altra quasi sempre; ond'è
che Arcesilao[243] soleva dire, che siccome dove sono molte medicine
e molti medici, quivi sono infermità abbondanti, così dove abbondan
le leggi, ivi essere ingiustizia somma; nulladimanco non è somma
ingiustizia, nè sono molti vizj, perchè sieno molte leggi, ma ben
sono molte leggi, perchè sono molti vizj. Per riparare a' corrotti
costumi degli uomini, non v'era altro rimedio, che quello delle leggi.
L'Imperio romano molto tempo prima avrebbe veduta la sua rovina, se
di quando in quando la prudenza di qualche Principe non v'avesse dato
riparo per mezzo delle leggi. Eran a' Romani sempre innanzi agli occhi
molti domestici esempi, che gli ammonivano, niun altro freno esser
più potente alla dissolutezza degli uomini, quanto le leggi. Sapevan
benissimo, che fin da' primi tempi della loro Repubblica niente altro
più ardentemente bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo
che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al Re ogni cosa
rimettersi, ed al suo arbitrio; nè ciò per altra cagione, se non per
quella, che con molta eleganza vien rapportata da Livio[244]: _Regem_,
e' dicevano, _hominem esse a quo impetres ubi jus, ubi injuria opus
sit: esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci, et ignoscere
posse: inter amicum, et inimicum discrimen nosse. Leges, rem surdam,
inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi, quam potenti; nihil
laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris: periculosum esse,
in tot humanis erroribus, sola innocentia vivere._ Sentimenti pur
troppo licenziosi e dannevoli, e che dirittamente si oppongono a quel
che insegnò Aristotele nella sua politica[245]. Ove sia Repubblica
senza vizj, certamente mal fa, chi vuol caricarla di leggi, siccome
mal fa, chi ad un corpo sano vuol applicar medicamenti. Ma se quella,
già data in preda a' lussi, minaccia rovina, non v'è altro riparo,
che ricorrere alle leggi. E meglio in questi casi sarà, che nella
Repubblica abbondino le leggi, le quali proveggano e s'oppongano ad
ogni vizio[246], che rimetter tutto all'arbitrio de' Magistrati, il
giudicio de' quali sta sottoposto agli affetti ed alle macchinazioni e
tranelli de' litiganti.
Egli è pur vero, che alla corruttela de' costumi non si rimedia
abbastanza colle leggi; ed in ciò non si può non commendare quel
gravissimo ammaestramento di Bacone di Verulamio[247], che dovrebbon i
Principi aver sempre innanzi agli occhi, dicendo egli che la maggiore
lor cura e pensiero dovrebbe essere non tanto, come fanno, di rimediar
agli abusi ed alle corruttele colle leggi, quanto d'invigilare su
l'educazione de' giovani. Sopra il buono allevamento de' medesimi
dovrebbon impiegare per mezzo delle leggi tutto il lor rigore; poichè
in questa maniera in gran parte si scemerebbe il numero de' vizj e per
conseguenza il numero delle leggi. Star tutt'intesi a ben ristabilire,
e fornir di buoni instituti e di Professori l'Accademie e l'Università
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