Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 24

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già togliendola a Romani, i quali l'avean perduta, ma colle proprie sue
forze, e col suo proprio valore, avendo discacciato Odoacre invasor
peregrino, _jure Belli_ acquistò ciò, che questi avea occupato. Ma
i Romani da poi che si videro ristabiliti, niente curando del giusto
e del ragionevole, col pretesto della morte d'Amalasunta si finsero
in prima irati contra Teodato, e da poi non tralasciaron di muoverci
ingiusta guerra, e per forza rapirci ogni cosa. E pure questi sono,
che vantan esser soli i sapienti, essi soli esser tocchi del timor di
Dio, essi tutte le cose dirizzare secondo la norma della giustizia.
Perchè dunque non v'accada un giorno quel che da noi presentemente si
patisce, ed il pentimento non vi giunga tardi, quando più non potrà
giovarvi, debbon ora prevenirsi gli inimici, nè dee da voi tralasciarsi
l'occasione presente di mandar contro a' Romani un pari esercito,
al quale presieda un vostro valoroso Capitano, che adoperandosi con
prudenza e valore contro d'essi, procuri disturbargli dall'impresa
d'Italia, e noi restituisca nella possessione della medesima.
Ma riuscì inutile questa lor ambasceria co' Franzesi, da' quali niente
poteron ottenere; perocchè avendo Teodiberto, dopo la guerra mossa a
Giustiniano, poco prima di morire stabilita una ferma e stabile pace
col medesimo nell'anno 548, la quale poi fu confermata da Teodobaldo
suo figliuolo, non vollero, ricordevoli di questi patti, in conto
alcuno indursi a romper la pace; tanto che si trattennero, e di muover
l'armi contro a' Goti ad istigazione di Giustiniano, e di portarle
contra i Romani, ancorchè i Goti glielo richiedessero con calde
istanze: e se bene dopo estinta già la dominazione de' Goti, nell'anno
555 morto il Re Teodobaldo, Leotaro, ed il suo fratello Bucellino
Generale delle truppe d'Austrasia, co' Franzesi e cogli Alemanni
avessero tentata l'impresa d'Italia, e si fosse il primo avanzato
fin in Puglia e Calabria, ed il secondo, oltre all'aver devastato
il Sannio, fosse scorso fino in Sicilia; nulladimeno i loro eserciti
furon non molto da poi disfatti. Quello di Leotaro da un fiero morbo,
che in una state l'estinse: e l'altro di Bucellino, fu da Narsete
a Casilino interamente sconfitto. E fu questa la prima volta, che i
Franzesi tentassero sottoporre alla loro dominazione queste nostre
province: presagio, che fu pur troppo infausto, di dovere le lor
armi nell'impresa d'Italia aver sempremai infelicissimo fine, siccome
sovente l'esperienza ha dimostrato ne' secoli men a noi lontani, che
que' gigli più volte piantati in questi nostri terreni non poteron mai
mettervi profonde e ferme radici.
Esclusi per tanto i Goti dal soccorso de' Franzesi, tutte le speranze
furon collocate nel valore di Teja, il quale fece sforzi i più
maravigliosi, che potessero mai desiderarsi in casi così estremi, per
ristorare le fortune de' Goti. Egli incontrato da Narsete a piedi del
nostro Vesuvio, accampò così bene il suo esercito che con tutto le due
armate non fossero separate, che dal fiume Sarno, dimoraron nondimeno
due mesi a scaramucciare, non potendo Narsete tentare il passaggio
avanti l'esercito di Teja, ch'era Signore del ponte, nè ritirarsi per
paura, che i Goti non portassero soccorso a Cuma: ma alla fine essendo
riuscito a Narsete, ch'era di gran lunga superiore di forze, di dar
battaglia, Teja facendo l'ultime pruove del suo valore ed ardire,
rimase in quella miseramente ucciso; onde i Goti già costernati,
veggendosi privi di sì glorioso Capitano, risolsero di rendersi a
Narsete, il quale lor accordò, che se ne potessero andare dalle terre
dell'Imperio con tutti gli argenti ch'essi avevano, e di vivere secondo
le loro leggi. Così fu accordato il trattato di buona fede da una parte
e dall'altra, dopo 18 anni di guerra, in maniera che tutte le Piazze
essendosi messe fra le mani de' Commessarj di Narsete, i Goti usciron
d'Italia l'anno del Signore 553, dove 64 anni, da Teodorico loro Re,
infin a Teja avevano regnato.
Ecco il fine della dominazione de' Goti in Italia, ed in queste nostre
province: gente assai illustre e bellicosa, che tra gli strepiti
di Marte non abbandonò mai gli esercizi della giustizia, della
temperanza, della fede, e dell'altre insigni virtù, ond'era adorna;
non così barbara ed inumana, com'altri a torto la reputa. Lasciò
vivere i Popoli vinti e debellati colle stesse leggi romane colle
quali eran nati e cresciuti; e delle quali era sommamente ossequiosa
e riverente: che non mutò la disposizione e l'ordine di queste nostre
province; non variò i Magistrati; ritenne i Consolari, i Correttori,
ed i Presidi, e molt'altri costumi ed istituti mantenne, siccome eran
in tempo degl'istessi Imperadori romani: tanto che queste nostre
province ricevettero altra forma e nuova amministrazione, non già
quando stettero sotto la dominazione de' Goti, ma quando passarono
sotto gl'Imperadori d'Oriente; i quali mandando in Italia gli Esarchi,
e dividendo le province in più Ducati, diedero perciò alle medesime
disposizione diversa da quella di prima, come di qui a poco vedremo.
Non si poterono però evitare que' disordini e quelle confusioni, che
le tante feroci e crudeli guerre soglion apportare alle discipline
ed alle lettere: certamente in Italia in questi tempi; per quel
s'appartiene alla giurisprudenza, non potevano sperarsi Giureconsulti
cotanto rinomati, nè così insigni Professori ed Avvocati, ch'avessero
potuto restituirla nell'antico splendore nel Foro e nell'Accademie.
Non dee però riputarsi di piccol momento, in mezzo a tante e sì feroci
armi, che pensassero i Re goti, come fecero Atalarico e Teodato, di
mantener quanto più fosse possibile l'antico lustro del Senato romano,
e dell'Accademia di Roma, con provederla di Professori esperti nella
legal disciplina, come fece Atalarico[836], e d'illustri Grammatici,
perchè la lingua latina non affatto si perdesse fra tante lingue
straniere e barbare: ed infatti in quest'istessi tempi sarebbe mancata
all'intutto, se non si fosse ristabilita in quell'Accademia, e Teodato
col suo esempio, essendone vaghissimo non v'avesse dato riparo. Fin da
questi tempi si lodava Roma per la purità della lingua latina, perchè
in tutte l'altre province d'Italia era già di barbarie ricolma; e
gl'istromenti, che per mano di _Tabellioni_, ch'oggi diciamo Notaj,
si stipulavano, non eran di miglior condizione, intorn'alla lingua,
di quel ch'oggi s'usa in Italia. Narra Fornerio[837] in Cassiodoro,
serbarsi in Parigi nella libreria del Re un antico istromento
di transazione conceputo con formole non migliori di quelle, che
usiam oggi, nel quale un tal Stefano tutore di Graziano pupillo si
transiggè col medesimo per una certa lite, che fu rogato in Ravenna
nell'ultim'anno dell'Imperio di Giustiniano, cioè nel 38 all'indizione
12 che cade nel 564 di Cristo. E perciò anche in questi tempi si
riputava cosa di sommo pregio, chi di lingua latina fosse intendente,
siccome fra l'altre lodi, che si davan a Teodato per le sue molte
lettere, una era questa. Pure con tutto ciò vide Italia in quest'età un
Ennodio, un Giornande, un Boetio Severino, un Simmaco, un Cassiodoro,
un Aratore, ed alcun'altri valent'uomini, non in tutto sforniti di
scienze e d'erudizione.
Giustiniano, sconfitti ch'ebbe per mezzo di Narsete i Goti, e ritolta
l'Italia dalle lor mani, a richiesta, com'ei dice, di Vigilio Pontefice
romano, promulgò nel penultim'anno del suo Imperio una prammatica[838]
di più capi, nella quale a' disordini fin allora patiti in Italia,
e nell'altre parti occidentali, pensò dar qualche riparo; fu questa
indirizzata ad Antioco Prefetto d'Italia, e data in Costantinopoli
nel 37 anno del suo Imperio. In quella, siccome si confermano tutti
gli atti e donazioni fatte da Atalarico, e da Amalasunta sua madre, e
da Teodato istesso, così all'incontro, riputando Totila per Tiranno,
tutti gli atti e donazioni fatte da costui nel tempo della sua
tirannide, gli abolisce, gli abbomina, e vuol che di quelli non se
n'abbia ragione alcuna; vuol che nelle prescrizioni di 30 e 40 anni
non debba computarsi il tempo, ch'Italia stiè sotto la tirannide di
Totila: che nelle liti insorte fra' Romani, non si mescolassero Giudici
militari, ma che i civili l'avessero a decidere: diede previdenza
a' _superinditti_ imposti a' Negoziatori delle province di Calabria,
e di Puglia: e molte altre leggi promulgò allo stato d'Italia, e di
queste nostre province appartenenti, che posson osservarsi in questa
prammatica in più capi distinta, la quale si legge dopo le Novelle.
Ma cosa assai più notabile osserviamo nella medesima: alcuni per
conghietture ed argomenti scrissero, che per essersi la pubblicazione
delle Pandette, e del Codice commessa da Giustiniano al Prefetto
dell'Illirico, per questo dobbiam credere, ch'in Italia si fossero
anche pubblicate: non bisognan argomenti in cosa sì manifesta: per
questa prammatica abbiamo, che Giustiniano per suo particolar editto
ordinò, che le leggi inserite nei suoi libri s'osservassero per
tutt'Italia. Ma perchè poi nel Regno di Totila le cose de' Greci
andaron in ruina, ed i Goti ritornarono nel pristino dominio, in mezzo
a tante rivoluzioni di cose, non poterono certamente aver luogo le sue
leggi. Ristorati da poi per Narsete gli affari de' Greci, e debellati
affatto i Goti, volle per questa prammatica, che non solamente
quelle leggi s'osservassero per tutt'Italia, ma anche quell'altre
sue costituzioni _Novelle_, ch'avea da poi promulgate, in guisa
che, formata col voler di Dio una Repubblica, una e sola anche fosse
l'autorità delle leggi per tutte le sue parti, come sono le parole
della prammatica, che come notabili per lo nostro istituto, e da altri
fin qui, ch'io sappia, non mai osservate, sarà bene di trascriverle:
_Jura insuper, nel leges Codicibus nostris insertas, quas JAM sub
edictali programmate in Italiam dudum misimus, obtinere sancimus; sed
et eas, quas POSTEA promulgavimus Constitutiones, jubemus sub edictali
propositione vulgari ex eo tempore, quo sub edictali programmate
evulgatae fuerint etiam per partes Italiae obtinente, ut una Deo
volente facta Repubblica, legum etiam nostrarum ubique prolatetur
auctoritas._
Ma non perchè si fosse spento il nome de' Goti in Italia, si mantennero
queste province lungo tempo sotto gl'Imperadori d'Oriente, ed i
libri di Giustiniano ebbero forse lunga durata: morto Giustiniano,
ritornarono di bel nuovo, se non sotto la dominazione de' Goti, sotto
quella de' Longobardi, i quali traggon la lor origine da' Goti stessi,
e de' quali sono rampolli e germogli, come si vedrà, quando d'essi
farem memoria.
Nè perchè queste province passassero sotto l'imperio di Giustiniano,
vi fu tanto di spazio, che potessero le di lui leggi stabilirvisi, e
che l'insigni sue Compilazioni avessero potuto in esse poner piede, e
metter qui profonde radici; se pur ci vennero, tosto delle medesime si
spense affatto la memoria ed ogni vestigio, poichè appena Giustiniano
ebbe la gloria d'aver liberata Italia da' Goti, che distratto per
la seconda guerra della Persia, e per l'invasioni degli Unni, fu
dalla morte non guari da poi nell'anno 565 sopraggiunto, in età già
matura d'anni 82, dopo averne imperato 38 e mesi otto. Principe,
che se non avesse nell'ultimo di sua vita oscurata la sua fama per
l'eresia Eutichiana[839], che volle abbracciare, nè mai abjurarla,
avrebbe superata la gloria di molt'Imperadori per la pietà, per la
magnificenza, per li tanti egregi suoi fatti, e per le tante insigni
vittorie, che e nella pace e nella guerra lo renderon immortale;
come ce lo rappresentano tutti i più famosi Storici de' suoi tempi, e
quelli ancora che dopo lui fiorirono, Teofilo Abate suo maestro[840],
Procopio, Agatia, Teofane, Zonara, Marcellino, Evagrio e Niceforo fra'
Greci; e fra' Latini, Cassiodoro, Varnefrido, ed altri moltissimi[841];
tanto che si rende ora inescusabile l'error di coloro, che reputarono,
per la testimonianza di Suida, questo Principe così illiterato e tanto
rozzo, che nemmeno sapesse l'abbiccì; quando Giustiniano egli medesimo
testifica d'aver letti e riconosciuti i libri delle sue Istituzioni.
L'error nacque dalla scorrezione del testo di Suida, che fece stampare
in Milano Demetrio Calcondila, ove in vece di Giustino, come leggesi
in tutti i Codici di Suida del Vaticano, si leggeva Giustiniano[842];
onde ciò, che con errore s'ascrive a Giustiniano, dee attribuirsi
a Giustino, Zio e Padre adottivo di Giustiniano, come il manifesta
Procopio, testimonio di veduta, asserendo che Giustino da pecorajo
divenuto soldato, ed indi _Comite_, finalmente, con maraviglioso
ravvolgimento di fortuna, si vide al Trono imperiale innalzato, e che
non sapendo scrivere, firmava gli atti pubblici con certo istromento,
o segno fatto apposta, siccome usava di far Teodorico ancora; il quale
se bene fosse quel principe cotanto grande, quanto s'è narrato, era
nondimeno di lettere ignaro; e come ne' tempi più bassi si legge di
Vitredo Re di Canzia, e di Tassilone Duca di Baviera. E da alcuni
fu anche detto, che Carlo M. istesso non sapeva scrivere, quantunque
sapesse leggere, e fosse dottissimo.


CAPITOLO V.
_Di GIUSTINO II Imperadore; e della nuova politia introdotta in Italia,
ed in queste nostre province da Longino suo primo Esarca._

Morto Giustiniano, si fransero tutti i suoi disegni, e le fortune
degl'Imperadori orientali tornarono alla declinazione di prima; poichè
essendo succeduto nell'Imperio Giustino il Giovane, figliuolo di
Vigilanzia, sorella di Giustiniano, troppo da lui diverso; e per la
sua stupidezza essendosi dato tutto in braccio al governo di Sofia sua
moglie, per consiglio della medesima rivocò Narsete d'Italia, e gli
mandò nell'anno 568 Longino per successore[843].
Giunto Longino in Italia con assoluto potere ed imperio datogli
dall'istesso Giustino, tentò nuove cose, e trasformò lo Stato di
quella: egli fu il primo, che desse all'Italia nuova forma e nuova
disposizione, e che nuovo governo v'introducesse, il quale agevolò
e rendè più facile la ruina della medesima: egli se bene fermasse la
sua sede in Ravenna, come avevano fatto gl'Imperadori occidentali, e
Teodorico co' suoi Goti, volle però dare all'Italia nuova forma[844].
Tolse via dalle province i Consolari, i Correttori ed i Presidi, contra
ciò ch'avevan fatto i Romani ed i Goti stessi, e fece in tutte le città
e terre di qualche momento, Capi, i quali chiamò Duchi, assegnando
Giudici in ciascheduna d'esse per l'amministrazion della giustizia.
Nè in tale distribuzione onorò più Roma, che l'altre città[845];
perchè tolto via i Consoli ed il Senato, i quali nomi infin a questo
tempo eranvisi mantenuti, la ridusse sotto un Duca, che ciascun anno
di Ravenna vi si mandava, onde surse il nome del Ducato romano: ed a
colui, che per l'Imperadore risedeva in Ravenna, e governava tutta
l'Italia, non Duca, ma Esarca pose nome, ad imitazione dell'Esarca
dell'Affrica. Presso a' Greci, Esarca diceasi colui, che presiedeva ad
una diocesi, cioè a più province, delle quali la diocesi si componeva:
così nella Gerarchia della Chiesa si vide che quel Vescovo, il quale ad
una diocesi, e seguentemente a più province, delle quali si componeva,
era preposto, non Metropolitano, che aveva una sola provincia, ma
Esarca era chiamato. Così l'Italia patì maggiori trasformazioni sotto
l'Imperio di Giustino Imperador d'Oriente, che sotto i Goti medesimi,
i quali avevan procurato di mantenerla nell'istessa forma ed apparenza,
con cui dagli antichi Imperadori d'Occidente fu retta ed amministrata.
Le province, in quanto s'appartiene al governo, furono mutate e divise;
e siccome prima ciascuna aveva il suo Consolare, o Correttore, o il
Preside, ai quali stava raccomandata l'amministrazione ed il governo
delle medesime, per questa nuova divisione poi dandosi a ciascuna
città o castello il suo Duca, ed un Giudice, ciascheduno d'essi
sol s'impacciava del governo di quelle partitamente, e solamente
all'Esarca, che da Ravenna governava tutta l'Italia, stavan sottoposti,
sotto la cui disposizione erano: ed a cui nei casi di gravame si
ricorreva da' provinciali. Quindi nelle nostre province trassero
origine que' tanti Ducati, che ravviseremo nel Regno de' Longobardi,
parte sotto la dominazione de' Greci, come fu il Ducato di Napoli,
di Sorrento e d'Amalfi, il Ducato di Gaeta e l'altro di Bari; e parte
sotto i Duchi Longobardi, i quali avendo ritolto a' Greci quasi tutta
l'Italia, e gran parte di queste nostre province, ritennero questi
medesimi nomi di Ducati: onde poi sopra tutti gli altri s'avanzaron
il Ducato di Benevento, quello di Spoleti e l'altro del Friuli, come
diremo più ampiamente nel libro seguente di questa Istoria.
Ma non durò guari in Italia l'imperio de' Greci, nè Longino potè
molto lodarsi di questa nuova forma, che le diede; poichè questa
minuta divisione delle province in tante parti, ed in più Ducati rendè
più facile la ruina d'Italia, e con più celerità diede occasione a'
Longobardi d'occuparla, imperocchè Narsete fortemente sdegnato contra
l'Imperadore, per essergli stato tolto il governo di quella provincia,
che con la sua virtù e col suo valore aveva acquistata; e non essendo
bastato a Sofia di richiamarlo, che ella vi volle anche aggiungere
parole piene d'ingiuria e di scherno, dicendogli che l'avrebbe fatto
tornar a filare con gli altri Eunuchi e femmine del suo palazzo, questo
Capitano portò tanto innanzi la sua collera, che mal potendo celar
anche con parole il suo acerbo dispetto, rispose, ch'egli all'incontro
l'avrebbe ordita una tela, che nè ella, nè suo marito avrebbon potuto
districarla; ed avendo licenziato il suo esercito, da Roma, ove egli
era, portossi in Napoli, da dove cominciò a trattar con Albino suo
grand'amico, Re de' Longobardi, ch'allora regnava nella Pannonia,
e tanto operò, finchè lo persuase di venire co' suoi Longobardi ad
occupare Italia. Ma poi che per la venuta dei Longobardi in Italia,
le cose di quella presero altra forma; e siccome in essa s'introdusse
nuova politia e nuove leggi, così ancora queste nostre province furono
in altra maniera divise, e prendendo nuovi nomi sotto altri _Dinasti_
si videro disposte ed amministrate; ed in un medesimo tempo sottoposte
alla dominazione non pur d'un sol Principe, ma di varie Nazioni, di
Greci e di Longobardi, e talor anche di Saraceni; sarà utile cosa per
la novità del soggetto, e per la grandezza e verità degli avvenimenti,
che dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questo secolo, nel
seguente libro partitamente se ne ragioni.


CAPITOLO VI.
_Dell'esterior politia ecclesiastica._

La Chiesa ancorchè sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio, Principi
religiosi, i quali quasi terminaron di distruggere l'Idolatria
nell'Imperio romano, si vedesse, per quel che riguarda questa parte, in
istato florido e tranquillo; nulladimeno fu combattuta da tante e sì
varie eresie, che nè li numerosi e sì frequenti Concili, nè le molte
costituzioni degl'Imperadori pubblicate contra gli eretici, bastaron
per darle pace. La religione pagana, se bene sotto gl'Imperadori
cristiani, imitando i sudditi l'esempio de' loro Sovrani, si fosse
veduta in grandissima declinazione, nientedimeno, non essendosi
reputato colla forza estinguerla affatto, anzi avendo gl'Imperadori
suddetti per lungo tempo tollerato i templi de' Gentili, molte
superstizioni pagane, ed il culto degli Dei[846], era quella da' più
professata, ancorchè il numero de' Cristiani era molto maggiore di
quello de' Pagani. Ma sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio il Culto
Gentile era quasi ridotto a nulla in tutte le città dell'Imperio:
solamente ne' castelli, _in Pagis_, ed in Campagna era l'esercizio
di quella religione mantenuto. Da questo venne il nome de' _Pagani_,
che s'incontra spesso nel Codice di Teodosio[847], per significar
gl'Idolatri: nome che lor era allora dato comunemente dal Popolo
cristiano, in vece di quello di Gentili. Gl'Imperadori Teodosio il
Giovane, e Valentiniano III, avviliron poi i Pagani in guisa, che
vietando d'ammettergli alla milizia, ovvero ad altro Uficio, gli
ridussero a segno, che l'istesso Imperador Teodosio mette in dubbio,
se a' suoi tempi ve ne fosse rimaso pur uno: _Paganos qui supersunt,
quamquam jam nullos esse credamus[848]._ In fine gli condanna e gli
proscrive; ed ordina, che se pur vi erano ancor rimasi lor tempj o
cappelle, siano distrutte e convertite in chiese[849].
Ma con tutti gli sforzi di quest'Imperadori, restarono in Campagna, _in
Pagis_, più antichi tempj, nei quali il culto degli Dei era sostenuto;
e per maggiore tempo vi si mantenne, come quelli, che sono gli ultimi
a deporre l'antiche usanze e costumi; tanto che nella nostra Campagna
pur si narra, che S. Benedetto, a' tempi del Re Totila, abbattesse una
reliquia di Gentilità ancor ivi rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo
v'ergesse una chiesa. Restava ancor un'infinità di Nazioni barbare
nelle tenebre dell'Idolatria; ma soprattutto assai più in questi tempi
perturbavano la Chiesa le scorrerie de' Barbari ed i nuovi dominj
stabiliti nell'Imperio da' Principi stranieri: questi o non in tutto
spogliati del Paganesimo, ovvero per la maggior parte Arriani, tutta
la sconvolsero e malmenarono; e se la Italia e queste nostre province
non sofferirono sì strane rivoluzioni, tutto si dee alla pietà e
moderazione del Re Teodorico, il quale, ancorchè Arriano, lasciò in
pace le nostre Chiese; e siccome non variò la politia dello Stato
civile e temporale, così ancora volle mantenere in Italia l'istessa
forma e politia dello Stato ecclesiastico e spirituale.
Lo stesso avvenne, ma per altra cagione, alla Gallia, mercè della
conversione del famoso Clodoveo Re de' Franzesi, il quale nell'anno
496 ricevette la religione cristiana tutta pura e limpida, non già
contaminata dalla pestilente eresia d'Arrio. Non ebbero prima di
Reccaredo questa fortuna le Spagne: non l'Affrica manomessa da'
Vandali: non la Germania soggiogata dagli Alemanni, e da altre più
inculte e barbare Nazioni; non la Brettagna invasa da' Sassoni; non
finalmente tutte l'altre province dell'Imperio d'Occidente. Maggiori
revoluzioni e disordini si videro nelle province d'Oriente. Gli Unni
sotto il loro famoso Re Attila, gli Alani, i Gepidi, gli Ostrogoti,
ed ultimamente i Saraceni posero in iscompiglio non meno lo stato
dell'Imperio, che della Chiesa.
A tutti questi mali s'aggiunse l'ambizione de' Vescovi delle sedi
maggiori, e l'abuso della potestà degl'Imperadori d'Oriente, i quali
ridussero il Sacerdozio in tale stato, che negli ultimi tempi ad
arbitrio del Principe sottomisero interamente la religione. Queste
furono le cagioni di quella variazione, che nello Stato ecclesiastico
osserveremo dalla morte di Valentiniano III, fin all'Imperio di
Giustiniano. Vedremo, come quasi depressi e posti a terra tre
Patriarcati, l'Alessandrino, l'Antiocheno e quello di Gerusalemme,
fossero surti quello di Roma in Occidente, l'altro di Costantinopoli
in Oriente, le cui Chiese discordanti fra loro, cagionaron una
implacabil ed ostinata divisione fra' Latini e' Greci: e come quel di
Costantinopoli, non essendo la di lui ambizione da termine o confine
alcuno circoscritta, tentasse eziandio invadere il Patriarcato di Roma,
e queste nostre province, ancorchè come suburbicarie a quello di Roma
s'appartenessero.

§. I. _Del Patriarca d'Occidente._
Il Pontefice romano, che in questi tempi non meno da' Greci che da'
Latini cominciò a chiamarsi Patriarca, ragionevolmente ottenne il
primo luogo fra tutti i Patriarchi, così per esser fondata la sua
sede in Roma, città un tempo Capo del Mondo; come anche per esser egli
successor di S. Pietro, che fu Capo degli Appostoli. Nella sua persona
s'uniron perciò le prerogative di Primate sopra tutte le Chiese del
Mondo cattolico, appartenendo a lui, come Capo di tutte le Chiese aver
delle medesime cura e pensiero, invigilare, ch'in quelle la fede fosse
conservata pura ed illibata, e la disciplina conforme a' canoni, e che
questi fossero esattamente osservati[850]. L'ordinaria sua potestà,
siccome s'è veduto nel precedente libro, non si stendeva oltre alle
province suburbicarie, cioè a quelle, che ubbidivano al Vicario di
Roma, fra le quali eran tutte le quattro nostre province, onde ora si
compone il Regno; ed in questi limiti s'è veduto essersi contenuta fin
al tempo di Valentiniano.
In decorso di tempo, perchè nella sua persona andavan anche unite le
prerogative di Primate, fu cosa molto facile di stenderla sopra l'altre
province. Per ragion del Primato s'apparteneva anche a lui averne
cura e pensiero: quindi cominciò in alcune province, dove credette
esservene bisogno, a mandarvi suoi Vicarj. I primi che s'istituirono,
furon quelli, che mandò nell'Illirico: Tessaglia, ch'era Capo della
diocesi di Macedonia, nella quale il suo Vescovo esercitava le ragioni
Esarcali, da poi che riconobbe i Vicarj mandati dal Pontefice romano,
si vide sottoposta al Patriarca di Roma, il quale per mezzo de'
medesimi, non pur le ragioni di Primate, ma anche le patriarcali vi
esercitava; e così avvenne ancora, oltre alla Macedonia, nell'altre
province dell'Illirico. Col correr poi degli anni non solo all'autorità
sua patriarcale sottopose l'intera Italia, ma anche le Gallie e le
Spagne; ond'è che non solo da' Latini, ma da' Greci medesimi degli
ultimi tempi era reputato il romano Pontefice Patriarca di tutto
l'Occidente; siccome all'incontro volevano, che quel di Costantinopoli
si riputasse Patriarca di tutto l'Oriente. S'aggiunse ancora, che a
molte province e Nazioni, che si riducevan alla fede della religion
cattolica, erano pronti e solleciti i Pontefici romani a mandarvi
Prelati per governarle, ed in questa maniera al loro Patriarcato
le soggettavano: siccome accadde alla Bulgaria, la quale ridotta
che fu alla fede di Cristo, tosto le si diede un Arcivescovo; onde
nacquero le tante contese per questa provincia col Patriarca di
Costantinopoli, che a se pretendeva aggiudicarla. In cotal guisa tratto
tratto i Pontefici romani estesero i confini del loro Patriarcato per
tutt'Occidente; ond'avvenne (non senza però gravissimi contrasti)
che s'arrogaron essi la potestà di ordinare i Vescovi per tutto
l'Occidente, ed in conseguenza l'abbattere e mettere a terra le ragioni
di tutti i Metropolitani. Di vantaggio trassero a se l'ordinazioni de'
Metropolitani stessi. Così quando prima l'Arcivescovo di Milano, ch'era
l'Esarca di tutto il Vicariato d'Italia, era ordinato da' soli Vescovi
d'Italia, come si legge appresso Teodorito[851] dell'ordinazione
di S. Ambrogio, in processo di tempo i romani Pontefici alla loro
ordinazione vollero, che si ricercasse ancora il loro consenso, come
rapporta S. Gregorio nelle sue Epistole[852]. Trassero a se ancora
tutte le ragioni de' Metropolitani intorno all'ordinazioni per la
concessione del Pallio, che lor mandavane; poichè per quello si dava
da' Sommi Pontefici piena potestà a' Metropolitani d'ordinare i Vescovi
della provincia; onde ne seguiva, che a' medesimi insieme col Pallio
si concedeva tal potestà: quindi fu per nuovo diritto interdetto a'
Metropolitani di poter esercitare tutte le funzioni Vescovili, se non
prima ricevevano il Pallio; e fu introdotto ancora di dover prestare
al Papa il giuramento della fedeltà, che da lui ricercavasi. Fu ancora
in progresso di tempo stabilito, che l'appellazioni de' giudicj,
che da' Metropolitani erano proferiti intorno alle controversie, che
occorrevano per l'elezioni, si devolvessero al Pontefice romano: che
se gli elettori fossero negligenti, ovver l'eletto non fosse idoneo,
che l'elezione si devolvesse al Papa: che di lui solo fosse il diritto
d'ammettere le cessioni de' Vescovati, e di determinare le traslazioni
e le Coadjutorie colla futura successione: e finalmente che a lui
s'appartenesse la confermazione dell'elezioni di tutti i Vescovi delle
province.
Ma tutte queste intraprese, che si videro sopra le altre province
d'Occidente, non portarono variazione alcuna in queste nostre, onde ora
si compone il Regno; poichè essendo quelle suburbicarie, e su le quali
il Papa fin da principio esercitò sempre le sue ragioni patriarcali,
furono come prima a lui sottoposte; nè perciò si tolse ragione alcuna
a' Metropolitani, poichè non ve n'erano; nè intorno all'ordinazioni
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