Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 17

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debbano i Magistrati ordinarj eseguirla: cosa, che se fosse vera,
la giurisdizione temporale sarebbe perduta affatto, o almeno non
servirebbe, che per eseguire i comandamenti degli Ecclesiastici. Fu
in alcun tempo questa veramente stravagante costituzione reputata
per vera, vedendo parte di quella inserita ne' Capitolari di Carolo
M.[591], ed ancora ne' Breviari del Codice Teodosiano; e Giovanni
Seldeno[592], perchè la trovò in un Codice antico manuscritto di
Guglielmo, Monaco malmesburiense, credette, che veramente fosse di
Costantino.
Altri l'attribuirono non già a Costantino, ma a Teodosio il
Giovane, come fecero Innocenzio[593], Graziano[594], Ivone, Anselmo,
Palermitano, e gli altri Compilatori di decreti, mossi perchè in alcuni
Codici manuscritti portava in fronte questa iscrizione: _Arcad. Honor.
et Theodos._
Ma oggi mai s'è renduto manifesto per valenti e gravi Scrittori esser
quella finta e supposta, non altramente, che la donazione del medesimo
Costantino[595]. Giacomo Gotofredo[596] a minuto per cento pruove
dimostra la sua falsità, tanto che bisogna non aver occhi per poterne
dubitare: si vede ella manifestamente aggiunta al Codice di Teodosio in
luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine di quello, intitolata con queste
parole: _Hic titulus deerrabat a Codice Theodosiano_: si porta ancora
senza Console, e senza data dell'anno: e tutta opposta a molt'altre
costituzioni inserite in quel Codice stesso: non si vede posta nel
Codice di Giustiniano, nè di lei presso agli Scrittori dell'Istoria
Ecclesiastica hassi memoria alcuna.
Coloro che l'attribuiscono a Teodosio, di cui la vera legge[597] si
vede dopo questa supposta costituzione, vanno di gran lunga errati;
imperciocchè questa vera legge di Teodosio è tutta contraria a quella,
determinandosi per essa, che i Vescovi non possano aver cognizione,
se non delle materie di religione, e che gli altri processi degli
Ecclesiastici sieno determinati e sentenziati da' Giudici ordinarj:
e non è credibile, che Teodosio avesse voluto inserire nel suo Codice
una legge tutta contraria alla sua. Di vantaggio le leggi degli altri
Imperadori, rapportate in quel Codice, benchè fatte in favor della
Chiesa, non l'attribuiscon però tal giustizia, e spezialmente la
Novella[598] di Valentiniano III. è direttamente contraria, dicendo,
che secondo le leggi degl'Imperadori, la Chiesa non ha giurisdizione,
e che seguendo il Codice Teodosiano, ella non può conoscere, che delle
materie di religione.
Ma oltre alla vera legge di Teodosio di sopra rapportata, si vede,
che in tempo d'Arcadio e d'Onorio, la Chiesa non aveva se non la
sua primitiva ragione di conoscere per forma d'arbitrio, ancorchè
ciò eziandio le venisse contrastato, laonde promulgaron essi una
legge, per mantenergliela, di cui ecco le parole: _Si qui ex consensu
apud sacrae legis Antistitem, litigare voluerint, non vetentur sed
experientur illius, in civili dumtaxat negotio, more arbitri sponte
reddentis judicium_[599]. E questa fu la pratica della Chiesa in
questi secoli, che i Vescovi s'impiegavano per forma d'arbitrio in
comporre le liti, che loro per consenso delle parti erano riportate,
come ne fanno testimonianza Basilio[600], e con addurne gli esempli,
Gregorio Neocesariense, Ambrogio, Agostino e gli Scrittori dell'Istoria
Ecclesiastica Socrate, e Niceforo[601]. Ciò che durò lungamente fino a'
tempi di Giustiniano, il quale fu il primo, che cominciò ad augmentare
la conoscenza de' Vescovi per le sue _Novelle_, come vedremo nel sesto
secolo: poichè negli ultimi tempi, ne' quali siamo di Valentiniano III
egli è costante, che i Vescovi non avevano, nè Foro, nè territorio,
nè potevan impacciarsi d'altre cause, che di religione così tra'
Cherici, come tra' Laici, siccome Valentiniano stesso n'accerta per
una sua molto notabile _Novella_[602], di cui eccone le principali
parole: _Quoniam constat Episcopos Forum legibus non habere, nec de
aliis causis, quam de Religione posse cognoscere, ut Theodosianum
Corpus ostendit; aliter eos judices esse non patimur, nisi voluntas
jurgantium sub vinculo compromissi procedat, quod si alteruter nolit,
sive laicus, sive clericus sit, agent publicis legibus, et jure
communi_; aggiungendo, che i Cherici possano esser citati innanzi al
Giudice secolare: ciò che senza dubbio era il diritto e la pratica
innanzi Giustiniano, come si vede in molte leggi del suo Codice[603]: e
questo solo privilegio era dato agli Ecclesiastici, di non poter essere
tirati a piatire fuori del lor domicilio e dimora; e nelle province
non potevan essere convenuti innanzi altro Giudice, che avanti il
Rettore della provincia; siccome a Costantinopoli innanzi al Prefetto
Pretorio[604].
Così è, che intorno la conoscenza della Chiesa nelle cause, non si
mutò niente in questi tempi di quel che praticavasi negli tre primi
secoli: nè in queste nostre province ebbero i nostri Vescovi giustizia
perfetta, nè Foro, nè territorio: nè per quel che s'attiene a questa
parte, lo Stato ecclesiastico portò, fino a questo tempo, alcuna
mutazione nel politico e temporale, restringendosi la sua conoscenza
alle cause di religione, che giudicava per via di politia, ed a
quell'altre due occorrenze dette di sopra: e tutta la giurisdizione ed
imperio era de' Magistrati secolari, innanzi a' quali sia Prete, sia
laico, si ricorreva per le cause, così civili, come criminali, senza
eccezione veruna.
Ma quantunque per questa parte non s'apportasse allo Stato civile
alterazione alcuna, non fu però, che in questi medesimi tempi non si
cagionasse qualche disordine, per ciò che concerne l'acquisto de' beni
temporali, che tratto tratto agli Ecclesiastici, ed alle Chiese, per la
pietà de' Fedeli si donavano, ovvero per la troppo avarizia de' Cherici
si proccuravano.

§. IV. _Beni temporali._
Chi dice religione, dice ricchezze, scrisse il nostro Scipione
Ammirato[605], che fu Canonico in Firenze; e la ragione è in pronto,
e soggiunge, perchè essendo la religione un conto, che si tiene a
parte con M. Domenedio; ed avendo i mortali in molte cose bisogno
di Dio, o ringraziandolo de' beni ricevuti, o dei mali scampati,
o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente
succedano, necessariamente segue, che de' nostri beni, o come grati, o
come solleciti facciamo parte, non a lui, il quale Signor dell'Universo
non ha bisogno di noi, ma a' suoi tempj, e a' suoi Sacerdoti. Data
che fu dunque da Costantino pace alla Chiesa, potendosi professar da
tutti con piena libertà la nostra religione, cominciò in conseguenza a
crescer quella di beni temporali. Prima di Costantino le nostre Chiese,
come una certa spezie d'unione ed assembramento reputato illecito,
non potevan certamente per testamento acquistar cosa alcuna, non meno,
che le Comunità de' Giudei, e gli altri Collegi, che non aveano in ciò
alcun privilegio[606].
Questi Corpi erano ancora riputati come persone incerte, e per
conseguenza i legati a loro fatti non aveano alcun vigore. Ne' tempi
poi del Divo Marco[607] fu fatto un _Senatus consulto_, col quale si
diede licenza di poter lasciare a' Collegi, o ad altre Comunità ciò,
che si volesse[608]. Fu perciò rilasciato il rigore, che prima vi era;
e quantunque le nostre Chiese come Collegi illeciti, non potevan esser
comprese sotto la disposizione del senatusconsulto, con tutto ciò si
osserva, che nel terzo secolo, sia per tolleranza, sia per connivenza,
cominciavano ad avere delle possessioni: ma subito, che Costantino
nell'anno 312 abbracciò la religione cristiana, rendendo con ciò non
pur leciti, ma venerandi e commendabili i nostri Collegi, si videro
le Chiese abbondar di beni temporali. E perchè non vi potesse sopra
di ciò nascer dubbio, e maggiormente si stimolasse la liberalità de'
Fedeli a lasciargli, promulgò nell'anno 321 un editto, che dirizzò al
Popolo romano, col quale si diede a tutti licenza di poter lasciare
ne' loro testamenti ciò che volessero alle Chiese, ed a quella di Roma
spezialmente[609]. Così Costantino cotanto della cristiana religione
benemerito arricchì le nostre Chiese, e non solamente per questa via,
ma anche per avere ordinato, che si restituissero a quelle tutte le
possessioni, che ad esse appartenevano, e che ne' tempi di Diocleziano,
e di Massimiano eran loro state tolte, sopra di che promulgò anche un
altro editto rapportato da Eusebio[610]. In oltre stabilì, che i beni
de' Martiri, se non aveano lasciati eredi, si dessero alle Chiese, come
afferma l'Autor della sua vita[611].
Ma siccome questo Principe per la nuova disposizione, che diede
all'Imperio, fu riputato più tosto distruggitore dell'antico, che
facitore d'un nuovo, così anche fu da molti accagionato, che più
tosto recasse danno alla Chiesa per averla cotanto arricchita, che
l'apportasse utile; poichè in decorso di tempo gli Ecclesiastici per
l'avidità delle ricchezze ridussero la faccenda a tale, che oltre a
dimenticarsi del loro proprio ufficio, ad altro non badando, che a
tirare e rapire l'eredità de' defunti, furon cagione di molti abusi
e gravi disordini, che perciò nella Repubblica si introdussero: tanto
che obbligaron i Principi successori di Costantino a por freno a tanta
licenza.
Ne' suoi tempi S. Giovan Crisostomo[612] deplorava questi abusi, e si
doleva, che dalle ricchezze delle Chiese n'erano nati due mali, l'uno
che i laici cessavano d'esercitarsi nelle limosine: l'altro che gli
Ecclesiastici, trascurando l'ufficio loro, ch'è la cura delle anime,
diventavano Procuratori, Economi, e Dazieri, esercitando cose indegne
del loro ministerio.
Non erano ancora cinquant'anni passati, da che Costantino promulgò
quelle leggi, che per l'avarizia degli Ecclesiastici, sempre accorti
in profittarsi della simplicità massimamente delle donne, fu costretto
Valentiniano il Vecchio nell'anno 370 a richiesta forse, come suspicano
alcuni, di Damaso Vescovo di Roma, di promulgare altra legge[613],
con cui severamente proibì a' Preti ed a' Monaci di poter ricever sia
per testamento, sia per atto tra' vivi qualunque eredità, o roba da
vedove, da vergini o da qualsivoglia altra donna, proibendo loro, che
non dovessero con quelle conversare, siccome purtroppo licenziosamente
facevano; contro alla quale cattiva usanza declamarono ancora
Ambrogio e Girolamo: e questa legge, oltre ad essere stata dirizzata a
Damaso, fu ancora fatta pubblicare in tutte le chiese di Roma, perchè
inviolabilmente si osservasse. Estese in oltre Valentiniano questa
sua costituzione a' Vescovi, ed alle vergini a Dio sacrate, a' quali
insieme con gli altri Cherici, e Monaci proibì simili acquisti[614].
Venti anni appresso per le medesime cagioni fu astretto Teodosio il
Grande a promulgarne un'altra consimile[615], per la quale fu vietato
alle Diaconesse per la soverchia conversazione, che tenevan con gli
Ecclesiastici, di poter lasciare a' Monaci, o Cherici le loro robe
in qualunque modo, che tentassero di farlo, anzi questo Principe
vietò ancora alle medesime Diaconesse di poter lasciare eredi le
Chiese, e nemmeno i poveri stessi, ciò, che Valentiniano non osò di
fare: se bene Teodosio dopo due mesi rivocò in parte questa sua legge
permettendo[616] alle Diaconesse di poter lasciare a chi volessero i
mobili: ancorchè l'Imperador Marciano nella sua Novella[617] reputasse
in tutto aver rivocata Teodosio la sua legge, siccome infine volle
far egli, di che è da vedersi Giacomo Gotofredo ne' suoi lodatissimi
Comentarj[618].
I Padri della Chiesa di questi tempi non si dolevano di tali leggi, nè
che i Principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero,
che perciò si fosse offesa l'immunità, o libertà della Chiesa; erano
in questi tempi cotali voci inaudite, nè si sapevano; ma solamente
dolevansi delle ragioni, che producevano tali effetti, e che mossero
quegl'Imperadori a stabilirle, cioè di loro medesimi, e della pur
troppa avarizia degli Ecclesiastici, che se l'aveano meritate: ecco
come ne parla S. Ambrogio[619]: _Nobis etiam privatae successionis
emolumenta recentibus legibus denegantur, et nemo conqueritur. Non enim
putamus injuriam, quia dispendium non dolemus, etc._ Più chiaramente
lo disse S. Girolamo[620], scrivendo a Nepoziano; _Pudet dicere,
Sacerdotes Idolorum, Mimi, et Aurigae, et Scorta haereditates capiunt,
solis Clericis, ac Monachis hac lege prohibetur: et non prohibetur a
Persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de lege conqueror,
sed doleo cur meruerimus hanc legem. Cauterium bonum est; sed quo mihi
vulnus, ut indigeam cauterio? Provida, securaque legis cautio: et tamen
nec sic refrenatur avaritia, per fideicommissa legibus illudimus, etc._
Così è, che in questi tempi s'apparteneva alla giurisdizione, e potestà
del Principe il rimediare a questi abusi, e dar quella licenza, o porre
quel freno intorno agli acquisti de' beni temporali delle Chiese, ch'e'
riputava più conveniente al bene del suo Stato. Ciò che ne' secoli
men a noi remoti in tutti i dominj d'Europa fu dagli altri Principi
lodevolmente, e senza taccia di temerità imitato. Così Carlo M. di
gloriosa memoria praticò nella Sassonia; e nell'Inghilterra Odoardo
I, e III, ed Errico V[621]. Nella Francia lo stesso fu osservato da
S. Lodovico[622], ch'è cosa molto notabile, e poi successivamente
confermato da Filippo III, da Filippo il bello, da Carlo il bello, da
Carlo V, da Francesco I, da Errico II, da Carlo IX e da Errico III. Ed
abbiamo un arresto presso a Papponio[623], per cui il Senato di Parigi,
proibì i nuovi acquisti a' Cartusiani, e Celestini. Nella Spagna
Giacomo, Re d'Aragona[624] statuì simili leggi ne' Regni soggetti a
quella Corona; siccome nella Castiglia, in Portogallo, ed in tutti gli
altri Regni di Spagna osservasi il medesimo, ci attestano Narbona, e
Lodovico Molina[625]: ed in varj luoghi di Germania, e della Fiandra si
osservano consimili statuti[626]. Nell'Olanda Guglielmo III Conte con
suo editto dell'anno 1328 lo proibì severamente[627]. E nell'Italia in
Venezia, ed in Milano si pratica il medesimo[628]: nè vi è provincia in
Europa, nella quale i Principi non riconoscano appartenere ad essi, ed
alla loro potestà fornire i loro Stati di simili provedimenti.
Nelle province, ch'ora compongon il nostro Reame di Napoli, se si
riguardano i tempi, che corsero da Costantino fino a Valentiniano III,
le nostre chiese, che già tuttavia in Napoli, e nelle altre città
s'andavan da' Vescovi ergendo, non fecero considerabili acquisti: e
si conosce chiaro dal vedersi, che non possono recar in mezzo altri
titoli, se non procedenti, o da concessioni fatte loro da Principi
Longobardi, o da Normanni, che furon più profusi degli altri, o
finalmente da' Svevi, e dagli Angioini. I monasterj cominciarono nel
principio del Regno de' Longobardi a rendersi, per gli acquisti,
considerabili; ed ancorchè S. Benedetto nel tempo di Totila fosse
stato il primo ad introdurgli in Italia, non si vide però quello di
Monte Casino nella Campagna cotanto arricchito, se non nell'età de'
Re Longobardi: ma col correr degli anni moltiplicossi in guisa il
numero delle Chiese, e dei monasterj in queste nostre province, e
gli acquisti furono così eccessivi, che non vi fu città o castello,
piccolo o grande, che non ne rimanesse assorbito. Fu tal eccesso
ne' tempi dell'Imperador Federico II represso per una sua legge,
che oggi il giorno ancor si vede nelle nostre costituzioni[629], per
la quale, imitando, come e' dice, i vestigi de' suoi predecessori,
forse intendendo di questi Imperadori, o com'è più verisimile, de' Re
Normanni suoi predecessori, la costituzione dei quali ciò riguardante
si trova ora essersi dispersa, proibì ogni acquisto di stabili alle
Chiese.
(La costituzione di Federico II riguardante la proibizione degli
acquisti de' beni stabili alle Chiese, Monasterj, Templarj, ed
altri luoghi religiosi, è una rinovazione della costituzione antica,
che era nel Regno di Sicilia di qua e di là dal Faro, non già, che
l'Imperadore riguardasse alle costituzioni del Codice di Teodosio, o
di Giustiniano. Nelle risposte, che diedero i Vescovi di Erbipoli, di
Wormes, Vercelli, e di Parma a Papa Gregorio IX sopra l'accuse fatte a
questo Imperadore, che avesse spogliati i Templarj, e gli Ospitalieri
de' stabili, che possedevano, dicono, che Federico non fece altro,
che rivocare alcune compre, che essi aveano fatte in Sicilia di beni
Burgensatici contro il prescritto di questa antica costituzione, che
avea avuto nel Regno di Sicilia sempre vigore ed osservanza. Le parole
dell'accusa, e della difesa sono le seguenti, le quali si leggono
non meno presso _Goldasto_[630], che presso _Lunig_[631]. PROPOSITIO
ECCLESIAE: _Templarii et Hospitalarii bonis mobilibus et immobilibus
spoliati, juxta tenorem pacis non sunt integre restituti_. RESPONSIO
IMPERIALIS: _De Templariis et Hospitalariis verum est, quod per
judicium, et per antiquam Constitutionem Regni Siciliae, revocata sunt
feudalia, et burgasatica, quae habuerunt per concessionem Invasorum
Regni, quibus equos, arma, victualia, et vinum, et omnia necessaria
ministrabunt abunde, quando infestabant Imperatorem, et Imperatori,
tunc Regi, pupillo, et destituto, omne omnino subsidium denegabant.
Alia tamen feudalia et burgasatica dimissa sunt eis, qualitercumque ea
acquisierunt et tenuerunt ante mortem Regis Willielmi II seu de quibus
haberent concessionem alicujus Antecessorum suorum. Nonnulla vero
burgasatica quae emerunt, revocata sunt ab eis secundum formam antiquae
Constitutionis Regni Siciliae, quod nihil potest eis sine consensu
Principis de burgasaticis inter vivos concedi, vel in ultima voluntate
legari, quin post annum, mensem, septimanam, et diem, aliis burgensibus
secularibus vendere, et concedere teneantur. Et hoc propterea fuit ab
antiquo statutum, quia si libere eis, et perpetuo burgasatica liceret
emere sive accipere, modico tempore totum Regnum Siciliae (quod inter
Regiones mundi sibi habilius reputarent) emerent, et adquirerent; et
hoc eadem Constitutio obtinet ultra mare)_.
Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre
massime, che persuasero non potere il Principe rimediare a questi
abusi; e riputata per ciò la costituzione di Federico, empia ed
ingiuriosa all'immunità delle Chiese, si ritornò a' disordini di
prima; e se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe stata
comportabile; ma da poi si videro le Chiese, e' Monasterj abbondare di
tanti Stati e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta
loro d'assorbire quel poco, ch'è rimaso in potere dei secolari: ma di
ciò più opportunamente si favellerà ne' libri seguenti, potendo bastare
quel che finora s'è detto della politia ecclesiastica di queste nostre
province del quarto, e metà del quinto secolo.

FINE DEL LIBRO SECONDO.


STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO TERZO

I varj moti civili, le grandi mutazioni di Stato, e le vicende della
giurisprudenza romana, che avvennero dopo la morte di Valentiniano
III infino al Regno di Giustino II Imperadore, saranno il soggetto di
questo libro. Si narreranno gli avvenimenti di un secolo, nel quale
nuovi dominj, straniere genti, e nuove leggi vide l'Italia, e videro
queste nostre province, che ora compongono il Regno di Napoli. Infino
a questo tempo non altri Magistrati si conobbero, non altre leggi, se
non quelle de' Romani: da ora innanzi si vedranno mescolate con quelle
di straniere Nazioni, le quali, ancorchè barbare, meritan però ogni
commendazione, non solo per le molte ed insigni virtù loro, ma anche
perchè furon delle leggi romane così ossequiose e riverenti, che non
pur non osaron oltraggiarle, ma con somma moderazione, contro alle
leggi della vittoria, che dettavano di far passare i vinti sotto le
leggi dei vincitori, le ritennero. Non aspettino per tanto i Lettori,
che dovendo io in questo, e ne' seguenti libri favellar de' Goti, de'
Longobardi, e de' Normanni, che hanno una medesima origine, debbia,
come han fatto moltissimi, aspramente trattargli da inumani, da fieri,
e da crudeli, ed avere le loro leggi per empie, ingiuste, ed asinili,
come vengon per lo più da' nostri Scrittori riputate. Splenderà ancora
nelle gesta de' loro Principi, non meno la fortezza e la magnanimità,
che la pietà, la giustizia, e la temperanza; e le loro leggi, e i loro
costumi, se bene non potranno paragonarsi con quelli degli antichi
Romani, non dovranno però posporsi a quegli degli ultimi tempi dello
scadimento dell'Imperio, ne' quali la condizione d'esser Romano divenne
più vile ed abbietta, che quella di coloro, che barbari e stranieri
furono riputati.
Dovendo adunque prima d'ogn'altro favellar de' Goti, non è del mio
instituto, che venga da più alti principj a narrar la loro origine, e
da qual parte del Settentrione usciti, venissero ad inondare queste
nostre contrade. Non mancano Scrittori, che ci descrissero la loro
origine, i progressi, e le conquiste sopra varie regioni d'Europa;
ed ultimamente l'incomparabile Ugone Grozio[632] ne trattò con
tanta esattezza e dignità, che oscurò tutti gli altri: quel che però
dee sommamente importare, sarà il distinguere con chiarezza i Goti
Orientali dagli occidentali: poichè dall'avergli alcuni nostri Autori
confusi e non ben distinti, han parimente confuse le loro leggi e
costumi, ed appropriato agli uni ciò, che s'apparteneva agli altri,
come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questo libro.
L'origine del loro nome non è molto oscura: essi che per l'ospitalità
e cortesia verso i forastieri furono assai rinomati e celebri, anche
prima che abbracciassero il Cristianesimo, s'acquistarono presso a'
Germani il nome di buoni: _Boni_, dice Grozio[633] _Germanis sunt
Goten, aut Guten_: onde avvenne, che poi presso a tutte l'altre
Nazioni d'Europa _Goti_ s'appellassero. Furono divisi secondo i siti
delle regioni, che abitarono, in Goti Orientali, o siano _Ostrogoti_,
e Goti Occidentali, ovvero _Westrogoti_, che i Latini corrottamente
chiamarono Visigoti. Quegli ch'abitarono le regioni più all'Oriente
rivolte verso il Ponto Eussino, insino al fiume Tiras, e che poi con
permissione degli Imperadori orientali ebbero la Pannonia, la Tracia,
ed ultimamente l'Illirico per loro sede, furon appellati _Ostrogoti_,
ed eran governati da Principi della non meno antica, che illustre Casa
degli _Amali_, donde trasse la sua origine Teodorico Ostrogoto, che
resse queste nostre province. Gli altri, che verso Occidente furono
rivolti, e che a' tempi d'Onorio ressero l'Aquitania, e la Narbona, e
da poi molte province della Spagna, _Westrogoti_ furon nominati: questi
erano comandati dai Principi della Casa de' _Balti_: gente illustre
altresì, ma non quanto la stirpe degli Amali, la quale in nobiltà
teneva il vanto: Tolosa fu la loro sede, capitale della provincia,
detta poi per la loro residenza questa contrada Guascogna, che tanto
vuol dire in loro lingua, quanto Gozia Occidentale[634]; benchè altri
dicano, che da' Vasconi, popoli di Spagna, che varcati i Pirenei
occuparono questa provincia, fosse detta Guascogna.


CAPITOLO I.
_De' Goti orientali, e delle loro leggi._

I Principi Vestrogoti della stirpe de' Balti, essendo stata loro
sotto l'Imperio d'Onorio, da questo Principe stabilmente assegnata
l'Aquitania, e molte altre città della Narbona, in Tolosa fermaron
la loro sede, onde poi Re di Tolosa si dissero. Essi a tutto potere
proccuravano stender il lor dominio nell'altre province della Gallia,
e delle Spagne, le quali eran da' Vandali malmenate ed oppresse. Più
volte a _Vallia_, che, come si disse nel precedente libro, a Rigerico
successor di Ataulfo succedè, fortunatamente avvenne, che nelle Spagne
trionfasse d'essi, e lor desse molte gravi, memorabili rotte. Morì
Vallia, dopo aver riportate contro a' Vandali tante vittorie, in Tolosa
l'anno di Cristo 428 ed a lui succedè nel Regno _Teodorico_[635]. Gli
scrittori variano nel nome di questo Principe: Gregorio di Tours[636]
lo chiama Teudo: Isidoro, Teudorido: Idacio, Teodoro; ma noi seguendo
Giornandes[637] Scrittore il più antico, e 'l più accurato delle cose
de' Goti lo chiameremo con Alteserra[638] _Teodorico_. Resse questo
Principe l'Aquitania anni ventitrè, prode ed eccellente Capitano, che
contro ad Attila ne' campi di Chaalon diede l'ultime prove del suo
valore: fu egli in questa battaglia gravemente ferito, e sbalzato di
cavallo restò tutto infranto, ed indi a poco morì. Lasciò di lui sei
figliuoli maschi, Torrismondo, Teodorico il Giovane, Federico, Evarico,
Rotemero, ed Aimerico, ed una figliuola, che collocolla in matrimonio
con Unnerico figliuolo di Gizerico Re de' Vandali.
_Torrismondo_ adunque succedè nel Reame, il quale, ancorchè si
fosse trovato insieme col padre contro ad Attila, e fosse stato in
quella battaglia ferito, intesa ch'ebbe la morte del medesimo, tornò
subito in Tolosa, ove con universale acclamazione fu nel Trono regio
assunto[639]. Il Regno di questo Principe ebbe brevissima durata, e se
dee prestarsi fede ad Isidoro, non imperò più che un sol anno; poichè
per opera di Teodorico e Federico suoi fratelli, che mal soffrivan il
suo governo, fu crudelmente ucciso[640].
_Teodorico il Giovane_ suo fratello gli succedè nel Regno: Principe,
secondo Sidonio Apollinare[641], dotato di nobili ed eccellenti virtù:
ed ancorchè il genio degli Vestrogoti mal s'adattasse alle leggi
romane, contra il costume degli Ostrogoti, che l'ebbero sempre in
somma stima e venerazione, fu non però Teodorico II amantissimo delle
medesime, e n'ebbe grandissima stima.
Gli Vestrogoti per le continue guerre, ch'ebbero co' Romani, furon
non poco avversi alle leggi romane; tanto che parlando de' loro
tempi, ebbe a dire Claudiano[642] : _Moerent captivae pellito judice
leges_. Ataulfo loro Re, che, come si disse, ad Alarico I succedè,
per la ferocia del suo animo, già meditava d'esterminarle in tutto;
ma raddolcito per le continue persuasioni e conforti di Placidia
sua moglie cotanto da lui amata, se n'astenne, e mutò consiglio; ed
ancorchè i suoi Goti mal ciò soffrissero, pur egli appresso Orosio[643]
confessò, che non poteva senza quelle la Repubblica perfettamente
conservarsi, nè gli dava il cuore di toglierle affatto: _Neque
Gothos, e' dice, ullo modo parere legibus posse, propter effraenatam
barbariem, neque Reip. interdici leges oportere, sine quibus Resp. non
est Respublica_. Onde narrasi[644], che questo Principe nell'anno 412
avesse per pubblico editto comandato a' suoi sudditi, che le leggi de'
Romani insieme co' costumi de' Goti osservassero. Goldasto[645] tra le
costituzioni imperiali ne rapporta l'editto, ma si vede esser conceputo
coll'istesse parole poc'anzi riferite di Orosio, e molte cose in esso
aggiunte, che in quell'Autore non sono.
Ma a Teodorico il Giovane, del quale si favella, fu in tanto pregio lo
studio delle romane leggi, che Sidonio Apollinare[646] introducendolo
in un suo Carme a parlar con Avito, così gli fa dire:
————— _mihi Romula dudum_
_Per te jura placent._
Ed altrove[647] chiamò questo Teodorico _.... Romanae columen, salusque
gentis_. Ed appresso Claudiano, parlandosi di questo Principe,
come osservò Grozio[648] pur si legge, _Vindicet Arctous violatas
advena leges_. Nè gli Vestrogoti, ne' tempi di questo Re, o de' suoi
predecessori ebbero proprie leggi scritte, nè si presero mai cura di
formarle.
Ma morto Teodorico nel decimoterzo anno del suo Regno, essendogli
stato renduto da Evarico ciò che egli fece a Torrismondo, succedette
nel Reame _Evarico_ suo fratello. Questi fu il primo, che diede a'
Goti le leggi scritte, come ce n'accerta Isidoro[649]: _Sub hoc Rege
Gothi legum instituta scriptis habere coeperunt, nam antea tantum
moribus, et consuetudine tenebantur_: per la qual cosa da Sidonio[650]
in un epistola, che dirizzò all'Imperadore Lione, fu celebrato Evarico
per Principe saggio, e conditor di leggi: _Modo per promotae limitem
sortis, ut Populos sub armis, sic fraenat arma sub legibus_.
Nel Regno di questo Principe cominciaron le leggi de' Romani ad
oscurarsi, non già in Italia, ma nell'Aquitania, e nella Narbonia, ed
in alcun'altre province della Spagna; poichè queste nuove leggi, che
_Teodoriciane_ furon dette, proposte per opera de' Goti a' provinciali,
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