Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 21

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Teodorico, e poi del suo successore Atalarico fu di reggere l'Italia,
e queste nostre province col medesimo spirito e forma, colla quale
si resse l'Imperio sotto gl'Imperadori; ed è costante opinione de'
nostri Scrittori, che le cose d'Italia sotto il suo Regno furon più
quiete e tranquille, che ne' tempi degli ultimi Imperadori d'Occidente,
e ch'egli fosse stato il primo, che facesse quietare tanti mali e
disordini.
Quindi è avvenuto, che ancor che queste nostre province passassero da'
Romani sotto la dominazione de' Goti, non s'introducessero, siccome
nell'altre province dell'Imperio romano, quelle servitù ne' Popoli,
che passati sotto altre Nazioni sofferirono. Così quando la Gallia fu
conquistata da' Franzesi, fu trattata come paese di conquista; essendo
cosa certa, che si fecero signori delle persone e de' retaggi di
quella, cioè si fecero signori perfetti, così nella signoria pubblica,
come nella proprietà e signoria privata[762]: ed in quanto alle
persone, essi fecero i naturali del paese servi, non già di un'intera
servitù, ma simili a quelli, che i Romani chiamavan Censiti, ovvero
Ascrittizj, o Coloni addetti alla gleba[763]. Non così trattaron i Goti
l'Italia, la Sicilia, e queste nostre province, ma lasciaron intatta
la condizione delle persone, poichè non gli governava un Principe
straniero, ma un Re, che si pregiava di vivere alla romana, e di
serbare le medesime leggi ed instituti de' Romani. Furon bensì in molti
villaggi delle nostre province di questi Ascrittizj, e Censiti (siccome
vi furon anche de' servi, perchè a' tempi de' Goti l'uso de' medesimi
non s'era dismesso[764]) ma quelli stessi, loro discendenti, in quella
maniera, che prima si tenevano dai Romani, e di essi ci restano ancora
molti vestigi nei Codici di Teodosio e di Giustiniano, che poi i secoli
seguenti chiamaron angarj e parangarj[765]. Ciò che si conferma per
un avvenimento rapportato da Ugone Falcando in Sicilia a' tempi del
Re Guglielmo II, poichè essendo i cittadini di Caccanio ricorsi al Re
contra Giovanni Lavardino franzese, il quale affliggeva i terrazzani,
con esigere la metà delle loro entrate, secondo che diceva esser la
consuetudine delle sue terre in Francia; e riportate queste querele
al G. Cancelliero, ch'era allora Stefano di Parzio, perchè questi
era ancor egli franzese, lasciò la cosa senza provvedimento, onde i
suoi nemici gli concitarono l'odio di tutti i Siciliani, e di molti
cittadini e terrazzani, gridando, ch'essi eran liberi, e che non dovea
permettere, secondo l'uso di Francia: _Ut universi Populi Siciliae
redditus annuos, et exactiones, solvere cogerentur juxta Galliae
consuetudinem, quae cives liberos non haberet_.
Ed in quanto a' retaggi e terre della Gallia, i Franzesi vittoriosi
le confiscaron tutte, attribuendo allo Stato l'una e l'altra signoria
di quelle[766]. E fuori di quelle terre, che ritennero in dominio del
Principe, distribuiron tutte l'altre a' principali Capi e Capitani
della loro Nazione; a tal uno dando una provincia a titolo di Ducato;
ad un altro un paese di frontiera a titolo di Contea; e ad altri de'
castelli e villaggi con alcune terre d'intorno a titolo di Baronia,
Castellania, o semplice Signoria, secondo i meriti particolari di
ciascheduno, ed il numero de' soldati, ch'aveva sotto di se; poichè
davansi così per essi, che per li loro soldati. Non così fecero i Goti
in Italia, ed in queste nostre province, poichè si lasciarono le terre
a loro posseditori, nè s'inquietò alcuno nella privata signoria de'
loro retaggi: e le province e le città eran amministrate da' medesimi
Ufficiali, che prima, secondo che si governavano sotto l'Imperio di
Valentiniano e degli altri Imperadori d'Occidente suoi predecessori. Nè
in Italia, ed in queste nostre province l'uso de' Feudi, e de' Ducati
e Contadi fu introdotto, se non nel Regno de' Longobardi, come diremo
nel quarto libro di questa Istoria.

§. VI. _Insigni virtù di TEODORICO, e sua morte._
Fu veramente Teodorico di tutte quelle rade e nobili virtù ornato, che
fosse mai qualunque altro più eccellente Principe, che vantassero tutti
i secoli. Per la sua pietà e culto al vero Iddio, fu con immense lodi
celebrato da Ennodio Cattolico, Vescovo di Pavia. E se bene istrutto
nella religione cristiana, i suoi Dottori gliela avessero renduta
torbida e contaminata per la pestilente eresia d'Arrio, siccome fecero
a tutti i Goti; questa colpa non a' Goti dee attribuirsi, ma a' Romani
stessi, e spezialmente all'Imperadore Valente, che mandando ad istruir
questa Nazione nella religione cristiana, vi mandò Dottori Arriani;
tanto che Salviano[767], quel Santo Vescovo di Marsiglia, nomò questa
loro disgrazia, fallo non già de' Goti, ma del Magisterio romano, e
testifica questo Santo Vescovo, che nel medesimo lor errore non altro
fu da essi riguardato, se non che il maggior onore di Dio: e per questa
pia loro credenza ed affetto, non dover essere i Goti reputati indegni
della fede cattolica, i quali, comparate le lor opere con quelle de'
Cattolici, di gran lunga eran a costoro in bontà e giustizia superiori,
o si riguardi la venerazione delle Chiese, o la fede, o la speranza, o
la carità verso Dio; quindi è che Socrate[768], Scrittore dell'Istoria
Ecclesiastica, a molti Goti, che per la religione furono da' Pagani
uccisi, dà il titolo di Martiri, come quelli, che con semplice e
divoto cuore eransi a Cristo lor Redentore dedicati. E se per altrui
colpa incorsero i Goti in quest'errore, ben fu questa macchia tolta
e compensata col merito di Riccaredo del loro sangue, che purgò
dall'Arrianesmo tutta la Spagna.
E fu singular pietà de Goti, e di Teodorico precisamente d'astenersi
da ogni violenza co' suoi sudditi intorno alla religione, nè perchè
essi eran dei dogmi Arriani aspersi, proibiva perciò a' suoi Popoli di
confessar la fede del gran Concilio di Nicea[769]; anzi Teodorico in
tutto il tempo, che resse l'Italia e queste nostre province, non pure
lasciò inviolata ed intatta la religione cattolica a' suoi sudditi,
ma si permetteva ancor a' Goti stessi, se volessero dall'Arrianesmo
passare alla fede di Nicea, che liberamente fosse a lor lecito di
farlo.
Maggiore rilucerà la pietà di questo Principe, in considerando,
che della cattolica religione, ancorchè da lui non professata,
ebbe egli tanta cura e pensiero, che non permetteva, che al governo
della medesima s'eleggessero, se non Vescovi di conosciuta probità
e dottrina, de' quali fu egli amantissimo e riverente: di ciò presso
a Cassiodoro[770] ce ne dà piena testimonianza il suo nipote stesso
Atalarico: _Oportebat enim arbitrio boni Principis obediri, qui
sapienti deliberatione pertractans, quamvis in aliena Religione, talem
visus est Pontificem delegisse, ut agnoscatis illum hoc optasse,
praecipue quatenus bonis Sacerdotibus Ecclesiarum omnium Religio
pullularet._
Quindi avvenne, come Paolo Varnefrido, e Zonara raccontano[771],
ch'essendo nato ne' suoi tempi quel grave scisma nella Chiesa romana,
tosto fu da lui tolto col convocamento d'un Concilio, e le cose
restituite in una ben ferma e tranquilla pace. Si leggon ancora
di questo Principe rigidissimi editti, come similmente d'Atalarico
suo nipote, per li quali severamente vengon proibite tutte quelle
ordinazioni di Vescovi, che per ambizione, o interveniente denaro
si facessero, annullandole affatto, e di niun momento e vigore
riputandole[772]; siccome più distesamente diremo, quando della politia
ecclesiastica di questo secolo favelleremo. E pur di Teodorico si
legge, che quantunque nudrisse altra religione, volle che i Vescovi
cattolici per lui porgessero calde preghiere a Dio, delle quali sovente
credette giovarsi. Per la qual cosa non dee parere strano, siccome
dice Grozio, che Silverio Vescovo cattolico romano fosse stato a' Greci
sospetto, quasi che volesse e desiderasse più la Signoria de' Goti in
Italia, che quella de' Greci stessi.
Ed alla pietà di questo Principe noi dobbiamo, che queste nostre
province, ch'ora formano il Regno di Napoli, ancorchè sotto la
dominazione de' Goti Arriani poco men che 70 anni durassero, non
fossero di quel pestilente dogma infestate, ma ritenessero la cattolica
fede, così pura ed intatta, come i loro maggiori l'avevan abbracciata,
e che potè poi star forte e salda alle frequenti incursioni de'
Saraceni, che nei seguenti tempi l'invasero e le combatterono:
imperocchè piacque a Teodorico non pur lasciarla così stare, come
trovolla, ma di favorirla, ed esser eziandio della medesima custode
e difensore: dal cui esemplo mossi Atalarico, e gli altri Goti suoi
successori, si fece in modo, che durante il loro dominio, non restò
ella nè perturbata nè in qualunque modo contaminata.
Della giustizia, umanità, fede, e di tutte l'altre più pregiabili
e nobili virtù di questo Principe, non accade, che lungamente se ne
ragioni: Cassiodoro nei suoi libri ci fa ravvisare una immagine di
Regno così culto, giusto e clemente, che a ragione potè Grozio[773]
dire: _planeque si quis cultissimi, clementissimique Imperii formam
conspicere voluerit, ei ego legendas censeam Regum Ostrogothorum
Epistolas, quas Cassiodorus collectas edidit_. Onde non senza cagione
potevan i Goti appresso Belisario vantarsi di questa lode[774]: nè
senza ragione Teodorico stesso potè dire: _Aequitati fave: eminentiam
animi virtute defende, ut inter nationum consuetudinem perversam,
Gothorum possis demonstrare justitiam_: ed altrove: _Imitamini certe
Gothos nostros, qui foris praelia, intus norunt exercere justitiam_.
E fu cotanto lo studio e la cura di questo Principe nel reggere i
suoi sudditi con una esatta e perfetta giustizia, che si dichiarò co'
medesimi volersi portar con esso loro in modo, che si dolessero più
tosto d'esser così tardi venuti sotto l'imperio de' Goti. Procopio
ancorchè Greco, non può non innalzare queste regie ed insigni sue
virtù: egli custode delle leggi; giusto nell'assegnare i prezzi
all'annona; esatto ne' pesi e nelle misure; e nell'imporre tributi,
fu maravigliosa la sua equabilità, e sovente per giuste cagioni era
pronto a rimettergli: se i suoi eserciti in passando danneggiavan i
paesani, soleva Teodorico ai Vescovi mandare il denaro per risarcirgli
de' patiti danni: se v'era bisogno di materia per fabbricar navi o di
munire d'altra guisa i suoi campi, pagava immantenente il prezzo: egli
liberalissimo co' poveri, e la maggior parte del suo regal impiego era
il sovvenimento e la cura de' pupilli e delle vedove, di che chiara
testimonianza ce n'ha data Cassiodoro.
La moderazione di questo Principe, da' suoi fatti di sopra esposti
è pur troppo nota: e' potendo far passare i vinti sotto le leggi
de' Goti vincitori, volle, che colle leggi proprie, colle quali
eran nati e nudriti, vivessero. Permise, che sotto il suo Regno Roma
fosse dallo stesso romano Senato governata: che giudicasse il Romano
tra' Romani: tra' Goti e Romani, il Goto ed il Romano. Che quella
religione ritenessero ch'avevan succhiata col latte[775], avversissimo
d'introdurre novità, come quelle, che sogliono essere sempremai alle
Repubbliche perniziosissime, e cagione di molti e gravi disordini.
La sua temperanza fu da Ennodio chiamata modestia sacerdotale: ei
secondo l'usanza della sua Nazione parchissimo ne' cibi, e molto più
sobrio nelle vesti. Nel suo Regno i Goti si mantennero continentissimi
e casti, nè fu insidiata la pudicizia delle donne: _Quae Romani
polluerant fornicatione_ dice Salviano[776], _mundant Barbari
castitate_: ed altrove: _Impudicitiam nos diligimus, Gothi execrantur,
puritatem nos fugimus, illi amant_. Vivevan di cibi semplicissimi,
di pane, di latte, di cascio, di butirro, di carne, e sovente cruda,
macerata solamente nel sale. Tralascio per brevità le sue virtù regie:
infin oggi s'ammirano in Roma ed in Ravenna i monumenti della sua
magnificenza negli edificj, negli acquedotti ed in altre splendide
opere. Dal corso de' suoi fatti egregi, incominciando dalla puerizia,
è pur troppo noto il suo valore, la fortezza, la sua magnanimità,
il suo sublime spirito, ed il suo genio sempre a grandi e difficili
imprese prontissimo. Principe e nella guerra e nella pace espertissimo,
donde nell'una fu sempre vincitore, e nell'altra beneficò grandemente
le città, ed i Popoli suoi: e la virtù sua giunse a tanto, che seppe
contenere dentro a' termini loro, senza tumulto di guerre, ma solo
con la sua autorità, tutti i Re barbari occupatori dell'Imperio. E
per restituire l'Italia nell'antica pace e tranquillità, molte terre
e fortezze edificò infra la punta del mare Adriatico e l'Alpi, per
impedire più facilmente il passo a' nuovi Barbari, che volessero
assalirla. Tanto ch'è costantissima opinione di tutti gli Scrittori,
che mediante la virtù e la bontà sua, non solamente Roma ed Italia,
ma tutte l'altre parti dell'occidental Imperio libere dalle continue
battiture, che per tanti anni da tante inondazioni di Barbari avevan
sopportate, si sollevarono, ed in buon ordine, ed assai felice stato si
ridussero.
So che alcuni credono esser queste tante virtù di Teodorico, state
imbrattate dall'insidie, e morte finalmente fatta dare ad Odoacre;
e nell'ultimo della sua vita da alcune crudeltà cagionate per varj
sospetti del Regno suo. con avere ancora fatto morire Simmaco, e
Boezio suo genero, Senatori, ed al Consolato assunti: uomini di
nobilissima stirpe nati, nello studio della filosofia consumatissimi,
religiosissimi, e per fama di pietà e di dottrina assai insigni.
Ma se vogliano questi fatti attentamente considerarsi, la ragion di
Stato difende il primo; e dell'essere stato crudele con Simmaco,
e Boezio, dobbiamo di quello stesso incolpar Teodorico, di che fu
incolpato da suoi domestici: _Id illi injuriae_, come dice Procopio,
_in subditos primum, ac postremum fuit, quod non adhibita, ut solebat,
inquisitione de viris tantis statuerat_. In questo solamente mancò
Teodorico, ch'essendo stati per invidia imputati Simmaco, e Boezio
di macchinar contro alla sua vita, ed al suo Regno, gli avesse
senza usare molta inquisizione in caso sì grave, in cui richiedevasi
somma avvedutezza, condennati a morte; del resto, come ben osservò
Grozio[777], _Actum ibi, non de Religione, quae Boëthio satis Platonica
fuit, sed de Imperii statu_. Non fu mosso certamente Teodorico da
leggier motivo, ma per cagione di Stato, non già di religione, come
alcuni credono. Ben si sono scorti, quali sentimenti fossero di questo
Principe intorno a lasciare in libertà le coscienze degli uomini, ed
appigliarsi a quella religione, che lor piacesse. Nè per Boezio poteva
accader ciò, la cui religione fu più platonica, che cristiana. E se
dee credersi a Procopio, ben di quel suo fallo poco prima di morire ne
pianse Teodorico amaramente con intensissimo dolore del suo spirito;
poichè essendosegli, mentre cenava, apprestato da' suoi Ministri un
pesce di grossissimo capo, se gli attraversò nella fantasia così al
vivo l'immagine di Simmaco, che parvegli quello del pesce essere il
costui capo, il quale con volto crudele ed orribile lo minacciasse,
e volesse della sua morte prender vendetta: tanto che spaventato per
sì portentosa veduta, corsegli per le vene un freddo, che obbligatolo
a mettersi a giacere, si fece coprir di molti panni; ed avendo
raccontato ad Elpidio suo Medico ciò che gli era occorso, _In Simmacum,
ac Boëthium quod peccaverat, deflevit: poenitentiaeque, ad doloris
magnitudine, non multo post obiit_, come narra Procopio.
Giornande niente dice di sì strano successo, ma lo fa morire di
vecchiezza, narrando, che Teodorico _postquam ad senium pervenisset,
et se in brevi ab hac luce egressurum cognosceret_, fece avanti di lui
convocare i Goti, e' principali Signori del Regno, a' quali disegnò
per suo successore _Atalarico_, figliuolo d'Amalasunta sua figliuola,
il quale morto Eutarico suo padre, pur dell'illustre stirpe degli
Amali, non avendo più, che dieci anni, sotto la cura ed educazione di
sua madre viveva. Non tralasciò morendo di raccomandare a' medesimi la
fedeltà, che dovevan portare al Re suo nipote; raccomandò loro ancora
l'amore e riverenza verso il Senato e Popolo romano, e sopratutto
incaricò, che dovesser mantenersi amico e propizio l'Imperadore
d'Oriente, col quale procurassero tener sempre una ben ferma e
stabil pace e confederazione: il qual consiglio avendo religiosamente
custodito Amalasunta, le cose de' Goti infinchè visse il suo figliuolo
Atalarico, andaron assai prosperamente; poichè per lo spazio d'otto
anni, che regnarono, mantennero il lor Reame in una ben ferma e
tranquilla pace. Tale fu la morte di questo illustre Principe, che
avvenne nell'anno 526 di nostra salute, dopo aver regnato poco men che
38 anni, e ridotta l'Italia, e queste nostre province nell'antica pace
e tranquillità.

§. VII. _Di ATALARICO Re d'Italia._
Prese il governo del Regno per la giovanezza di Atalarico, Amalasunta
sua madre. Principessa ornata di molte virtù, la quale uguagliò la
sapienza de' più savj Re della terra; ella governò il Reame, e la
giovanezza del suo figliuolo con tanta prudenza, che non cedeva guari
a quella di Teodorico suo padre. Ella, appena morto costui, ricordevole
de' suoi consigli, fece da Atalarico scrivere a Giustino I. Imperadore
(il qual essendo succeduto ad Anastasio, allora imperava nell'Oriente)
calde ed officiose lettere, per conservare tra essi quella concordia,
che Teodorico aveva incaricata. Altre parimente ne fece scrivere al
Senato ed al Popolo romano affettuosissime, e piene d'ogni stima le
quali ancor oggi appresso Cassiodoro leggiamo[778].
Mantenne quell'istessa forma ed istituto nel governo che Teodorico
tenne; nè durante il Regno di suo figliuolo permise, che alcuna cosa si
mutasse: le medesime leggi si ritennero[779], gl'istessi Magistrati,
l'istessa disposizione delle province, e la medesima amministrazione.
Tutti i suoi studj erano di far allevare il giovine Principe alla
romana, con farlo istruire nelle buone lettere e nelle virtù, tenendo
per questo effetto molti maestri, che l'insegnassero. Ma i Goti, ed i
Grandi della Corte dimenticatisi prestamente dei consigli di Teodorico
mal sofferivano, che Amalasunta allevasse così questo Principe, e
gridando, ch'essi volevano un Re, che fosse nudrito fra l'armi, come
i suoi antecessori, fu ella in fine costretta d'abbandonarlo alla
lor condotta, la quale fu tanto funesta a questo povero Principe, che
caduto in molte dissolutezze, perdè affatto la salute, e venne in tale
languidezza, che lo condusse ben tosto alla tomba: poichè appena giunto
all'ottavo anno del suo regnare, finì nel 534 i suoi giorni. Origine,
che fu de' mali e della ruina de' Goti in Italia, de' disordini, e
delle tante rivoluzioni, che da poi seguirono, mentre già all'Imperio
d'Oriente era stato innalzato da Giustino, Giustiniano suo nipote,
quegli che per le tante sue famose gesta sarà il soggetto del seguente
capitolo.


CAPITOLO III.
_Di GIUSTINIANO Imperadore, e sue leggi._

Mentre in Italia per la prudenza di Amalasunta conservavasi quella
stessa pace e tranquillità, nella quale Teodorico aveala lasciata,
ed il Regno d'Atalarico, come uniforme a quello del Re suo avolo,
riusciva a' popoli clementissimo, fu da Giustino, richiedendolo il
Popolo costantinopolitano, fatto suo Collega ed Imperadore Giustiniano
suo nipote nel dì primo d'Aprile dell'anno di nostra salute 527.
E morto quattro mesi da poi Giustino, cominciò egli solo a reggere
l'Imperio d'Oriente[780]. Questi fu quel Giustiniano, cui i suoi fatti
egregi acquistaron il soprannome di Grande; sotto di cui l'Imperio
ripigliò vigore e forza, non men in tempo di pace, che di guerra, a
cagion dei famosi Giureconsulti, che fiorirono nella sua età, e del
valore di Belisario e di Narsete suoi illustri Capitani. Le sue prime
grand'imprese furon quello adoperate in tempo di pace. Egli ne' primi
anni del suo Regno s'accinse a voler dare una più nobil forma alla
giurisprudenza romana, ed invidiando non men a Teodosio il Giovane,
che a Valentiniano III quella gloria che acquistaronsi, l'uno per la
compilazione del famoso Codice Teodosiano, e l'altro per la providenza
data sopra i libri de' Giureconsulti, volle non pur imitargli, ma
emulargli in guisa, che al paragone la fama di coloro rimanesse oscura
e spenta; e nell'Oriente non meno, che nell'Occidente non più si
rammentassero i loro egregi fatti.

§. I. _Del primo CODICE di GIUSTINIANO._
Adunque non ancor giunto al secondo anno del suo Imperio, nel mese di
Febbrajo dell'anno 528 promulgò un editto, al Senato di Costantinopoli
dirizzato, per la compilazione d'un nuovo Codice. Trascelse alla
fabbrica di questa opera da tre Ordini gli uomini più insigni del suo
tempo, da' Magistrati, da' Cattedratici, e da quello degli Avvocati:
dall'Ordine de' Magistrati furon eletti Giovanni, Leonzio, Foca,
Basilide, Tomaso, _Triboniano_, e Costantino: dei Professori, fu
trascelto Teofilo; e dall'Ordine degli Avvocati Dioscoro, e Presentino,
a' quali tutti fu preposto il famoso Triboniano, come lor Capo.
La forma, che a costoro si prescrisse, fu di dover da' tre Codici,
Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, raccorre le costituzioni de'
Principi, che quivi erano, ed oltre a questo, di aggiugnervi ancora
l'altre, che da Teodosio il Giovane, e dagli altri Imperadori suoi
successori infin a lui erano state di tempo in tempo promulgate,
eziandio quelle che si trovasse egli medesimo aver emanate; le quali
tutte in un volume dovessero raccogliere. Prescrisse lor ancora
l'istituto ed il modo, cioè di troncar quello, che in esse trovavan
d'inutile e superfluo, togliere le prefazioni, levare affatto quelle,
ch'eran tra loro contrarie, raccorciarle, mutarle, correggerle, e
render più chiaro il loro sentimento: collocarle secondo l'ordine
de' tempi, e secondo la materia, che trattano. Non tralasciassero
a ciascheduna costituzione di porv'i nomi degl'Imperadori, che le
promulgarono, il luogo, il tempo, e le persone a chi furon indirizzate:
il tutto ad emulazione di Teodosio, come è manifesto dall'editto di
Giustiniano, che leggiamo sotto il _tit. de novo Cod. faciendo_.
Impiegarono per tanto quest'insigni Giureconsulti le lor fatiche poco
più d'un anno per la compilazione di questo nuovo Codice, tanto che
nel principio del terzo anno del suo Imperio, e propriamente in Aprile
dell'anno seguente 529 fu compiuto e promulgato: e con altro editto,
che si legge sotto il _tit. de Justinianeo Cod. confirmando_, ordinò,
che questo Codice solamente nel Foro avesse autorità, che i Giudici di
quello si servissero, e che gli Avvocati non altronde, che da questo
allegassero nelle contese forensi le leggi; proibì affatto i tre primi
Codici, i quali volle, che rimanessero senza alcuna autorità, nè in
giudicio potessero più allegarsi; donde nacque, che in Oriente s'oscurò
il Codice di Teodosio. Il che però non avvenne in Occidente, e in
Italia precisamente, ove, durante la dominazione de' Goti, questo di
Giustiniano non fu ricevuto, e furono perciò più fortunati i successi
del Codice Teodosiano in Occidente, che nell'Oriente, per opera di
Giustiniano.
Le Costituzioni, che in questo nuovo Codice, in dodici libri distinto,
unironsi, come raccolte da' tre primi Codici, cominciavan da Adriano,
infin a Giustiniano, e le leggi promulgate da 54 Imperadori,
contenevano. E quindi è, che alcune costituzioni allegate da'
Giureconsulti nelle Pandette, in questo nuovo Codice si leggano, che
non possono leggersi nel Codice di Teodosio, come quello, che comincia
da Costantino M. ma che ben erano ne' Codici di Gregorio e di Ermogene,
da' quali anche fu questo ultimo compilato.

§. II. _Delle PANDETTE, ed INSTITUZIONI._
Per emular Giustiniano la fama di Teodosio, non contentossi del
solo Codice: volle, che ad impresa più nobile e difficile si ponesse
mano, cioè a raccorre ed unire insieme i monumenti di tutta l'antica
giurisprudenza, e con ordine disporgli; e siccome erasi fatto delle
costituzioni de' Principi, che da Adriano infin a lui fiorirono, così
anche si facesse de' responsi degli antichi Giureconsulti; delle
note loro, ch'essi si trovassero aver fatte alle leggi de' Romani,
e precisamente all'editto perpetuo; de' loro trattati; de' libri
metodici, e finalmente di tutti i lor Commentarj; l'opere de' quali
erano così ampie e numerose, che se ne contavan infin a duemila volumi.
Nel quarto anno del suo Imperio diede Giustiniano fuori un altro
editto[781] a Triboniano indirizzato, dove quest'Opera si comanda, ed
al medesimo Triboniano, ed a sedici altri suoi Colleghi si dà l'impiego
di così ardua e malagevole impresa. Furono trascelti ingegni i migliori
di quel secolo, e quali veramente richiedevansi per opera sì difficile.
Oltre a Triboniano furon eletti Teofilo e Cratino, celebri Professori
di legge nell'Accademia di Costantinopoli; Dorodeo, ed Anatolio pur
anche Professori nell'Accademia di Berito: dell'Ordine de' Magistrati
intervenne pure Costantino; e dell'Ordine degli Avvocati undici
ne furono trascelti, Stefano, Menna, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo,
Leonide, Leonzio, Platone, Jacopo, Costantino e Giovanni[782].
Mentre costoro sono tutti intesi a questa gran fabbrica, che dopo il
corso di tre anni condussero a fine, piacque al medesimo Giustiniano
d'ordinare a Triboniano, Teofilo, e Doroteo, che in grazia della
gioventù compilassero le Instituzioni, ovvero gli elementi, e principj
della legge, perchè i giovani, incamminandosi prima per questo
sentiero piano e semplicissimo, potessero poi inoltrarsi allo studio
delle Pandette, che già si preparavano: siccome infatti da quelli tre
insigni Giureconsulti, ad esempio degli antichi, cioè di Cajo, Ulpiano
e Fiorentino, furon tantosto compilate; e quantunque la fabbrica de'
Digesti fosse stata innanzi comandata, nulladimeno per questo fine si
procurò, che le Instituzioni si pubblicassero prima delle Pandette,
come in effetto un mese prima, cioè a Novembre dell'anno 533, nel
settimo anno del suo Imperio, furono promulgate e divolgate. Divisero
questi elementi in quattro libri, in novantanove titoli, e, se anche
si vogliano numerare i principj de' medesimi, in ottocento e sedici
paragrafi. Opera, secondo il sentimento dell'incomparabile Cujacio,
perfettissima ed elegantissima, che non dovrebbe caricarsi tanto da
così ampj e spessi commentari, come a' dì nostri s'è fatto, ma da
aversi sempre per le mani, e col solo aiuto di picciole note, e per via
semplicissima a' giovani insegnarsi, siccome fu l'idea di coloro, che
la composero, e di Giustiniano stesso, che la comandò.
Pubblicati questi elementi, si venne prestamente a fine della
grand'Opera delle Pandette, le quali un mese di poi, e propriamente
nel Decembre dell'istesso anno 533 si pubblicarono per tutt'Oriente, e
nell'Illirico. Appena nata, sortì due nomi, l'uno latino di Digesti,
l'altro greco di _Pandette_, ambidue dagli antichi Giureconsulti
tolti ed usurpati: fulle dato nome di Digesti, perchè ne' libri, che
contengono, furono con certo ordine, e sotto ciascun titolo collocate
le sentenze degli antichi Giureconsulti, e disposte, per quanto
fu possibile, secondo il metodo e la serie dell'editto perpetuo:
si dissero anche Pandette, come quelle, che abbracciano tutta la
giurisprudenza antica[783].
Donde, da quali Giureconsulti, e da quali loro libri furono composti
i Digesti, è cosa molto facile a raccoglier dal catalogo degli antichi
Giureconsulti, e dell'opere loro, che ancor oggi veggiamo prefisso alle
Pandette fiorentine. Ivi leggonsi 37 Autori, chiarissimi Giureconsulti
da noi sovente lodati, quando nel primo libro, facendo memoria de'
Giureconsulti, che da Augusto infin a Costantino M. vissero, notammo
sotto quali Imperadori fiorissero: oltre a questi fassi onorata
memoria di molti altri, i quali meritarono esser nominati e lodati
nell'opere loro, ovvero che meritaron esser con giusti commentarj, o
con perpetue note esposti ed illustrati. Nel che non dobbiamo defraudar
della meritata lode Jacopo Labitto, il quale con somma diligenza ed
accuratezza compose un _Indice_ delle leggi, che sono nelle Pandette,
ciascheduna delle quali, oltre al disegnarle, l'Autore va distintamente
notando, da qual libro, o trattato di questi antichi Giureconsulti sia
stata presa, separando fra di loro le leggi, che si trovano sparse in
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