Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 04

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ed i consumati dalle fatiche e dagli anni quivi solevansi condurre a
diporto. Meritarono perciò i Napoletani, che nella lor città non si
mandasse alcun presidio, siccome all'incontro per la loro infedeltà
meritaron i Capuani, che nella loro Città continuamente dimorasse
presidio di soldati Romani, eziandio cessato il timore delle guerre co'
prossimi Sanniti, giacchè la sua incostanza così richiedeva[88]. Ma in
Napoli non fu mandato tal presidio, nè men in quel pericoloso tempo
della sudetta guerra Cartaginese, fuorchè a richiesta de' medesimi
Napoletani[89].
Così ancora per la loro intera fede meritarono, che niente si fosse
scemato dell'altra condizione della loro confederazione, per la
quale agli esuli Romani era permesso di potersi ricovrare in Napoli,
e dimorarvi senza timore; dove condurre volevasi a questo fine
lo scelerato Q. Pleminio, quando fra via fu fatto prigione da Q.
Metello[90]. Nè è leggiero argomento, ch'una tal franchigia non fosse
giammai violata, l'essersi anche in Napoli salvato Tiberio Nerone[91]
allorchè nell'Imperio romano per le lunghe guerre civili e per le
fazioni, nè le pubbliche leggi, nè altra cosa eran più rimase salve.
In questa guisa adunque fu da' Romani premiata la fedeltà napoletana; e
finchè si mantennero nella medesima città i suoi antichi usi, e costumi
greci; ella quasi sola di tutte l'altre città di queste regioni non
provò mutazione; avendo solamente avute per compagne, Reggio, Taranto
e Locri[92].

II. _Napoli non fu Repubblica affatto libera, ed indipendente da'
Romani._
Ma tutte queste prerogative furon de' Romani in premio della sua
fedeltà, e per la vita gioconda, che in questa città solevan essi
menare[93]; non già che Napoli fosse affatto libera da ogni servitù,
e totalmente independente Repubblica, anche a dispetto e contra i
sforzi de' Romani, come alcuni dall'amor della patria pur troppo
presi, non si ritennero di dire. Potrà alcun forse persuadersi mai,
che i vittoriosi e trionfanti Romani, avidissimi d'imperio, dopo aver
fatto acquisto, non solamente di tutta l'Italia, ma quasi dell'intera
terra nel loro tempo conosciuta, avendo soggiogati Re potentissimi e
bellicosissime Nazioni, con lunghissimi terrestri e marittimi viaggi,
e con faticosissime imprese per lo corso di molti secoli; non avessero
avute forze bastanti a conquistare una città sola, che pur era su gli
occhi loro? Mostrano ben costoro non avere nè pur piccola contezza
delle romane istorie, e molto meno della generosità Romana. È egli
cosa nuova avere i Romani in varj modi fatto dono della libertà a molti
popoli, ed a molte città, e singolarmente alle greche dopo averne fatto
acquisto, e talora d'avernele private in pena d'alcun lor fallo? Ne
sono pieni d'esempj i libri d'Appiano Alessandrino[94], di Livio, di
Svetonio, di Strabone, di Tacito, di Dione di Vellejo, de' due Plinj,
di Diodoro Siculo, di Giustino, di Plutarco, e d'altri assai; e per
non andar raccogliendo ogni detto di sì gravi Autori intorno a questo
non mai dubitato punto, potrassi apprender da quello, che della romana
Monarchia, come in un epilogo, raccolse un solo Strabone[95] nel fine
de' suoi libri della Geografia, cioè che fra le varie condizioni
de' Regi, e delle province, le quali ubbidivano a quell'Imperio,
eran ancora alcune città libere, o rimase in libertà per aver durato
nell'antica loro confederazione; o fatte nuovamente libere in premio
della lor fede: le sue parole in latino sono queste: _Eorum, quae
Romanis obediunt, partem Reges tenent, aliam ipsi habent, provinciae
nomine, et Praefectos, et Quaestores in eam mittunt. Sunt et nonnullae
Civitates liberae conditionis: aliae ab initio per amicitiam Romanis
adjunctae: aliae ab ipsis honoris gratia libertate donatae. Sunt et
principes quidam sub eis, et Reguli, et Sacerdotes: his permissum est
patria sectari instituta._
Erano adunque tutte queste prerogative loro doni; e dalla forma
del dire del romano Publio Sulpicio rispondente a Minione sul
fatto di sopra recato, _quae ex foedere debent, exigimus_[96] ben
si dinota aversi i Romani riserbato il tributo delle navi per una
certa spezie di servitù: tanto è lontano, ch'essi all'incontro ne'
bisogni de' Napoletani dovessero anche scambievolmente contribuir
le navi, come pure alcuni hanno sognato. Cicerone[97] ne somministra
un simigliantissimo esempio di Messina, città parimente confederata
coll'obbligo di dare una nave, declamando contra Verre, che per doni
l'avesse fatta franca di quel tributo nel tempo della sua siciliana
Pretura, e con ciò avesse diminuita la maestà della Repubblica,
l'ajuto del Popolo romano, e tolto il jus dell'imperio. _Pretio,
atque mercede minuisti majestatem Reipublicae; minuisti auxilia P. R.
minuisti copias, majorum virtute, ac sapientia comparatas. Sustulisti
jus imperii, conditionem Sociorum, memoriam foederis_; soggiungendo
appresso: _inerat nescio quomodo in illa foedere societatis, quasi
quaedam nota servitutis_. Oltre che i romani anche sopra i Napoletani
sovente s'assumevan certa potestà di comporre i loro litigi co'
popoli vicini, onde si legge appresso Valerio Massimo[98], che il
Senato mandò Q. Fabio Labeone come arbitro a stabilire i confini
fra' Nolani e Napoletani, per li quali erano venuti in contesa. In
breve, queste città quanto ritenevan della loro franchigia e libertà,
tutto lo riconoscevano dalla moderazione e dalla generosità romana: e
sovente molte città, che di questo lor dono abusavansi, n'eran esse
private: all'incontro alcune, le quali sapevan adoperarlo in bene,
erano profusamente di maggiori prerogative ed onori arricchite. In
fatti i Massiliesi furono liberati anche dal tributo; e Strabone[99]
oltre all'esempio di Massilia, aggiunge anche quello di Neumasio.
Cicerone[100] ancor rapporta, che per decreto del Senato fu conceduta,
oltre a Massilia, e a Neumasio, anche ad alcune altre cittadi,
l'immunità dalla giurisdizione de' Romani, e rendute esenti da ogni
potestà di qualunque lor Magistrato.
Essendo tale il costume e tanta la generosità dei Romani, potè credere
con fondamento quel diligentissimo investigatore delle nostre antichità
Camillo Pellegrino[101] che i Romani in decorso di tempo avesser anche
fatti liberi i Napoletani non solamente dall'obbligo delle navi, ma
anche d'ubbidire a qualunque lor Magistrato, sì per gli meriti della
loro costante fedeltà, come per gli piacevoli diporti, che in Napoli
prender solevano: onde, ei dice, che non sarebbe da riputarsi cosa
strana, che questa città cotanto lor cara fosse stata da essi renduta
franca del tributo delle navi nella universal pace del Mondo, imperando
Augusto, e che l'avesser anche sottratta da ogni potestà di qualunque
lor Magistrato. Cesare ben alcun tempo ebbe a sdegno i Napoletani,
come scrisse Cicerone[102]; forse perch'essendosi in Napoli gravemente
infermato Pompeo nel principio della lor gara, i Napoletani per la
sua salute offerirono molti sacrificj, e col lor esempio mossero
l'altre città d'Italia, e grandi e piccole a far perciò molti giorni
feriati[103]. Ma Augusto all'incontro gli ebbe molto cari; e che
d'alcun segnalato privilegio avesse lor fatto nobil dono, può esserne
manifesto argomento, ch'essi in onor suo dedicaron e celebrarono un
nobil giuoco d'Atleti, in cui egli stesso bramò d'esser presente[104].
La sua Livia, la quale condottavi dal suo primo marito Tiberio ne'
loro maggiori perigli, vi si era ricoverata[105]; il suo Virgilio, cui
piacquer tanto gli ozj napoletani[106]; tutte queste cose dovettero
essere stati soavi mantici d'un tant'amore; ond'è che non senza ragione
s'attribuisca ad Augusto d'aver accresciuta questa città d'altre
nuove prerogative, e d'averla prosciolta dall'obbligo delle navi, e
sottratta dalla potestà di qualunque romano Magistrato. E per questa
ragione alcuni[107], su la falsa credenza, che Napoli fosse interamente
divenuta cristiana, sin dal primo giorno della predicazione, che si
narra essersi quivi fatta da S. Pietro Apostolo, allorchè da Antiochia
venendo a Roma, vi ordinò il primo Vescovo Aspreno: tennero fermamente,
che in Napoli non vi fossero stati martirj di Cristiani; siccome
quella, che non soggetta a' Principi gentili, nè ad alcun altro lor
Magistrato, non permise quel macello in sua casa. Ma quanto ciò sia
dal ver lontano, ben fu avvertito da Pietro Lasena[108] e ben a lungo
fu dimostrato dal P. Caracciolo[109], e da noi sarà esaminato, quando
della politia ecclesiastica di queste regioni farem parola.
Duraron in Napoli lungo tempo sotto i successori d'Augusto queste
belle prerogative e queste piacevoli condizioni. Ma dappoichè i
Napoletani cominciaron pian piano a svezzarsi da' costumi natii, e
dagli usi de' Greci, e a quelli de' Romani accomodarsi, e finalmente
ad imitare in tutto i costoro andamenti: prese la lor città nuovo
aspetto e nuova forma di Repubblica. Fulvio[110] Ursino credette,
che Napoli da Augusto fosse stata renduta Colonia insieme coll'altre,
che dedusse in Italia; ma da quanto si è finora detto e da ciò che ne
scrive il P. Caracciolo[111], riprovando l'opinione di quest'Autore,
si conosce chiaro, che non da Augusto, ma in tempi posteriori o di
Tito, o di Vespasiano Napoli fu renduta Colonia. Che che ne sia, nè
perchè passasse nella condizione di Colonia, perdè quella libertà e
quella politia intorno a' Magistrati, che prima avea: non essendo a lei
intervenuto, come a Capua, che da Città Federata passò in Prefettura.
Ella come Colonia latina ritenne quel medesimo istituto di poter
dal suo corpo eleggere i magistrati[112]: non si mandavan da Roma i
Prefetti per governarla: ritenne ancora il Senato, il Popolo: ebbe
i Censori, gli Edili, ed altri Magistrati a somiglianza di Roma. Se
le permise valersi de' nomi di Senato e di Popolo e di Repubblica: e
molti marmi perciò leggiamo co' nomi di S. P. Q. N. e fra gli altri
quei trascritti da Grutero[113], che i Napoletani ad un tal Galba Bebio
Censore della Repubblica dirizzarono.
S . P . Q . NEAPOLITANVS
D . D . L . ABRVNTIO . L . F .
GAL · BAEB · CENSORI ·
REIPV . NEAP .
e quell'altro,
S . P . Q . NEAPOLITANVS
L . BAEBIO . L . F . GAL .
COMINIO PATRONO COLONIAE .
Il qual nome di _Senato_ mutaron poscia in quello d'_Ordine_, onde in
molti marmi si legge O. P. Q. N. scambiandosi regolarmente questi nomi,
come osserviamo indifferentemente in altri marmi d'altre Colonie.
Nè fu detta Colonia, perchè da Roma, o altronde fossero stati in lei
mandati nuovi abitatori, ma rimanendo gli antichi, se le concedettono
le ragioni del Lazio, siccome a tutte l'altre Colonie latine, le quali
e della Cittadinanza e di molte altre prerogative erano fregiate[114];
e per questa cagione potè ritenere, a differenza dall'altre Colonie,
le leggi patrie e municipali, senza avere in tutto a dipendere e a
reggersi colle sole leggi romane, siccome in fatti molte patrie leggi
e molti riti grecanici ritenne, i quali mai non perdette, e d'alcuni
d'essi tuttavia ne serba oggi vestigio.
Grave adunque è l'error di coloro, che riputaron Napoli Repubblica
totalmente libera ed indipendente dall'Imperio romano, solamente perchè
si legge il nome della napoletana Repubblica in più d'una antica
inscrizione, ed in più d'un antico Autore. Non avendo avvertito,
che ne' tempi d'Adriano, e molto più di Costantino M. e degli altri
Imperadori suoi successori fu città, come tutte l'altre, al Consolare
di Campagna sottoposta, siccome appresso mostreremo.
Molto maggiore fu l'error di coloro, i quali dieronsi a credere, che
infin a' tempi di Rugiero I. Re Normanno, non fu ella in alcun modo
soggetta a gl'Imperadori romani, nè da poi a' Goti Re d'Italia, e molto
meno agi Imperadori d'oriente, tanto che Alessandro Abate Telesino[115]
nell'istoria sua Normanna, parlando di Napoli soggiogata da Rugiero,
preso da quest'errore, non potè contenersi di dire, che questa città,
la quale _vix unquam a quoquam subdita fuit. nunc vero Rogerio, solo
verbo praemisso, submittitur_; imperciocchè non perchè Napoli, come
Città d'origine greca fosse da' Romani così benignamente trattata
coll'onore di Città Federata; nè perchè, eziandio dopo divenuta Colonia
latina, ritenesse lo stesso antico aspetto di Repubblica di poter
dal suo corpo creare i Magistrati, e le propie leggi servare, delle
dure condizioni dell'altre Prefetture non aggravata, dovrà dirsi, che
fosse stata esente dal roman Imperio; e molto meno, che non fosse da
poi sottoposta a' Goti, ed agl'Imperadori greci. Conciosiacchè ella
certamente in potestà di costoro, non solamente per forza d'armi, ma
per antichissima soggezione coll'Italia passò, ed a' medesimi ubbidì;
come nel proseguimento di quest'istoria si farà manifesto; e se dagli
Scrittori vien nominata Repubblica, fu perchè ritenne quella forma di
governo, che nè da Romani, nè da' Goti le fu vietata.
Nè veramente dovrà muovere tanto cotali Autori quella parola
_Repubblica_; poichè nella latina favella quel vocabolo denota la
comunità, non la dignità delle pubbliche cose, e sovente è usata per
denotare qualche forma d'amministrazione, o di governo pubblico;
anzi nelle Prefetture ancora, le quali eran prive d'ogni pubblico
consiglio, _erat_, come disse Festo[116], _quaedam earum Resp. neque
tamen Magistratus suos habebant_; a questo lor modo sarebbero state
Repubbliche, nel tempo di Seneca[117], Capua ancora, e Teano, ovvero
Atella. Il medesimo potrebbe anche dirsi di Nola, di Minturno, di
Segna, e di molte altre Colonie, che pur si chiamaron Repubbliche, e
ne' loro marmi mettevano parimente a lettere cubitali quel S. P. Q.
Ne' tempi più bassi ancora ve ne sono ben mille esempj appresso buoni
Autori, ed infiniti ce ne somministra il Codice di Teodosio[118].
Molto meno dovean cadere in quest'errore, traendo argomento dal dominio
ch'ebbe Napoli dell'isola di Capri, e poi dell'isola d'Ischia, con
cui quella permutò, per piacere a Tiberio[119]; poichè, come ben loro
risponde l'accuratissimo Pellegrino[120], senza che fossero andati
molto lontano, avrebbon potut'osservare, che Capua altresì, mentr'era
Colonia, possedeva nell'isola di Creta la regione Gnosia. E se questo
lor argomento, aver Napoli avuta signoria di quell'isola, fosse
bastante a riputarla libera Repubblica, nè men sarebbe da dubitarsi,
che questa prerogativa non l'avesse ancora ritenuta per molti secoli
seguenti sotto i Goti, sotto gl'Imperadori d'Oriente, e sotto altri
Principi; perciocchè ritenne delle sue vicine isole il dominio, anche
nel tempo di S. Gregorio M.[121], e più innanzi nel tempo ancora del
Pontefice Giovanni XII. e similmente nel Pontificato di Benedetto VIII,
ed eziandio in tempi meno a noi lontani, ne' quali, come si conoscerà
chiaro nel corso di quest'istoria, sarebbe follia il credere, che
fosse stata libera Repubblica ed indipendente da qualsivoglia altra
dominazione.

III. _Delle altre città illustri poste in queste regioni._
Ecco in brieve l'aspetto e la politia che avevan nell'età, di cui si
tratta, quelle regioni, che oggi compongon il Regno. Non era allora
diviso in province, come fu fatto da poi, ma in regioni: ciascheduna
delle quali aveva città, che secondo le loro condizioni, o di
Municipio, o di Colonia, o di Prefettura, o di Città Federata, si
governavano. Si viveva generalmente colle leggi de' Romani, siccome
quelle, che per la loro eccellenza eran venerate da tutte le genti,
come le più giuste, le più sagge, e le più utili all'umana società.
Solamente si permise, che i Municipj, e le Città Federate potessero
ritener le proprie e le municipali, ma queste mancando, si ricorreva a
quelle, come a' fonti d'ogni divina ed umana ragione. Eran i governi
secondo le condizioni di ciascheduna città: molte venivan rette da
Prefetti mandati da Roma, moltissime da' Magistrati, che dal proprio
seno era lor permesso d'eleggere, e quasi tutte si studiavano d'imitare
il governo di Roma lor capo, della quale erano piccoli simulacri ed
immagini.
Non, come ora, tutte le bellezze, tutte le magnificenze e le ricchezze,
stavan congiunte in una città sola, che fosse capo e metropoli sopra
l'altre: ciascuna regione avea molte città magnifiche ed illustri per
se medesime, Capua solamente un tempo innalzò il suo capo sopra tutte
le altre: già così chiara ed illustre, Lucio Floro[122] attesta essere
stata anticamente paragonata a Roma ed a Cartagine, le più famose e
stupende del Mondo: città così numerosa di gente e di traffico, ch'era
riputata l'emporio d'Italia; in guisa, che i nostri Giurisconsulti[123]
l'agguagliavan sempre ad Efeso, e quasi tutti gli esempj, che recano, o
di casi seguiti per contrattazioni, o di rimesse di pagamenti promessi
farsi in Capua da luoghi remotissimi, o di traffichi tra famosi
mercadanti, non altronde sono tolti, che da Capua, e da Efeso.
Ebbe la _Puglia_ quella famosa e per gli scritti di Livio, e d'Orazio
cotanto celebrata Luceria: ebbe Siponto che per antichità non cedette
a qualsivoglia altra città del Mondo: ebbe Venosa cotanto chiara
ed illustre per gli natali d'Orazio: ebbe Benevento la più famosa e
celebre Colonia de' Romani: ebbe Bari, ed altre Città per se medesime
rinomate ed illustri.
Ebbero i _Salentini_ Lupia, Otranto, e la vaghissima e deliziosa
Brindisi, città anche celebre per lo famoso suo porto, e sovente da'
nostri Giurisconsulti[124] rinomata a cagion delle spesse navigazioni,
che regolarmente quindi s'intraprendevano per oriente. Ebbero i _Bruzj_
tante altre chiare ed illustri città, Taranto, Crotone, Reggio, Locri,
Turio, Squillace: città feconde e produttrici di tanti chiari ed
insigni Matematici e Filosofi, onde ne sorse una delle più nobili Sette
della filosofia, detta perciò italica, ch'ebbe per Capo e Gonfaloniere
Pitagora, il qual in esse visse ed abitò per lunghissimo tempo, ed in
Crotone ebbe tal volta fino a secento discepoli, che l'ascoltarono.
Ebbero i _Lucani_ Pesto, e Bussento: i _Picentini_ Salerno, e Nocera: i
_Sanniti_ Isernia, Venafro, Telese, e Sannio cotanto chiara, che diede
il nome alla regione. Ove lascio Sulmona ancor famosa per gli natali
d'Ovidio, Nola, Sorrento, Pozzuoli, e quell'altre amene ed antiche
città, Cuma, Baja, Miseno, Linterno, Vulturno, Eraclea, Pompei, e le
tante altre, che ora appena serban vestigio delle loro alte rovine?

IV. _Scrittori illustri._
E chi potrebbe annoverare i tanti chiari e nobili spiriti, che in sì
illustri città ebbero i natali, i Filosofi, i Matematici, gli Oratori,
e sopra tutto i tanti illustri e rinomati Poeti? In breve. Quanto
degli antichi oggi abbiamo di più rado e di più nobile nella filosofia
e nelle matematiche, nell'arte oratoria, e sopra tutto nella poesia,
tutto lo debbiamo a quegl'ingegni, che o furono prodotti da questo
terreno, o che nati altrove in esso vissero, e quivi coltivaron i loro
studj.
Così fra tanti potessi anch'io annoverarvi per la nostra giurisprudenza
l'incomparabile Papiniano, come han fatto alcuni, che gli diedero per
patria Benevento, che molto volentieri 'l farei: ma la necessità di
dire il vero, e di non dover ingannare alcuno, mi detta il contrario;
poichè della patria di sì valentuomo niente può dirsi di certo, e
per vane congetture si mossero coloro, dall'amor della Nazione pur
troppo presi, a scrivere che fosse beneventano. Peggiore, e da non
condonarsi fu la loro ignoranza, quando ciò vollero raccorre dalle
nostre _Pandette_, e da quella legge di Papiniano[125] che sotto il
titolo _Ad S. C. Treb._ abbiamo; imperciocchè ivi dal Giurisconsulto
si riferiscono le parole di certo testamento fatto da un Beneventano,
nel quale lasciava egli un legato _Coloniae Beneventanorum patriae
meae_; e credendo che Papiniano di se medesimo favellasse, scrissero
che la patria di questo Giurisconsulto fosse Benevento. Ciò che abbiam
voluto avvertire, perchè quest'errore avendo per suo partigiano uno
Scrittor grave fra noi qual'è Marino Freccia[126], ritrovasi ora sparso
e disseminato in molti libri de' nostri Professori, ed anche appresso
un moderno Scrittore del Sannio[127], a' quali, siccome Autori non
tanto ignari e negligenti di queste cose, come gli altri, avrebbe forse
potuto darsi facile credenza.


CAPITOLO V.
_Della disposizione d'Italia, e di queste nostre province sotto ADRIANO
insin'a' tempi di COSTANTINO il Grande._

Durò questa forma e disposizione delle regioni d'Italia e delle
province dell'Imperio infin'a' tempi d'Adriano. Questo Principe fu
che, siccome diede nuovo sistema alla giurisprudenza romana, così,
dopo Augusto, descrisse in altra maniera l'Italia; poichè la divise
non in regioni ma in province[128]. Siccome prima le sue regioni
non eran più che undici, così egli poi distinsela in XVII. province.
L'Isole, come la Sicilia, la Corsica, e la Sardegna che Augusto divise
e separò dall'Italia, annoverandole con l'altre province dell'Imperio
romano, Adriano alle province d'Italia unille. Dilatò i confini della
Campagna, poichè quantunque Augusto vi avesse raccolto qualche parte
del Sannio, i due Lazj, la Campania, e i Picentini, Adriano vi aggiunse
da poi gl'Irpini, tanto che Benevento venne perciò in appresso ad esser
chiamata città della Campagna[129]
Mutò anche la politia ed i Magistrati, poichè instituì quattro
consolari[130], a' quali fu commesso il governo delle maggiori province
d'Italia, e l'altre secondo la lor varia condizione si commisero poi a'
Correttori, ed altre a' presidi che furon nomi di magistrati di dignità
disuguale.
Sotto la disposizione de' Consolari furon commesse otto province, le
quali furono I. Venezia, ed Istria, II. la Emilia, III. la Liguria,
IV. la Flaminia, e 'l Piceno, V. la Toscana, e l'Umbria. VI. il Piceno
suburbicario, VII. la Campania, VIII. la Sicilia.
Sotto la disposizione de' Correttori due province I. la Puglia, e la
Calabria, II. la Lucania, ed i Bruzj.
Sotto i Presidi sette, I. l'Alpi Cozzie, II. la Rezia prima, III. la
Rezia seconda, IV. il Sannio, V. la Valeria, VI. la Sardegna, VII. la
Corsica.
Diede alle province fuori d'Italia altra forma e disposizione.
La Spagna la divise in sei province, delle quali altre sortirono la
condizione di presidiali, altre di consolari. Divise la Gallia, e la
Britannia in diciotto province. L'Illirico in diciassette. La Tracia
in sei. L'Affrica similmente in sei: e così parimente fece dell'Asia,
e dell'altre province, delle quali non è uopo qui farne più lungo
catalogo.
Presero per tanto nuova forma di governo queste _Regioni_, che oggi
compongono il Regno di Napoli. Allora incominciossi a sentire in Italia
il nome di _Province_; e secondo questa nuova disposizione d'Adriano
quel che ora è regno, fu diviso in quattro sole province, I. parte
della Campagna. II. la Puglia, e la Calabria, III. la Lucania, e li
Bruzj, IV. il Sannio.
Nuovo apparve il governo e più assoluto togliendosi alle città molte
di quelle prerogative, che o la condizione di Municipio, o di Colonia,
di Città Federata loro arrecava: molto perdette Napoli della sua
antica libertà: molto l'altre Città Federate, e le Colonie. L'autorità
e giurisdizione de' Consolari, de' Correttori, e de' Presidi era
pur grande e maggior accrescimento acquistò, quando Costantino M.
traslatando l'Imperial seggio in Oriente, commise interamente a coloro
il governo di queste nostre province che fu dar l'ultima mano alla
rovina d'Italia, introducendosi in quella nuova forma e disposizione,
che sarà più distesamente narrata nel secondo libro di quest'Istoria.


CAPITOLO VI.
_Delle leggi._

Non bastava aver sì bene distribuite le province e le regioni se di
buone leggi ed instituti insieme non si fosse a quelle proveduto. Nel
che non minore mostrossi la saviezza e prudenza de' Romani, poichè
se si riguarda l'origine delle loro leggi, e con quanta maturità e
sapienza furono stabilite, con quanta prudenza da poi esposte, ed alla
moltitudine e varietà degli affari adattate, a niuno la loro perpetuità
parrà strana, o maravigliosa.
I Romani quantunque per lo spazio di più di due secoli si fossero
governati colle leggi de' loro proprj Re[131], nulladimanco, quelli
poi discacciati cancellaron eziandio le leggi loro[132], alcune
poche solamente ritenendone, cioè le leggi Tullie, le Valerie, e
le Sacrate[133]. Del rimanente si governavano con gli antichi loro
costumi, e con alcune non scritte leggi, le quali essendo varie ed
incerte eran cagione di gravissime contese e disordini. Per la qual
cosa considerando, che quelle non eran bastanti per lo stabilimento
d'una perfetta e ben composta Repubblica; e che le peregrinazioni, e
'l conoscere le leggi e gl'instituti di varie genti, giova molto alla
scienza di ben stabilirle, come dice Aristotele[134], procurarono che
le leggi ed i costumi non pur d'una città, ma di molte si conoscessero
ed esaminassero; affinchè ciò che in esse si rinveniva di specioso e
d'illustre si ricevesse, ed a loro si trasportasse. E considerando
altresì, che le leggi ottime dovevan esser quelle, che dal seno
d'una vera e solida filosofia derivano, e che fra tutte le Nazioni la
Greca fosse quella, la quale dimostravasi nella sapienza superiore
a tutte l'altre: mandaron perciò in Atene, e nell'altre città della
Grecia; eziandio nella città greche ch'erano in Italia, ed in quella
parte ancora, che Magna Grecia anticamente fu detta, ove fiorirono i
Pitagorici, e que' due celebri Legislatori Zeleuco, e Caronda[135], de'
quali quegli diede le leggi a Locri, questi, a Turio[136]. Mandarono
in Lacedemonia, mandarono nell'Etruria; facendo con ciò conoscere
con nuovo e rado esempio come la filosofia, la quale appresso i Greci
era solamente ristretta ne' Portici, e nell'Accademie, potesse recar
giovamento ancora alla società civile di tutti i cittadini; e come le
massime ed assiomi di quella maneggiati non da semplici Filosofi, ma da
Giureconsulti, potessero talora all'uman commercio adattarsi in guisa,
sì che nel genere umano ne ritraesse insieme, ed utilità e giustizia;
fonte di tutte le tranquillità e mondane contentezze. Così dalle leggi
ed instituti di tante chiare, ed illustri città, e da quelle che Roma
stessa ritenne, fu da' Decemviri nella maniera che ci vien largamente
rapportata da Rittershusio[137], compilata la ragion civile de' Romani,
e si composero quelle tante famose e celebri leggi delle XII. Tavole
che furono i primi e perpetui fondamenti della romana giurisprudenza,
ed i fonti come dice Livio[138], d'ogni pubblica e privata ragione, e
delle quali ebbe a dir Cicerone[139]: _Fremant omnes licet, dicam quod
sentio, Bibliothecas mehercule omnium philosophorum unus mihi videtur
duodecim tabularum libellus, si quis legum fontes, et capita viderit,
et auctoritatis pondere et utilitatis ubertate superare_.
Nè minore fu la loro sapienza nello stabilimento dell'altre leggi
che da poi dal Popolo romano furono promulgate; poichè discacciati i
Re, la maestà dell'Imperio rimanendo presso al popolo, era della sua
potestà far le leggi[140]. Siccome non fu minore ne' Plebisciti, a'
quali per la legge Ortenzia fu data forza ed autorità non inferiore a
quella delle leggi medesime[141]; ne' Senatusconsulti, che non avevan
inferiore autorità[142]; e finalmente negli Editti de' Magistrati i
quali d'annuali ch'erano fatti perpetui per la legge Cornelia, furono
sotto Adriano Imperadore per opera di Giuliano in ordine disposti
che chiamarono _Editto perpetuo_[143]; donde forse quella bella parte
della giurisprudenza[144], la quale fu poi cotanto illustrata da G. C.
romani, che servì in appresso per cinosura e base di quella, ch'oggi è
a noi rimasa ne' libri di Giustiniano[145].


CAPITOLO VII.
_De' Giureconsulti, e loro libri._

Ma quel che principalmente alle leggi de' Romani recasse maggior
autorità e fermezza, fu l'essersi mai sempre lo studio della
giurisprudenza avuto in sommo pregio ed onore appresso gli uomini
nobilissimi di quella Repubblica. Conoscevano assai bene, che non mai
abbastanza si sarebbe provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole
e nude leggi, se nella città non vi fosse eziandio chi la lor forza
e vigore intendesse ed esponesse; e nell'infinita turba delle cose e
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