Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1 - 26

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Roma 70. Quivi giunto, abbatte una reliquia di Gentilità, ch'era in
quell'angolo ancor rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'erge un
tempio, che dedicò a' SS. Martino, e Giovanni. I suoi prodigiosi fatti
ivi adoperati, e la santità della sua vita, tiraron in quel luogo
della gente, e molti sotto la sua regola ivi rimasero. Si rendè vie
più famoso per l'opinione e stima, che s'acquistò presso a Totila Re
d'Italia, e presso a molti Nobili romani; crebbe perciò il numero de'
suoi Monaci, e vi s'arrolavan i personaggi più insigni; ond'egli stese
la sua regola, e gettò gli stabili fondamenti di un grand'Ordine.
La divozione de' Popoli, e la fama della sua santità tirò ancora la
pietà di molti Nobili ad arricchirlo di poderi e di facoltà: Tertullio
Patrizio romano, vivendo ancor S. Benedetto, gli donò tutto quel
tratto di territorio, ch'è d'intorno al monastero Cassinese[896];
onde Zaccheria in suo Diploma disse esser quel monastero edificato
_in solo Tertulli_[897]: donogli ancora molte altre possessioni che e'
teneva in Sicilia; e Gordonio, padre di S. Gregorio M., gli donò una
sua villa, che possedeva ne' contorni d'Aquino. Così tratto tratto,
non ancor morto S. Benedetto, cominciò questo monastero a rendersi
numeroso ed illustre per la qualità de' suoi Monaci, e ad arricchirsi
per le tante donazioni, che alla giornata gli si facevano. La sua fama
non potè contenersi nella sola Campagna, si mandavan anche Monaci di
sperimentata probità e dottrina a fondar nell'altre nostre province
altri monasteri. Cassiodoro, uno de' più illustri personaggi di questo
secolo, nell'età di 70 anni, ritiratosi dalla Corte, si fece Monaco, e
tratto dalla fama di S. Benedetto, ch'ancor viveva, volle ne' Bruzj, e
propriamente in Squillace suo natìo paese, fondarvi un monastero, che
secondo pruova il P. Garezio[898], e rapporta Duppino[899], lo pose
sotto la regola di S. Benedetto, nella quale egli viveva: e venuto poi
a governarlo, menò in quello venticinque anni, che fu il resto di sua
vita essendovi morto vecchissimo d'età di più di 95 anni, verso l'anno
565 di nostra salute, onde Bacon di Verulamio[900] lo fa quasi che
centenario.
Questo è il monastero Vivariese, ovvero Castellese, di cui tratta
ben a lungo il P. Garezio, Monaco Benedettino della Congregazione
di S. Mauro[901], fondato da Cassiodoro, di cui ne fu Abate, non
molto lungi da Squillace a piè del monte volgarmente chiamato Moscio,
ovvero Castellese da una villa di tal nome quivi vicina, le cui radici
vengono bagnate dal fiume Pelena, oggi detto di Squillace. Fu nomato
Vivariese, perchè Cassiodoro, mentre occupava i primi onori nella
Corte de' Re goti, sovente soleva andar a diporto a Squillace sua
patria, ed in quella villa per la comodità ed abbondanza dell'acque
di quel fiume, che irrigava le radici del monte, fece costruire molti
vivai[902]. Avendo da poi per la caduta de' Goti abbandonata la Corte,
rendutosi Monaco, quivi ritirossi, e costrusse in quel luogo, ove
aveva i suoi vivai e poderi, questo monastero, dove compose la maggior
parte delle sue opere, e nel quale ancora ebbe per compagno Dionigi il
Piccolo[903]. Lo arricchì delle sue possessioni, e d'una biblioteca;
e lo rendè illustre e numeroso per molti Monaci; facendo anche nella
sommità di quel monte costruire molte celle per coloro, i quali dalla
vita monastica volevan passare all'eremitica, e da Cenobiti rendersi
Anacoreti e Solitari[904]. Prima di morire lasciò ivi per Abati,
Calcedonio e Geronzio, l'uno perchè reggesse gli Eremiti, che nella
sommità del monte castellese eransi ritirati, l'altro i Cenobiti del
monastero Vivariese. Il P. Garezio[905] rapporta ancora, che dopo
la sua morte, per molti anni fu ritenuto da' Monaci Benedettini: ma
che poi vi sottentrarono in lor luogo i Basiliani, che lungamente
il tennero, insino che per le susseguenti irruzioni de' Saracini,
non fosse stato disfatto e ruinato. Così non pur nel vicino Sannio
e nella Puglia cominciarono in questi tempi a fondarsi monasteri di
quest'Ordine, ma anche nelle province più remote e lontane.
Nell'ultimo anno di sua vita mandò S. Benedetto Placido suo discepolo
in Sicilia a fondarvi de' monasteri del suo Ordine, dove colle
donazioni di Tertullo e devozione di que' Popoli, fu propagato per
tutta quell'isola. Altre missioni in questi medesimi tempi si fecero
nella Francia, dove S. Mauro, Fausto, e suoi compagni vi fecero
meravigliosi progressi. Morì S. Benedetto secondo Lione ostiense ed
altri, nell'anno 543, ovvero, secondo alcuni altri, nell'anno 547,
non essendo ancor appurato presso agli Scrittori il preciso giorno
ed anno della sua morte, di che l'Abate della Noce[906], come d'un
punto d'istoria molto importante, tanto s'affatica e si travaglia; ma
per la di lui morte crebbero e s'avanzarono più tosto le fortune al
suo Ordine: imperocchè da poi assai più moltiplicaronsi i monasteri,
e si stese non pur in Italia, Sicilia, e nella Francia, ma ancora
nell'Inghilterra, e nell'altre più lontane province dell'Europa.
In cotal guisa queste nostre due province, la Campagna, ed il Sannio,
videro in maggior numero i monasteri di quest'Ordine, i quali
nell'altre due province, come più remote, furon più radi; ma ben
all'incontro più numerosi quelli fondati sotto la regola di S. Basilio;
la Puglia e la Calabria, il Bruzio e la Lucania, e le città marittime
della Campagna, come Napoli, Gaeta, Amalfi, ed alcune altre, che per
la maggior parte lungo tempo dimorarono sotto gl'Imperadori d'Oriente,
come più a' Greci vicine, e coi quali aveano assai più frequenti
commerci, ricevettero con maggiore prontezza i loro istituti; ed in
Oriente, essendo la regola di S. Basilio assai celebre e rinomata,
quindi avvenne, che tutti, o la più parte dei monasteri, che vi si
fondavano, sotto quell'Ordine erano istituiti. In Napoli S. Agnello
fu il primo, per quanto si sa, che vi stabilisse un monastero,
cominciato prima da S. Gaudioso, di cui egli ne fu Abate. Alcuni[907]
credettero, che S. Agnello seguitasse la regola di S. Benedetto; ma
il P. Caracciolo[908] pruova assai chiaro che fu Monaco Basiliano,
il quale trovando, che S. Gaudioso, quando si ricovrò in Napoli, dove
morì l'anno 453 avanti che fosse nato S. Benedetto, v'avea eretto un
monastero, egli vi stabilì la regola di S. Basilio: Ordine che in
que' tempi erasi renduto assai celebre e rinomato. Nè quello passò
sotto la regola di S. Benedetto, se non ne' tempi posteriori, morto
Agnello, dopo l'anno 590, quando i Benedettini cominciaron ad essere
più considerati, e si renderon più famosi. Molto tempo da poi ne'
secoli men a noi remoti, verso l'anno 1517, fu abitato da' Canonici
Regolari della Congregazione del Salvatore[909], siccome oggi giorno
vi dimorano. E così in questo sesto secolo, come ne' secoli seguenti
si videro in Napoli molti di questi monasteri sotto la regola di S.
Basilio, come il monasterio Gazarese nella piaggia di mare: de' SS.
Nicandro, e Marciano: di S. Sebastiano: de' SS. Basilio, ed Anastasio
nella regione Amelia: di S. Demetrio nella regione Albina: di S.
Spirito, ovvero Spiridione: di S. Gregorio Armeno nella regione
Nostriana di S. Maria di Agnone: di S. Samona: de' SS. Quirico, e
Giulitta, ed altri: ed in Napoli, ed altrove[910].
Ecco come in queste nostre province fossero stati introdotti i
monasteri. I primi, che vi comparvero, furono sotto la regola di S.
Basilio, e di S. Benedetto; e quindi, essendosi già introdotte le
Comunità di donzelle, le quali facevan voto di virginità, e dopo certo
tempo ricevevano con solennità il velo, si videro parimente i monasteri
di donne sotto la regola di S. Benedetto, ch'ebbero ancora per loro
condottiera Scolastica di lui sorella; e sotto quella di S. Basilio,
che sono i più antichi, che ravvisiamo in queste nostre province. Così
presso di noi fu stabilito l'Ordine monastico, il quale però in questi
tempi non avea fatti que' maravigliosi progressi, che si sentiranno in
appresso. Nè gli Abati, e' Monaci erano stati ancora sottratti dalla
giurisdizione de' Vescovi, nè lor conceduti que' tanti privilegi da'
Pontefici romani, i quali per avergli a se devoti e ligi, da poi lor
concedettono. Si rendè perciò il monte Casino uno dei due più celebri
santuarj, ch'ebbero in quest'età le nostre province, ove concorrevano
i peregrini da tutte le parti del Mondo. Un altro in questi medesimi
tempi era surto in Puglia nel monte Gargano per l'apparizione di S.
Michele, che narrasi accaduta in quella grotta a tempo di Papa Gelasio,
mentre la sede di Siponto era occupata dal Vescovo Lorenzo. Santuarj,
che nel regno de' Longobardi e de' Normanni si renderono così chiari
e rinomati, che per la loro miracolosa fama, tiraron a se non pur i
peregrini dalle più remote parti del Mondo, ma anche i maggiori Re e
Monarchi d'Europa, ed i più potenti Principi della terra.

§. V. _Regolamenti ecclesiastici, e nuove Collezioni._
I regolamenti ecclesiastici si videro in questi tempi, non men
intorno a' dogmi, che alla disciplina, assai più ampj e numerosi.
Coll'occasione d'essersi convocati più Sinodi e Concilj, si stabiliron
in conseguenza moltissimi canoni. Si cominciò a stabilirne anche di
quelli, che s'appartenevano alla potestà de' Principi. I gradi di
parentela, che prima si regolavano secondo le leggi civili, furon
anche regolati da' canoni, e le proibizioni delle nozze furono
stese a' cugini, ed ai figliuoli de' cugini. Teodosio M. avea prima
proibite le nozze fra' cugini, il che confermaron Arcadio ed Onorio
suoi figliuoli, come attesta S. Ambrosio[911]: Giustiniano poi le
permise[912], onde Triboniano volendo inserir nel suo Codice la legge
di Teodosio[913], la smozzicò sconciamente per non farla contraddire
a ciò, che Giustiniano avea su ciò variato[914]. I canoni ora le
proibiscono, non pur fra' cugini, come avea fatto Teodosio, ma anche
fra' figliuoli di quelli; ed introdusser poi un nuovo modo di computare
i gradi che Cujacio[915] stima non esser più antico di S. Gregorio M. e
del Papa Zaccheria. Non s'erano ancora intesi regolamenti intorno alle
facoltà delle Chiese, ma essendo in questi tempi cresciute e malmenate
dagli Ecclesiastici, si cominciò a far de' canoni per impedirne il
dissipamento e l'alienazioni. Era della potestà de' Principi il proibir
l'opere servili nel dì di domenica, e gl'Imperadori ne stavano in
possesso, come si vede dalle leggi di Lione e d'Antemio[916]: ed ora
si vede sopra di ciò essersene anche fatti canoni. Il dichiarar le
Chiese per asili[917] s'apparteneva agli stessi Imperadori, come se
ne leggono molte costituzioni nel Codice di Teodosio: ma ora questo
diritto vien anche dichiarato da' canoni. Ne furon eziandio stabiliti
molti su l'usure e divorzj, e sopra altre materie, la cui providenza
e regolamento s'apparteneva, ed era della potestà ed imperio de'
Principi. Quindi si vide il lor numero crescere in immenso; onde
sursero altri Codici e nuove Compilazioni.
Nel precedente libro s'è veduto, che sin a' tempi di Valentiniano
III, così la Chiesa occidentale, come l'orientale non conobbero altri
regolamenti, che quelli che furono raunati nel _Codice de' Canoni
della Chiesa Universale_, compilato per Stefano, Vescovo d'Efeso. Ma
da poi nel primo anno dell'Imperio di Giustiniano nel 527 uscì fuori la
_Collezione di Dionigi il Piccolo_. Questi fu un Monaco scita abitante
in Roma, e fu il primo che introdusse l'uso di numerar gli anni dalla
nascita di Cristo S. N. come noi facciamo ancora[918]; poichè prima
si computavano, o nella maniera dell'antica Roma per li Consoli, o
per li primi stabilimenti de' Principi greci successori d'Alessandro:
ovvero per li tempi de' Martiri, che sofferirono il martirio sotto
Diocleziano: ed in Ispagna per l'Era d'Augusto Imperadore, che precede
38 anni alla nascita di Cristo. Egli fu amicissimo di Cassiodoro, dal
quale fu ricercato, che istruisse nelle discipline, e particolarmente
nella filosofia i suoi Monaci nel monastero Vivariese[919]: lesse quivi
insieme con Cassiodoro la dialettica, e più anni dimorò suo compagno
in quel magisterio. Gli encomj, che da Cassiodoro gli vengon dati, si
leggono ancora nelle sue opere[920]. Egli arricchì la Chiesa latina di
molte traduzioni fedeli dell'opere de' Greci; ed a richiesta di Stefano
Vescovo di Salona[921] in Dalmazia tradusse in latino la raccolta de'
canoni greci più fedelmente, che non era la traduzione antica latina,
della quale si servivano gli occidentali: a questa aggiunse tutto ciò
che v'era nel Codice greco, cioè i 50 canoni appostolici, i canoni del
Concilio di Calcedonia, di Sardica, di Cartagine, e d'altri Concilj
d'Affrica.
Aggiunse parimente l'epistole decretali di Siricio Papa, che morì
l'anno 398 (argomento, che l'epistole, che si rapportano prima di
Siricio sieno apocrife). Si chiamavano lettere decretali quelle, che i
Pontefici scrivevano sopra le consultazioni de' Vescovi per decidere i
punti di disciplina, e le quali si mettevano fra' canoni. Così i Greci
mettevano fra i canoni le tre lettere di S. Basilio ad Anfilochio,
ed alcune altre de' più famosi Vescovi delle sedi maggiori[922]. A
queste poi, dopo la morte di Dionigi, furon aggiunti i decreti di
Gregorio II, compresi in 17 capitoli, come fu osservato da Pietro de
Marca Arcivescovo di Parigi[923]. Quel che reca maraviglia si è, che
benchè il Codice greco, di cui si servì Dionigi, finisse nel Concilio
costantinopolitano I, al quale eransi poi aggiunti discontinuatamente
i canoni del Concilio calcedonense, come afferma il medesimo Dionigi
nella prefazione a Stefano Vescovo di Salona, tuttavia avendovi dovuto
aggiunger tanto del suo, come i canoni sardicensi ed affricani, non fa
niuna menzione del Concilio efesino, o de' suoi canoni fatti nell'anno
431, quando questi canoni si trovano nel Codice greco dato in luce
da Justello nell'anno 1610 onde si rifiuta l'opinione di coloro, che
stimano, che Giustiniano nella Novella 131 fatta nell'anno 451 avesse
confermato, e data forza di legge al Codice de' canoni compilato
da Dionigi; poichè quivi Giustiniano conferma anche i canoni fatti
nel Concilio efesino, ivi: _Sancimus vicem legum obtinere sanctas
Ecclesiasticas regulas, ec. in Ephesina prima, in qua Nestorius est
damnatus ec._ Doujat[924] però dice, che Dionigi non ne fece menzione,
perchè quel Concilio non stabilì canoni attenenti alla disciplina, ma
solamente canoni riguardanti l'esecuzione della condanna di Nestorio,
e suoi aderenti.
Questa Collezione di Dionigi, in Occidente ed in queste nostre province
ebbe tutta l'autorità, e tutto il vigore[925]; e da Niccolò I. R.
P.[926] vien chiamata per eccellenza _Codex Canonum_, e dal diritto
canonico _Corpus Canonum_[927]. E ne' tempi seguenti ebbe tanta
forza, che nell'anno 787 data in dono da Adriano I. a Carlo M.[928],
questo Principe comandò a' Vescovi di Francia, che invigilassero
all'osservanza dei canoni in quella racchiusi; e comprese que' decreti
nel suo _Capitolare_ d'Aix la Chapelle, che fece comporre nell'anno 789
secondo che narra Justello[929].
Intorno al medesimo tempo nell'anno 547 Fulgenzio Ferrando Diacono di
Cartagine fece un'altra raccolta di canoni[930], ma con diverso ordine,
più tosto citandogli, che rapportandogli, e sotto ciascun capo raccolse
i canoni di diversi Concilj, della quale fa menzione Graziano nel suo
decreto[931].
Il Cardinal Baronio[932] stima, che circa questi medesimi tempi sieno
state fatte le Collezioni di Martino di Braga, e di Cresconio. Altri
credono[933] che quella di Martino fosse fatta intorno all'anno 572,
e l'altra di Cresconio circa l'anno 670. Martino, di nazione Unghero,
e Monaco Benedettino, fu Vescovo di Braga in Portogallo. Fece la sua
raccolta per uso delle Chiese di Spagna, traducendo i Sinodi greci,
ed aggiungendovi altri canoni di Concilj latini, e spezialmente dei
toletani: questa Collezione però fuori delle Spagne non ha avuto uso nè
autorità, se non quanto avesse servito per illustrazione[934].
Cresconio Vescovo d'Affrica compose la sua Collezione di canoni, della
quale ci resta un compendio, il cui titolo, secondo un MS. che rapporta
il Baronio, era questo: _Concordia Canonum a Cresconio Africano
Episcopo digesta sub capitibus trecentis_. E perchè ivi fassi anche
menzione d'un poema in versi esametri composto dal medesimo Cresconio
per celebrar le guerre e le vittorie riportate da Giovanni Patricio
contra i Saraceni d'Affrica, fa conto il Baronio, che egli vivesse
intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore.
Giovanni Scolastico, che, mandato Eutichio in esilio, fu innalzato al
Patriarcato di Costantinopoli da Giustiniano Imperadore[935], e visse
anche dopo lui, fu il primo, che in Oriente avesse fatta Raccolta,
dove si unissero insieme i canoni colle leggi, spezialmente le Novelle
di Giustiniano; la qual spezie di libro fu chiamata poi _Nomocanone_
da' Scrittori seguenti: e benchè questa Collezione divisa in cinquanta
titoli, da principio ebbe qualch'uso; nondimeno Teodoro Balsamone
nel supplimento osserva, che a tempo suo, cioè nella fine dal secolo
duodecimo, non aveva alcuna stima, come quella ch'era stata adombrata
dal Nomocanone di Fozio, più utile e più abbondante[936].
Queste furono le Collezioni de' canoni, che dopo il Codice de' canoni
della Chiesa universale sursero ne' seguenti tempi infin all'Imperio di
Giustino, successor di Giustiniano[937]: le quali non avevan forza di
legge, se non quando dagl'Imperadori e Principi era lor data. La Chiesa
non avea peranche in questi tempi acquistata giurisdizione perfetta,
sì che potesse far valere i suoi regolamenti, come leggi, ed obbligare
i Fedeli con temporal costringimento all'osservanza de' medesimi, o
punire i trasgressori con pene temporali: obbligavan solamente per
la forza della religione le loro anime; e le pene e gastighi erano
spirituali, di censure, penitenze, e deposizioni. I Principi per mezzo
delle loro costituzioni lor davan forza di legge, obbligando i sudditi
ad osservargli con temporale costringimento, come il manifestano
in Oriente le Novelle di Giustiniano, la Collezione di Giovanni
Scolastico, i Nomocanoni di Fozio e di Balsamone; ed in Occidente,
nella Francia i capitolari di Carlo M. in Ispagna le leggi di que'
Re, per le quali a' canoni stabiliti ne' Concilj tenuti in Toledo, o
altrove, davan tutta la forza ed autorità; ed in Italia i tanti editti
di Teodorico e d'Atalarico, che appresso Cassiodoro si leggono.

§. VI. _Della conoscenza nelle cause._
Lo Stato ecclesiastico, durante la dominazione dei Goti in queste
nostre province, non acquistò maggior conoscenza, o nozione nelle
cause, di quella ch'ebbe ne' precedenti secoli sotto i successori di
Costantino infino all'Imperio di Valentiniano III. Era ancor ristretto
nella conoscenza degli affari della fede e della religione, di cui
giudicava per forma di politia; nella correzione de' costumi, di cui
conosceva per via di censure; e sopra le differenze insorte fra'
Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio e d'amichevole
composizione. Non ancora avea acquistata giurisdizione perfetta, nè
avea foro o territorio, nè i suoi Giudici eran divenuti Magistrati.
Teodorico e gli altri Re suoi successori lo contennero ne' suoi limiti,
nè la di lui conoscenza trapassò i confini del suo potere spirituale,
toltone la conoscenza in quelle tre sole occorrenze già ricordate;
in tutto il resto gli Ecclesiastici osservavano le leggi civili, e
come membri della società civile ubbidivano, come tutti gli altri,
a' Magistrati secolari, così ne' giudicj criminali, come civili, dai
quali eran giudicati e puniti. L'accuse si riportavan al Principe,
perchè o egli le giudicasse, o delegasse ad altri la loro cognizione,
e sovente per li loro delitti eran mandati in esilio, e deposti
dalle loro cariche. Si è veduto, come il Popolo romano, l'accuse
che inventò contra Simmaco, le portò fin a Ravenna al Re Teodorico,
perchè prendesse a giudicarlo, dimandandogli un Visitatore, siccome
gli fu dato, perchè lo sentenziasse; non altrimente di ciò, che fecero
i Vescovi d'Italia contra Damaso, i quali ricorsero agl'Imperadori
Graziano e Valentiniano, pregandogli che prendessero a giudicare
quel Papa da loro accusato. Non recava maraviglia in questi tempi,
mandarsi dal Re i Vescovi, come loro sudditi, ed il Papa stesso in
varie parti, ove portava il bisogno, e chiamargli a lor posta, nel che
sempre erano pronti ed ubbidientissimi. Papa Giovanni I. fu mandato
dal Re Teodorico fino in Costantinopoli per ottener dall'Imperador
Giustino I. la revocazione d'un suo editto, col quale esprimeva, che le
Chiese degli Arriani si fossero date a' Cattolici: e non avendo avuta
questa imbasciata quel successo da Teodorico sperato, imputandosi alla
sospetta fede di Giovanni, e poca buona condotta da lui usata, quando
egli era di ritorno per Italia, lo fece arrestare in Ravenna, dove
morì il dì 27 di marzo dell'anno 526. E Teodato mandò Papa Agapito
a Costantinopoli per trattar con Giustiniano la pace cotanto da lui
bramata.
Il Re Atalarico stabilì con suo editto istromentato da Cassiodoro[938],
che quelli, i quali per simonia ed ambizione erano stati eletti, fosser
accusati avanti i suoi Giudici e puniti severamente, stabilendo premj
agli accusatori, con dar loro la terza parte di ciò, che venissero
condennati, ed il rimanente da doversi impiegare alle fabbriche delle
Chiese, e per sovvenimento de' loro Ministri.
Intorno alle loro cause civili fu serbata a' Magistrati secolari
la medesima giurisdizione che prima avevano; dovevan innanzi a loro
istituire i giudicj, proponere le loro azioni, e citati dar malleveria
_judicio sisti_. Solamente il Re Atalarico favorì in ciò la Chiesa
romana, approvando una consuetudine, che s'era introdotta nel Clero di
quella, di doversi prima i suoi Preti convenire, o accusare avanti il
loro Vescovo. I Magistrati secolari, che in Roma da quel Principe erano
stati destinati ad amministrar giustizia, secondo ciò che praticavasi
in tutte l'altre province, ad istanza del suo creditore, costrinsero
un Diacono di quella Chiesa a soddisfar il debito; e lo strinsero
con tanta acerbità, che lo diedero in mano del medesimo creditore a
custodirlo. Un altro Prete della medesima Chiesa per leggiere cagioni
accusato, lo trattarono assai aspramente e con molti strazi. Il Clero
di Roma con flebili lamenti e preghiere, ricorse al Re Atalarico,
esponendogli, che nella lor Chiesa, per lunga consuetudine, affinchè
i loro Preti intrigati nelle liti del Foro, e tra' negozj del secolo,
non si distogliessero dal culto divino, erasi introdotto, che avanti
il loro Vescovo dovessero convenirsi: e che ciò non ostante, da'
suoi Magistrati erano stati un lor Prete e un Diacono acerbamente,
e con molte contumelie trattati; pregavano per tanto la clemenza di
quel Principe a darvi opportuno provedimento. Il Re alle loro preci
rispose, che per la riverenza ed onore, che si doveva a quella sede
appostolica[939], d'allora innanzi stabiliva, che se alcuno avea
da convenire qualche Prete del Clero romano in qualsivoglia causa,
dovesse prima ricorrere al giudicio del Vescovo di quella sede, il
quale dovesse, o egli conoscere more _suae sanctitatis_ de' meriti
della causa, ovvero delegarla, _acquitatis studio terminandam_; ma se
l'attore o l'accusatore usando di questa riverenza, si vedesse deluso e
differito nelle sue dimande, o quelle disprezzate; _tunc ad saecularia
fora jurgaturus occurrat_. All'incontro, se pretermesso questo suo
comandamento, ricorrerà alla prima a' Tribunali secolari, gl'impone
pena di dieci libbre d'oro, da doversi da' suoi Tesorieri immantenente
riscuotere, e per le mani del Vescovo dispensarsi a' poveri, e di
vantaggio cadesse dalla causa, e con tal doppia pena fosse punito. Ma
non tralasciò Atalarico nell'istesso tempo d'ammonirgli, che vivessero,
come si conveniva al loro stato, dicendogli: _Magnum scelus est crimen
admittere, quos nec conversationem decet habere saecularem; professio
vestra vita coelestis est. Nolite ad mortalium vota humilia, et errores
descendere. Mundani coerceantur humano jure, vos sanctis moribus
obedite_.
Ecco come in questi tempi in tutte l'altre Chiese, de' Magistrati
secolari era la conoscenza e giurisdizione delle cause, così civili
come criminali degli Ecclesiastici, erano sottoposti a' loro giudicj
ed ammende: nè perchè al solo Clero di Roma, per riverenza di quella
sede, volle Atalarico usar questa indulgenza, fu perciò al suo
Vescovo, o pure a quelli, a' quali egli delegava le cause, data per
giudicarle giurisdizione alcuna; ma solo, che dovessero terminarle
_more suae sanctitatis, et aequitatis studio_, in forma d'arbitrio e di
caritatevole composizione, non già in forma di giudicio e di giustizia
contenziosa.
Giustiniano adunque fu il primo, che cominciò ad accrescere la
conoscenza de' Vescovi nelle cause degli Ecclesiastici, e diede a
quelli privilegio di non piatire avanti Giudici laici. Questo Principe,
siccom'egli era pietoso e religioso, così accrebbe la conoscenza dei
Vescovi, ordinando per le sue Novelle[940], che nelle azioni civili i
Monaci ed i Cherici sarebbero convenuti in prima innanzi al Vescovo,
il quale deciderebbe le loro differenze prontamente, senza processi e
senza alcun rumore o strepito di giudicio; a condizione però, che se
una delle parti dichiarasse fra dieci giorni di non volere acquetarsi
al suo giudicio, il Magistrato ordinario prendesse cognizione della
causa, non per forma d'appellazione, come alcuni credettero, e come in
ciò superiore al Vescovo, ma tutto di nuovo: e se giudicava come aveva
arbitrato il Vescovo, non v'era appellazione da lui: ma se altrimente,
si dava in questo caso luogo all'appellazione. E quanto alle cause
criminali, era permesso d'indirizzarsi contro il Cherico, o innanzi al
Vescovo, ovvero al Giudice ordinario, salvo ne' delitti ecclesiastici,
come d'eresia, simonia, inobbedienza al Vescovo, ed ogn'altro
concernente la loro qualità, la cui conoscenza era attribuita al solo
Vescovo: come altresì delle differenze concernenti alla religione e
alla politia ecclesiastica, anche contro a' laici. Stabilì ancora,
che se nelle cause criminali il Cherico fosse condennato dal Giudice
laico, la sua sentenza non potesse eseguirsi, nè il Prete degradarsi,
senza l'approvazione del Vescovo; che se egli non lo volesse fare,
era necessario di ricorrere all'Imperadore. Ed in quanto a' Vescovi,
diede loro particolarmente questo privilegio di non piatire per niente
innanzi a' Magistrati laici, il qual privilegio diede ancora alle
religiose per la Novella 79 che gl'Interpreti hanno malamente steso a'
religiosi. E questo regolamento di Giustiniano, contenuto nella Novella
123, è quasi interamente reiterato dalle costituzioni dell'Imperador
Costantino III figliuolo d'Eraclio, e di Alessio Comneno, rapportate
per Balsamone nel titolo sesto del suo Nomocanone. Ecco come per
privilegio del Principe si cominciò ad ingrandire la conoscenza de'
Vescovi: non è però, ch'allora acquistassero giustizia perfetta, che
il diritto chiama giurisdizione, sopra i Preti, non avendo di que'
tempi territorio, cioè _Jus terrendi_, nè preciso costringimento.
Per la qual cosa non potevano di lor autorità imprigionare le persone
ecclesiastiche, nè avevan carceri: nè potevano imporre pene afflittive
di corpo, d'esilio e molto meno di mutilazion di membra o di morte,
anche nei più gravi delitti; nè condennare all'ammende pecuniarie.
Le pene, che usavano erano deposizioni, o sospensioni degli Ordini,
digiuni e penitenze: e questa forma di disciplina continuossi per tutto
l'ottavo secolo: ciò che ottimamente notò Gregorio III, in quella bella
epistola, che dirizzò a Lione Isaurico[941], dove fa vedere quanto
sia grande la differenza, fra le pene dell'Imperio e della Chiesa:
gl'Imperadori condannano a morte, imprigionano, mandano i rei in esilio
e rilegano: non così i Pontefici: _Sed ubi_, come sono le sue parole,
_peccarit quis, et confessus fuerit, suspendii, vel amputationis
capitis loco, Evangelium, et Crucem ejus cervicibus circumponunt,
eumque tamquam in carcerem, in secretaria, sacrorumque vasorum aeraria
conjiciunt, in Ecclesiae Diaconia, et in Catecumena ablegant, ac
visceribus corum jejunium, oculisque vigilias, et laudationem ori
ejus indicunt. Cumque probe castigarint, probeque fame afflixerint,
tum pretiosum illi Domini Corpus impartiunt, et Sancto illum Sanguine
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