Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 15

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quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali,
e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in
dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti
ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del
mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli
uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la
terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar
daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi
princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí
come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli
assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come
lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí
la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori,
ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni
cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto
questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di
quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né
Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano;
e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno,
re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il
cuocere divenne, di mestiere, arte.
È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno
esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda,
sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non
fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere
aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e
quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi,
faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a
poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale
non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria
dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a
doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí
come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi
si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia
saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore
noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo
forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di
fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.
Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in
Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le
ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del
romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che
alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si
sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non
che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero
in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari
irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le
cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto
di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri
lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle
cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre
misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro
deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il
naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie
deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al
disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma
dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti
modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie
di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá
deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie
gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché
piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno
introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi
i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò,
mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non
cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come
Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo
della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si
trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ
vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore
deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta
di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto
questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e
discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ
passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella
molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella
con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa
appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel
tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente
Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio,
nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume
mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa
colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti
delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco
insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la
quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma
pure alcuna cosa ne dirò.
È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a
me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa,
né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere
non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici
trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ
debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ
poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni
arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici,
ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si
fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni
convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense
pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a
dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile,
quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni
convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le
confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini
non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna,
dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso
artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande,
[i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ
taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante
e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra
le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca
non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe,
le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or
volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente
avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta,
che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori,
queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da
ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste
e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri
sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come
i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole
riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono
intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua,
millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non
potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia
il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato;
e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato
della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá
cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio
deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta,
o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali
i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o
avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.
Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli
da esso molto offeso sia.
Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è
assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente.
Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano,
essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo,
e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze
dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato
vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto,
convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi,
tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e
contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali,
per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan
le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli
occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore,
le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il
fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo,
tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano.
Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano,
urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica
simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane,
gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie,
ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam
comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della
gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ
publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata
cagione.
I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi,
gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo
furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò,
per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna,
se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le
quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua
primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la
sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di
mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi
sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il
dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello
Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in
inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in
far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio
sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino
dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle,
furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta
gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi,
né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino
deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi.
Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo
da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito.
Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole
recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel
e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie,
ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí,
spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito
di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto
bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole
di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta
bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.
Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola
stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò
riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si
puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali
lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi
senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza
intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di
questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono
per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di
gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro
che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del
bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i
dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano,
non avendo riguardo a quello che contro a questo nel _Libro della
Sapienza_ ammaestrati siamo, nel quale si legge: «_Ne intuearis vinum,
cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo
mordebit, ut coluber_». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie
di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid _potest quis gustare,
quod gustatum affert mortem_?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere
stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato.
È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente
testifica Ieremia, dicendo: «_Venter mero aestuans, facile despumat in
libidinem_»; e Salomon dice: «_Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa
ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens_»; e san
Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente
ammaestrandoci, dice: «_Nolite inebriari vino, in quo est luxuria_». È
ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi
che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta
e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana:
di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono
tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui,
sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La
terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette
cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano
il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob:
«_Bibunt indignationem, quasi aquam_». Ma, secondo che si legge nel
salmo: «_Amara erit potio bibentibus illam_»; e come Seneca a Lucillo
scrive nella ventiquattresima epistola: «_Ipsae voluptates in
tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum
torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum
omnium depravationes_» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori,
ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori,
abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti,
brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e
noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze
sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli,
gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie
temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ
sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi
guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono
tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione
son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel
terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto
debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú
chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare
brievemente.
Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra
marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco
giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso
«grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione
di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani:
e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza
parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro
in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre
teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio
gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani
unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri
dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere
sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la
divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come
essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero
in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare convenirsi che,
contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi
giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando
i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse
torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari
vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di
piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli
percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere
essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri
lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non
solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ
quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe,
per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo
versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale
non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per
lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle
dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso
escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane
spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi
sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in
luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive.
E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti,
cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto
che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti,
non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro
angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a
disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di
quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo
della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il
terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli
faccia disiderare dʼesser sordi.
Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la
qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta
è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno, e guardiano della
porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi
voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore
discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento
assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che
piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «_creon vorans_», cioè
«divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di
sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo
dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane»,
percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá
da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien
venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.
Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie
deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio
caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni
deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú
in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente
si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole,
per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi
sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa
umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser
battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai;
il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che
impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che
essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E,
oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda
sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo
divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che
mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a
quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di
mangee e divisatori di quelle.
E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda
un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali, per soperchio bere,
i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li
quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e
lagrimosi.
Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto
mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non
potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto;
e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio
sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i
canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che,
conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale,
quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel
vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente
adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni
di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore
sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta
malvagia.
Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il
molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo,
per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla
natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta
dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo
sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a
gittar fuori.
E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che
sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande;
e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú
che alcuna altra gli piaccia.
Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun
membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi
si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che
alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente
senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare
glʼincomposti movimenti dellʼebbro.
Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide,
aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro
costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o
intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la
forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual
consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por
non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o
bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per
non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente,
volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come
è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio
uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in
questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.


CANTO SETTIMO

I
SENSO LETTERALE
[Nota: Lez. XXVI]
—«_Papé Satan, papé Satan aleppe_»,—ecc. Nel presente canto
lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose
precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello
ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra
come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun
cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due
parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari
eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli
accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior
pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi
alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio
fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena
avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza
dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda
comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi:—«Maestro,—dissʼio
lui».
Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra,
trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide,
_admirative_ cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni,
dicendo:—«_Papé_».
Questo vocabolo è _adverbium admirandi_, e perciò, quando dʼalcuna cosa
ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «_papé_!». E da questo
vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá
del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e
non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina,
e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora
chiamavano i lor preti «_papas_», quasi «ammirabili»: e ammirabili
sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl
sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di
sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor
colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del
quale siede il vicario di san Pietro.
«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe
deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario»
o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico
delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere
stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella
quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.
«_Papé Satán_». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare
lʼammirazione esser maggiore.
E seguita: «_aleppe_». «_Alep_» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ
giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra
lettera, cioè «a»; ed è «_alep_» appo gli ebrei _adverbium dolentis_;
e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima
voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che
egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.
Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta,
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