Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 11

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quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris,
quasi «eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che
Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e
Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non vʼera
stata chiamata, preso un pomo dʼoro, vi scrisse sú che fosse dato alla
piú degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di
che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come
a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione
grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle
dare, ma disse loro:—Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo
chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna.—Per
la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una
parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a lui la
lor quistione, dicendo Giunone:—Io sono dea deʼ regni: se tu dirai
me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di
molti.—Dʼaltra parte diceva Pallade:—Io sono dea della sapienza: se
tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere.—Venere
similemente diceva:—Io sono dea dʼamore: se tu dai, come a piú degna,
il pomo a me, io ti farò avere lʼamore e la grazia della piú bella
donna del mondo.—Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione,
egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa,
come appresso si dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio
dice essere stato da Nerone raccontato nella sua _Troica_, fortissimo,
intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a
Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi
dʼessere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo
mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che
Paris, che giá daʼ suoi nutritori saputo lʼavea, gridò forte:—Io son
tuo fratello;—che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le
quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella
casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò,
che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto
spezie dʼambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove
alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue _Pistole_, che esso
fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in
Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della
bellezza dʼElena essere andato in Isparten, e quella avere combattuta
il primo anno del regno dʼAgamennone, non essendovi Castore né Polluce,
fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano
menata Ermione, figliuola di Menelao e dʼElena. E cosí, avendo presa la
cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i
tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual
cosa assai elegantemente tôcca Virgilio, quando dice:
_Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter?_ ecc.
E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver
meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú
bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia
menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in
lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa
rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel
quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo
Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.
Séguita poi: «Tristano».
Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re
Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti
romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men
che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per
la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde
vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò,
e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò
il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti
insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli
ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.
«E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille»,
quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»;
«Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente
chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte;
percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.
«Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena
parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne
antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui
quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che
noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ
dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle
medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla
giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover
temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci
ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose
adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via
di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione,
quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun
peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E,
avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai:—Poeta,
volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella
bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri»,—cioè con
minor fatica volanti. «Ed egli a me:—Vedrai quando saranno», menati
dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor,
che i mena», qual che quello amor si sia, «ed eʼ verranno», qui, da
quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl
vento a noi gli piega, Muovi la voce»—cioè priega come detto tʼho.
Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a
dire in questa guisa:—«O anime affannate», dal tormento e dalla noia
di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega»,—cioè se voi
potete.
«Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con
quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali
colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate,
«Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce
nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura
per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal
voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra
guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi
due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano
per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer
maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè
sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere
che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí:—«O animal grazioso e
benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente
pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri
della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per
lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno»,
quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque
toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è
nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la
tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro
mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e
che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a
vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl
vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non
cʼinfesta.
[Nota: Lez. XX]
«Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza
essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri.
Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse,
e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa
nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei
fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e
di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e
composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse,
piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado;
e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per
moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca,
a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad
alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a
messer Guido:—Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete
modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire
scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè
dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio
sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per
marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener
questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci
un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome
di Gianciotto.—Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi
dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa,
quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer
Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo
quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò
segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato.
Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto,
con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e
piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini
per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di
lá entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio dʼuna finestra a
madonna Francesca, dicendole:—Madonna, quegli è colui che dee esser
vostro marito;—e cosí si credea la buona femmina; di che madonna
Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi
artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna
a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina
seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che
si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò
rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale
come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che
lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo
quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile
ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí
fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza,
ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá,
quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual
cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui,
e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando
volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente
turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto
Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato
allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata
era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per
che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per
fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si
scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo
suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse
ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi
giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad
un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo
giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi
trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente
sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno
stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene,
accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo
tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo
stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che
egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della
donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato
Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna,
ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni
lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo.
Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente,
seppelliti e in una medesima sepoltura.
Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine
cominciando:—«Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di
Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini,
quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ
nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al
quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che
essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle
montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso
il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi
discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si
divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra
ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara,
similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso
Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro,
mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che,
mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette
in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.
«Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni
il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte;
e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice
essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga
pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo
volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola
dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò.
Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore
dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione,
è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che
questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu
figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro _De natura
deorum_ testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze,
sí come per Seneca appare nella tragedia dʼ_Ipolito_, nella quale dice:
_Et iubet caelo superos relicto
vultibus falsis habitare terras.
Thessali Phoebus pecoris magister
egit armentum, positoque plectro
impari tauros calamo vocavit.
Induit formas quotiens minores,
ipse, qui caelum nebulasque ducit?
Candidas ales modo movit alas,_ ecc.
E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare
sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra
materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam
dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi
corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche,
prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché,
secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno,
Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e
trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora
nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere
essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del
_Quadripartito_ che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere
insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a
concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e
alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto
come questo cotal vede alcuna femmina, la quale daʼ sensi esteriori
sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è
portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene
alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella
alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella
spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè
allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle
spezie, sí come Aristotile scrive _in libro De anima_. Quivi, cioè in
questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui,
nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá
di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa
cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria
la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore
ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza
ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien
sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e
a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna
volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente
si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere
generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione
secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse,
questa passione non si genererebbe.
Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come
vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò,
e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato
e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè
flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella
passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e
ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in
compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale
io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel
quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.
[Nota: Lez. XXI]
«Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza
dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene
dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel
canto ventiduesimo, dicendo:
amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fuore.
Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade
volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè
a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene,
può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente
ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá
i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si
dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non
perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato
ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di
costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun
che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza,
«Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu
fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io
lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di
Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼ_Eneida_, Sicheo perseverare
nellʼamor di Didone, dove dice:
_Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sichaeus amorem_, ecc.
[Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché
la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato
abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli
porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente
sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole,
a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.]
«Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in
un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del
presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale
peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli
sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal
peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si
puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò
dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise
lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci
spense»,—cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il
qual si può dire «spegner di vita».
«Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna
Francesca, parlante per sé e per Polo.
«Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí
dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha
udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta
mi disse:—Che pense?»—quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad
altro.—
«Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire:—«O
lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da
speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto
disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al
doloroso passo!»—della morte.
«Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai:—Francesca, i tuoi
martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio»,
cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè
quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come»,
cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli
amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire
il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te,
«i dubbiosi disiri?»—Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti,
percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno ami lʼaltro e
lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino
a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.
«Ed ella a me:—Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»:
chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per
rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama
«miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è:
e questo assai chiaro testimonia Boezio, _in libro De consolatione_,
dicendo: «_Summum infortunii genus est, fuisse felicem_»; «e ciò
sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della
narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore
di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma,
se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro
amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor
gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore,
madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella
radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui
lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor
tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei
che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per
diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose
raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú
composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor
lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere
stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del
re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre
cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente
adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere
gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno
impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun
lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal
volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che,
da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono
e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo
un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio
mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata
letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto
amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior
cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia
diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto
di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che,
quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si
comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la
prima volta il prendono.
«Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi
che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante,
sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore
di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti
proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale
egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento
seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire
questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando
con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro
della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí
vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed
ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra
Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui
che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe
esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo
avante»:—assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa,
i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo
seguitasse.
«Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del
presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel
ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè
madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro
piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che di pietade»,
per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio
morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta
forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il
cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze
sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche
parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal
suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta
di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto
per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in
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