Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 06

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«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli
stanno».
«Democrito» (_supple_) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo
sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al
re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito,
che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte
del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di
sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al
popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso,
secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere
di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta
della cagione, rispose:—Io rido della sciocchezza di tutti quegli li
quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo
tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare,
né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora.—Costui, percioché estimò
il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento
degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli
occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere
le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile
al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse
dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era
dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl
guidava: benché Tullio, nel quinto delle _Quistioni tusculane_, dice
questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro
filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio
e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse
unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso
estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio
o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di
tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto
suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non
secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta,
ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in
quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico,
si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte
si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava
«tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi
formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo,
costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore
di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per
le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser
creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel
quinto libro delle _Quistioni tusculane_ dice: «_Democritus, luminibus
amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona,
mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva
poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione
rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu
oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non
viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate
consisteret_».
«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda
aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di
Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di
ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò
a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza
altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e
una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò
via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni
cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle
case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e
diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva
una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel
tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco
senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva
tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi
continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione
istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare
in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano
onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di
cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.
Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli;
per che non sará altro che utile lʼaverne alcuna raccontata. Dice
Seneca, nel libro quinto deʼ _Benefici_, che Alessandro, re di
Macedonia, sʼingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con
grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le
quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior
signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che
egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto
donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto
alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole,
e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello,
che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli
togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio,
tiranno di Siragusa, molto cercato dʼaverlo, né mai venir fatto gli
era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare
lʼincendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad
una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato
Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli
disse:—Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe
al presente lavare coteste lattughe;—quasi volesse dire:—Tu averesti
deʼ fanti e deʼ servidori, che te le laverebbono.—A cui Diogene
subitamente rispose:—Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe
come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.—Altra volta,
essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il
viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima
di dipinture e dʼoro e dʼaltre care cose, e non che le mura eʼ palchi,
ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, sʼaccostò
a colui che menato lʼaveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che
presenti erano, dissero:—Perché hai tu fatto cosí, Diogene?—Aʼ quali
Diogene prestamente rispose:—Percioché io non vedeva in questa casa
parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.—Oltre a
ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dellʼ_Ira_, avvenne
che, leggendo Diogene del vizio dellʼira, un giovane gli sputò nel
viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando lʼingiuria,
niunʼaltra cosa disse, se non:—Io non mʼadiro, ma io dubito se sará
bisogno o no dʼadirarsi.—Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno
sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale
sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: —Per certo coloro, che
dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati.—Fu, secondo
che Aulo Gellio scrive _in primo libro Noctium Atticarum_, Diogene
una volta preso: e, volendolo colui, che preso lʼaveva, vendere,
venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al
quale Diogene rispose:—Io so comandare agli uomini liberi.—E,
accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della
vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle _Quistioni
tusculane_, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale
si morí, fu domandato da alcuno deʼ discepoli suoi, quello che voleva
si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente
rispose:—Gittatelo al fosso.—Alla qual risposta colui, che domandato
avea, seguí:—Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche
e gli uccelli ti manuchino?—Al quale Diogene rispose:—Pommi allato
il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli.—A cui questo
addimandante disse:—O come gli caccerai, che non gli sentirai?—Disse
allora Diogene:—Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché
eʼ mi mangino?—E cosí si morí: il dove non so.
«Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore
di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i
costumi e le maniere deʼ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si
fuggí dʼAtene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la
signoria deʼ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue
possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate daʼ pruni e da
malvage piante, disse:—Se io avessi voluto guardar queste, io avrei
perduto me.—Questi nella morte dʼun suo figliuolo, assai della sua
fortezza dʼanimo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli
nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:—Niuna
cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva
che colui, che di me era nato, era mortale.—Ed essendo infermo di
quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla
cittá, fu domandato se gli piacesse dʼessere portato a morire nella
cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che
altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla
cittá in inferno.
«E Tale». Tale fu asiano, figliuolo dʼuno che si chiamò Essamite,
sí come Eusebio scrive _in libro Temporum_; e, secondo che Pomponio
Mela dice nel primo libro della _Cosmografia_, egli fu dʼuna cittá
chiamata Mileto, la quale fu in una provincia dʼAsia, chiamata Ionia:
e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
egli fu prencipe deʼ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in
quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli
predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe
la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi
chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò lʼordine, il quale
ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua
opinione che lʼacqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti
gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano
procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra.
E, percioché esso fu deʼ primi filosofi di Grecia e, avanti che il
nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei
altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo
daʼ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola dʼoro, ed
essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente
mandata a lui; fu di tanta e sì discreta umiltá, che ricevere non la
volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni
scrivono, dʼaver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare
i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e
forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri
lasciando, essendo giá dʼetá di settantotto anni, morí. Ma, secondo
che scrive Eusebio _in libro Temporum_, pare che egli vivesse anni
novantadue. Fiorí neʼ tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia
lʼimperio deʼ medi.
«Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo
piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine
degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli
solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova
che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano
lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta
di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo
nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale
per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane
seguiva il suo nemico, dimenticato lʼodio, si ritenne ad ascoltarlo.
Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna
di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco,
e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante
Artaserse.
«Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di
lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli
compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti
da lui, che pochi eran coloro li quali potessero deʼ suoi testi trar
frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o
quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai
mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di
Democrito.
E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu
nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale
lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque
lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace
e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá
vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti
in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa,
soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza
prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi
accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per
salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni
i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La
qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender
Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali
fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone
alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú
col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal
guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò
a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani
circustanti: e quantunque dʼetá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue
parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore,
uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E
questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.
Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una
medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare.
Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel
terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il
quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli
che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone
tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati,
disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava,
ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che,
cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti,
né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ
circustanti amici del tiranno ucciso fosse.
«E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e
che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il
quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride
dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse,
non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che
esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di
ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser
fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i
frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.
«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, _in libro Divinarum
institutionum in gentiles_ scrive, fu figliuolo dʼApolline e di
Calliope musa, e a costui scrive Rabano, _in libro Originum_, che
Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea
composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti
scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva
fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli
diventar mansuete. Di costui, nel quarto della _Georgica_, racconta
Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata
Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore
tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo,
cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con
certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la
volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo,
pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per
che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso
morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo
discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a
cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in
compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare
la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli
rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro
rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto
sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe,
senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto
disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire
sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla.
Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé;
laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei
perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita
celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo
il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a
confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le
femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in
tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco,
che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e
coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e
isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino
nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente
divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua
cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre
imagini celestiali.
Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere
stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che
Solino, _De mirabilibus mundi_, afferma, questi cotali ciconi infino
nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di
loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti
che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia
a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle
quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza
grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di
volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo
Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati
argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi
sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di
Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo
Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero
padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte
di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato
Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello
faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ
quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice
Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco,
e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ
cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto
patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite:
e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni
degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora
dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando
questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine
loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si
prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro.
Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte,
e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva
esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo
grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito
di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio _in libro
Temporum_ scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato
discepolo dʼOrfeo.
«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine
fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ
popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché
si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi,
giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo
lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I
suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque
in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò
ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si
possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri.
Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼ_Arte vecchia_ e la
_Nuova_. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro
chiamato _De oratore_, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò
che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici
libri, sì come quello _De officiis, Delle quistion tusculane, De
natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus,
De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De
amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis_ ed altri più: e
lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna
memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari
e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in
tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu
fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato
pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da
certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione
ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella
tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo
pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ
romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto.
E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed
essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato
in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di
quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove
Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi
di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da
Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta.
Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la
sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio
che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel
campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e
la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella
testa che la sua avea liberata da morte.
«Lino» (_supple_) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in
musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e
nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti
teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu
aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e
Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste
regnarono in Micena ed Egeo in Atene.
«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza
dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo
appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio
Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo;
percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che
Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della
cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali
lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre
di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni
dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e
massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse,
venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica,
nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta
uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e
presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di
Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone
Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito
neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai
giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente
di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi,
chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte
facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la
setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in
quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi
alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose
molti e laudevoli libri, sí come il libro _De beneficiis_, quello
_De ira_, quello _De clementia_ a Nerone, quello _De tranquillitate
animi_, quello _De remediis fortuitorum_, quello _De quæstionibus
naturalibus_, quello _De quatuor virtutibus_, quello _De consolatione
ad Elviam_ e altri piú. Ma sopra tutti fu quello _Delle pistole a
Lucillo_, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a
persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello
ancora che si chiama _Le declamazioni_. Compose, oltre a questi, un
altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che
morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello
discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da
Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non
paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe
fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da
lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e
della sua poca laudevol vita.
Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto
dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei
posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone,
figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina e discepolo di
questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun
dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale
men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina,
sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie,
rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente
apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una
gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva
per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto
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