Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 07

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dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo
di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed
avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli,
lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono
sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo
Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte
le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e
in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli
il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando
che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece.
Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò
del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a
fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo
ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.
Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone
da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ
centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile
giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo
morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria
malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la
sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che
scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue _Storie_,
tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro
miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte
pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò
dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina
sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli,
gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno,
chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed
esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare
fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato,
che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di
riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute
del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno
non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo
non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente
avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole,
presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale
Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose:
niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta
nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che
tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il
quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno
deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca
senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole
del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò
Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato
gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò
era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono,
essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e
della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora
con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in
fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove
per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno
alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di
Nerone; e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl
fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato
lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con
forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno
passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il
sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene
delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita
sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire
scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che
dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi
troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido
amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva
apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li
membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse
al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua
molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú
prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita
questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore.
E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna
pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico,
arso il corpo suo.
Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio
Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca
aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone
ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse
dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú
fosse stato eletto allʼaltezza del principato.
Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non
sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no:
conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo
e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata
singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno
nellʼultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali,
bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per
cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita,
perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a
confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte
di lui da san Girolamo _in libro Virorum illustrium_, nel quale scrive
cosí: «_Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus,
et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem
in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae
leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus,
cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se
dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic
ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone
interfectus est_».
[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua
salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú
caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore;
parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che
esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale
i nostri santi chiamano «_flaminis_», non essendo rigenerato secondo
il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito
santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore,
cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana
generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di
Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi
a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in
questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile,
come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello
crederne che gli pare.]
[Nota: Lez. XVII]
«Euclide geometra» (_supple_) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né
di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo,
nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo
di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama
sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro
filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle _Teoremate_
in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
ottimamente scritto.
«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che
opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato
di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri
credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché
alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la
incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore,
sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ
tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso
in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse,
o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo
astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che
venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼ_Almagesto_,
il _Quadripartito_, e ʼl _Centiloquio_, e molte tavole a dovere con
le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor
movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi
che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.
«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano _in libro XVIII Originum_
scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia,
nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo
e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un
fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura
lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa
egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e
lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli
ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò
la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che
Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui,
investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò;
appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato
dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella
ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di
Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo
carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li
quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi
petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera
concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di
questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che
Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò
lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che
alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la
quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte
della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo _De
historia naturali_, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte
stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo
Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano,
nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento
anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può
dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo
nelle _Questioni del Genesi_ che, avendo una femmina partorito un bel
figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita
sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare,
non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la
qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta
di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo,
fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione
e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse
novantacinque anni, e poi si morí.
[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione
nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo
prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro
non ne so.]
«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove
primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte
da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove
primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu
scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad
Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene
a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano,
al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e
dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che
appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni
ottantasette, finío la vita sua.
«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna;
altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno,
intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e
metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che
quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non
seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni
altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ
Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera
dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per
divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento
prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e
dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.
Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa
quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa
raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore
a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio
quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali
che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne
nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare
loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai
cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il
quale è intitolato _Sine titulo_, assai chiaro può vedere lui essere
stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a
questo, nel libro il quale egli compuose _De arte amandi_, dá egli
pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi
Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana
incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom
fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle
sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno,
nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi
del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che
Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse,
e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il
tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è
gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è,
fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá;
rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente
occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata.
Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna
fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato
non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale,
come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo,
adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello.
E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra
lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere
appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore
a se medesimo contradire.
Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere:
essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle
convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e
queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama
che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti
e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese
sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra
gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere
conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo
non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse, né
in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere
in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o
vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e
gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende
esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per
virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe,
quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque
fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato,
e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose
peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.
«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti
uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché
molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può,
dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti,
«il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti
dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non
solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che
vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien
meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le
particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia,
si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.
«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della
seconda parte principale della suddivisione del presente canto,
dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti,
e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio
e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si
scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale
venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta»,
aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun
tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí
come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori.
«E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che
luca», cioè faccia lume.


II
SENSO ALLEGORICO

[«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso
allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del
precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come
talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi
e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo
dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e
di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in
lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal
mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto,
cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga
con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede,
dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio
è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è
manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per
lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena
ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel
mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per
questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá
il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo
peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo
nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]
[Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale
sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo
cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno,
e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è
qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle
quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé
furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo
dice san Paolo: «_Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare
transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare_». La
seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente
neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice
nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «_Euntes ergo, docete omnes gentes,
et baptizate eos_», ecc. La terza maniera si chiama «_flaminis_», cioè
di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «_Super quem
videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat_». E
di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni
ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa
usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come
cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere
che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «_sanguinis_»,
e di questa dice lʼEvangelio: «_Baptismo habeo baptizari, et quomodo
coarcor, usque dum perficiatur_?» E in questo credo esser battezzati
coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di
pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare,
e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli
uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire.
Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: _Esodo_: «_Divisa
est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris_». Nel
secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali
dice lʼEvangelio: «_Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit_».
Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono,
e di questi dice lʼ Evangelio: «_Nisi quis renatus fuerit ex aqua et
Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum_». Nel quarto sono
battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «_Calicem
quidem meum bibetis_», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio
dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá
Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi
battesimi battezzato fosse.]
Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per
difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia
al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto
commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori
si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che
con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come
i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire,
cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati
dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli
sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta
nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione
recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu
commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti;
punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per
alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della
giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola
gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza
dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è
gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono
intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai
ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente
disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ
quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno
esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto
dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena
la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente,
trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se
morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema
miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che
alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre
maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e
come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.] [Intorno
alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare
che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra
opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli
li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a
quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove,
par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla
ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio,
e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol
fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali
anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in
ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore
abbia tanto bene opinato.]
[Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente
neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non
scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata
redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia:
«_Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël
autem me non cognovit_». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello
che san Paolo dice: «_Ignorans, ignorabitur_», e massimamente a quegli
deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «_Noluit intelligere,
ut bonum ageret_». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a
questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né
lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará
nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «_Non novi vos, discedite a me,
operarii iniquitatis_». La qual cosa accioché avvenir non possa, con
ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio,
e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna
maniera scusarsi.]
[Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia
riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori
giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra
ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza _facti_» ed
alcunʼaltra «ignoranza _iuris_». E vogliono che ignoranza _facti_
sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
pervenuta alla notizia degli uomini: _verbi gratia_, il papa col
collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge
fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna
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