Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 19

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avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano
di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno
prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque
sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono
alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo
o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede
lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole
che sia reputata avarizia.
È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste
in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta
lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro
opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci,
che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna
piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se
medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi
né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui
prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali
né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad
onorare.
Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ
cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse
neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente,
come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non
ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria
col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro, accioché alcuno
bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che
piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali
sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo
spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se
per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al
vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir
quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno
hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e
ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere
piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E
di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo
peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime
entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto
pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché
i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della
misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione,
digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri
in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le
vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere
esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio
il vede.
È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra,
percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa
alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come
quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è
piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le
par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di
nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali
il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel
tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali;
e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati,
e similmente sʼaccorgono che, essendo essi delle dette sustanze
abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari,
da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare
verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se
essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma
dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati
e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia,
non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi
dʼavanzare, se il come vedessero.
Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi
eʼ poeti. Leggesi nellʼ_Evangelio_ di Luca, capitolo quinto: «_Vae
vobis, divitibus_!»; e nella _Canonica_ di san Iacopo, capitolo quinto:
«_Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient
vobis_»; e nello _Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in
inferno_». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «_Vae qui congregat
non sua_!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «_Vae qui congregat
avaritiam malam domui suae_!»; e lʼ_Ecclesiastico_, decimo: «_Avaro
nihil est scelestius_». E santo Agostino dice: «_Vae illis, qui
vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt_!»; ed esso
medesimo: «_Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus_». E
Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «_Multis parasse
divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio_». E Tullio _in primo
Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias;
nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non
habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre_». E
Virgilio, nel terzo dellʼ_Eneida_:
_...quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames?_
E Persio scrive:
_Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet?_ ecc.
E Giovenale ancora dice:
_Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
ut locuples moriaris, egenti vivere fato,_ ecc.
Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in
quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto
brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi.
È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼ_Etica_,
lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e,
cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si
conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene,
e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in
donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo
nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la
quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli
ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare
la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle
sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza
considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella
spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che
se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge
faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre
ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli,
i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno
carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non
gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi
convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato
il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose
assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale,
ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno
venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i
servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e
scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re
o imperadori; useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico
nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le
mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi
luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli
dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i
doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le
piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a
femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni
magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli;
apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi
i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero
pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case
di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese
malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste
il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.
[Nota: Lez. XXXI]
È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso
disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta
giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si
venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni
e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per
aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni
misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi
il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso,
o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano
gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici
di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni
scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non
solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá
di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo
esempio.
Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della
prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia,
percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro
abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene alcuni,
quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere
né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce
le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad
esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire
il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro
continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia
dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera
curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la
prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare
la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque
per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due
altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni
è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto
lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole
a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i
vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze
naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire
aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i
difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le
quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è,
percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si
perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza
misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può
donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che
dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.
Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio
che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí
fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra
qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari,
conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa
cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che
lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito,
pare che la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di
bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca
lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il
supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli
non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí
per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia
la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel
prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo
di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle
nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma
ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote
che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del
vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente
segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché
questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente
insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non
solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati
i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri
fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto
il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi,
falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade,
commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere
divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro
verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser
divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.
La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia
conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è
in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene;
e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male
spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che
dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi
pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi
e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come
in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini
faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo
dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion
di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi
che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini,
vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro
allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore
la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel
tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete
non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che
il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.
Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la
giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione.
[Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre
delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti,
il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere:
le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se
sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo
dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion
son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato
(oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre
con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori,
tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura
guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor
pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente
essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione.
Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi
che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale
animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita
eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua
perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone
si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro
tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese,
donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano
acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo
contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale
assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e
incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di
nuovo accende le coscienze loro.
«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda
parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella
esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel
quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio
dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano
i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa
dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si
comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore,
è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi
verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.
Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem
vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto
stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo,
dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti
intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle
i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi
porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le
fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti,
le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella
sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è
rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa
daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è
oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da
ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ
fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle
selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta;
questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali
percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata; questa è dai diluvi
dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe
assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza
alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate
ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta
rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e
paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto
piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto
che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa,
della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia
fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.
Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come
se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per
eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di
scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi
per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti
siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa
ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi,
non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere
salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial
furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle
tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in
miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la
divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli
splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e
noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati
in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e
continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando,
adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla
dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima
mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad
altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per
conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre
a ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni
dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.
Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto
dellʼ_Etica_, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è
un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata
da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé
o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che
quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto
questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di
bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e
quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e
piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.
E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo
dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni,
che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori,
solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano
e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi
lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente
vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si
sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa
in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la
colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno
fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica,
dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa
subitezza.
La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente
per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto
aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma,
che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente
adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella
risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna
vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima
noia, percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú
cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato
appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed
è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né
altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa
ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá
o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa
diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son
questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor
famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla
turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E
da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che
son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza
dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]
La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati,
in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né
per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa
vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono
pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi
hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son
maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali
per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare;
e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il
giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo
male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo,
rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera
ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci
al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il
quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi
servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare
cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse
messo in prigione, infino a tanto che egli avesse interamente pagato:
ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione
del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere
un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in
prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui,
il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre
esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non
volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle
quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere
Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno
uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo
in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò
da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci
possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente
ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno
allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di
Dio gittati in casa il diavolo.]
Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere
dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver
saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la
ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il
comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «_Mihi vindictam et
ego retribuam_». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti,
quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam
mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.
È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro
supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente.
Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due
suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di
Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia
contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti
mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan
potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise;
Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta
moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne
misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese,
chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani
deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi,
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