Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 10

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navi sacchi pieni di rena e guardarli bene. Ed essendo con coloro, li
quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto
mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero
gittati in mare. E, come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i
marinai e gli altri, lagrimando disse:—Io, facendo gittare in mare
tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale
io ho lungamente disiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi
amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito punto, che,
come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli
fará crudelmente me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco
insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di
non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno.—La qual cosa udendo i
miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria,
nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone, agevolmente
sʼaccordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse
di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi
a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina
trovarono, persolventi secondo il costume loro li primi gustamenti di
Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli deʼ giovani che con
lei erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito
nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta
la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover
seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi
partitasi, e pervenuta nel lito affricano, costeggiando la marina deʼ
massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco
appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo
esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo aʼ marinai faticati,
prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale per disiderio di
vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate,
cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro
essere a grado aʼ paesani, ed essendone ancora confortati da quegli
dʼUtica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque
Didone udisse per alcuni, che seguita lʼavevano, Pigmaleone fieramente
minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E,
accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler fare, non
piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da
quegli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta
dividere, assai piú che alcuno estimato non avrebbe, occupò di terreno.
E, quivi fatti eʼ fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò
Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i
compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi
credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura
della cittá, le torri eʼ templi, il porto e gli edifici cittadini
saliron su, e apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora
potente e a difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il
modo del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata
reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e
della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re deʼ
mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio dʼaverla
per moglie; e, fatti alcuno deʼ principi di Cartagine chiamare, la
dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse, esso
disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo
il fermo proposito di lei di sempre servar castitá, temetton forte
le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone, domandantene, ciò
che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare
la vita e i costumi barbari e dʼapprendere quegli deʼ fenici. Perciò
voleva alquanti di loro che in ciò lʼammaestrassero; e, dove questi
non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E
però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con
lui andar si volesse, temevan forte non quello avvenisse che il re
minacciava. Non sʼaccorse la reina dellʼastuzia, la quale usavano
coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse:—O nobili
cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi
nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino
colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il
richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute
della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi
rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá.—Come i nobili
uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve
loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle
la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina
ebbe udita, cosí sʼaccorse se medesima avere contro a sé data la
sentenzia e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí
dʼopporsi allo ʼnganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
seco prese quel consiglio che allʼonestá della sua pudicizia le parve
di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella andrebbe
volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a dovere
andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta parte della
cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella
facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola lʼanimo di
Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di
vestimento bruno, e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro
consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e, aspettante tutta
la moltitudine deʼ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse
di sotto aʼ vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato
Sicheo, disse:—O ottimi cittadini, cosí come voi volete, io vado al
mio marito.—E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con
grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata,
versando il castissimo sangue, passò di questa vita.
Virgilio non dice cosí, ma scrive nello _Eneida_ che, avendo Pigmaleone
occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone,
Sicheo lʼapparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmaleone
avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la
confortò che ella si partisse di quel paese. Per la qual cosa ella
prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far Cartagine,
Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a
Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta
dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta, si partí per
venire in Italia: di che ella per dolore sʼuccise. La quale opinione
per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse.
Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno dopo il disfacimento
di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu
distrutta lʼanno del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il
detto Eusebio scrive essere opinione dʼalcuni, Cartagine essere stata
fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola,
dopo Troia disfatta, centoquarantatrè anni, che fu lʼanno del mondo
quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata
fatta da Didone lʼanno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora
appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine
essere stata fatta lʼanno del mondo quattromilatrecentoquarantasette.
Deʼ quali tempi, alcuno non è conveniente coʼ tempi dʼEnea: e perciò
non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio _in libro Saturnaliorum_
del tutto il contradice, mostrando la forza dellʼeloquenza esser tanta,
che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa
di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu
adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo,
sʼuccise. Ma lʼautore séguita qui, come in assai cose fa, lʼopinion di
Virgilio, e per questo si convien sostenere.
«Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo lʼautore aver posto questo
aggettivo a costei, a differenza di piú altre Cleopatre che furono,
delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di
questo vizio, come costei, della qual qui intende.
Cleopatras fu reina dʼEgitto e, per molti re medianti, trasse origine
da Tolomeo, figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei
essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re dʼEgitto. Altri dicono
il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re dʼEgitto,
il quale, essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro
figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al
tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il
maggior deʼ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie
Cleopatra, sua sirocchia, e di piú di che lʼaltra, insieme dopo la
morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione.
Ma, ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e
fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá
Pompeo magno quasi tutta lʼAsia costretta ad ubbidire aʼ romani,
venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor
fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra,
come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa, avvenne
che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto
uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria,
e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece
davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti
al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran
fidanza, percioché bella femmina fu, ornata di reali vestimenti
comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli
occhi e con gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che,
avendo Cesare piú notti comuni avute con lei, ed essendo giá il
giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno,
che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il
reame dʼEgitto, menatane Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché
per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque
Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si
diede che dar si possa disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar
tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne
amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi dʼEgitto e le sagre
case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo,
essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e
da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in
forma dʼonorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese
e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa,
accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere
Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita
fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato nella sua
dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e dʼArabia,
li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande
ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla alquanto, le diede
di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato Antonio,
il quale andava in Partia, infino al fiume dʼEufrate, e tornandosene,
ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco
davanti per opera dʼAntonio stato coronato di quel reame: lá dove ella
non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua
dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli
sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare
da dosso ad Antonio lʼignominia di costei, diliberò dʼucciderla; ma,
dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò
tornare in Egitto. Dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in
fuga daʼ parti sʼera tornato, essendo in lei lʼardor cresciuto del
signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio
di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che egli gliele promise. Ed
essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per
lʼavere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia dʼOttaviano,
e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale,
ornata con vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e,
sú montátivi, nʼandarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere
provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover
vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
la vela dʼoro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale
incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti
pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a
dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo
molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace,
le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano
usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi
presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter
pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi avea,
e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era da
Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá dʼanimo sofferendo di
dover divenire spettaculo deʼ romani, vestendosi i reali ornamenti,
lá se nʼentrò dove il suo Antonio giaceva morto, e, postasi a giacere
allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose
una spezie di serpenti, chiamati «ypnali», il veleno deʼ quali ha ad
inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto: e cosí addormentata
si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di
ritenerla in vita, fatti venir alcuni di queʼ popoli che si chiamano
«psilli», e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e
tirar fuori lʼavvelenato sangue daʼ serpenti; ma ciò fu fatica perduta,
percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.
Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta,
e dʼaltra spezie di morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non,
nellʼapparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con
la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato
di bere né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad
altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della
sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il
dí davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e
in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa,
che ella lo ʼnvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea:
e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e
disse:—Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con
queste tue disusate pregustazioni tu mostri dʼaver sospetta: e però, se
io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo
nʼho, e tu me nʼhai data cagione;—e quindi mostratogli lo ʼnganno, il
quale adoperato avea neʼ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e
guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a
lui vietato che non bevesse; e cosí lei vogliono esser morta. La prima
opinione è piú vulgata: senza che, a quella sʼaggiugne che, avendo
Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano
comandò che compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.
«Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto
reo Tempo si volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale
per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga
dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena
fu rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette
Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nellʼultimo libro della
sua _Iliade_ dimostra, là dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di
Ettore, fa dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni
appo Priamo eʼ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa
parola. È il vero che di questi venti anni non fu lʼassedio continuato
intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere
li dieci primi essersi consumati e nel raddomandare Elena, il che piú
volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa
contro aʼ troiani, e nel dar ordine e nel fare lʼapparecchio delle cose
opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto
peggiori che i primi, percioché in essi furono dintorno ad Ilione fatte
molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo
assai.
Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda,
moglie di Tindaro, re dʼOebalia, e lui dicono in forma di cigno,
con lei bellissima donna e madre dʼElena, esser giaciuto, narrando
in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei
essere stata figliuola di Tindaro, re dʼOebalia, e di Leda, e sirocchia
di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad
ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la
penna faticò il divino ingegno dʼOmero, ma ella ancora molti solenni
dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra
gli altri, sí come Tullio nel secondo dellʼ_Arte vecchia_ scrive,
fu Zeusis eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi
contemporanei e molti deʼ predecessori trapassò. Questi, condotto
con grandissimo prezzo daʼ croteniesi a dover la sua effigie col
pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica
dʼanimo tutte le forze dello ʼngegno suo; e, non avendo alcun altro
esemplo, a tanta operazione, che i versi dʼOmero e la fama universale
che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esempio
assai discreto: percioché primieramente si fece mostrare tutti i beʼ
fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi
elesse cinque, e delle bellezze deʼ visi loro e della statura e
abitudine deʼ corpi, aiutato daʼ versi dʼOmero, formò nella mente sua
una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto lʼarte potè seguire
lʼingegno, dipinse, lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla
posteritá per vera effigie dʼElena. Nel quale artificio, forse si poté
abbattere lʼindustrioso maestro alle lineature del viso, al colore e
alla statura del corpo: ma come possiam noi credere che il pennello e
lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza
di tutto il viso, e lʼaffabilitá, e il celeste riso, e i movimenti
vari della faccia, e la decenza delle parole, e la qualitá degli atti?
Il che adoperare è solamente oficio della natura. E, percioché queste
cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare
la penna loro, la finsero figliuola di Giove, accioché per questa
divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore
degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale
la volantile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi
cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá
della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia
e della splendida fronte e della gola dʼavorio, e le delizie del
virginal petto, con le altre parti nascose daʼ vestimenti. Da questa
tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo dʼEgeo, re dʼAtene,
tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare,
secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua
etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la
troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure
alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un dubbio,
conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo sʼaccordino, che
Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser
stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra, madre di Teseo, non
essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi fratelli,
raddomandantila. Altri dicono che Teseo lʼavea raccomandata a Proteo,
re dʼEgitto, e che esso in assenza di Teseo lʼaveva renduta aʼ
fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura, fu maritata a
Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato
in Creti, fu da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in
Troia, e, secondo che alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri
dicono che ella fu dal detto Paris rapita dʼunʼisola chiamata Citerea,
dove ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume
antico, vegghiava la notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio
faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che affermano
senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del
vegghiare, e come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le
vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo
stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello:
e, per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo lʼordine del
trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante
dʼandarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando
vide il tempo atto al disiderio deʼ greci, con un torchio acceso diede
lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e
ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri
la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua
volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e diede il cenno
aʼ greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia, da
noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo
re onorevolmente ricevuti; e, oltre a questo, essendo da diversi casi
ritenuti, lʼottavo anno dopo la distruzione dʼIlione, tornarono in
Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua _Odissea_, che Telemaco,
figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa
dir gli sapesse dʼUlisse, gli trovò far festa e nozze grandissime,
avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato
Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi
ricorda aver trovato.
«E vidi ʼl grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine»,
della sua vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio
dʼApollo timbreo lʼassalirono e uccisono; nel quale Ecuba lʼaveva
occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli
per moglie Polissena.
[Nota: Lez. XIX]
Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze,
ecc. non fu invitata la dea della discordia, ecc.; e fu dʼuna cittá
di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella _Iliada_, chiamata Ptia:
il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu
portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte e paziente delle
fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero
nellʼonde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il
quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che
lo allevasse. Il quale il nutricò, non in quella forma che gli altri
tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo
solamente di medolla dʼossa di bestie prese da lui; e questo faceva,
accioché egli, per continuo esercizio, si facesse forte e destro a
sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere
stato nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e
«_chilos_», che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato
senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare
certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata
rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne
seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, sʼingegnò di
schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente,
e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone
il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un
re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato
che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse
una vergine, gliele diede che il guardasse tra le figliuole. Ma questo
non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di Licomede,
cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò,
si giacque; e per la comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad
alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto.
E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un
figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero
tutti fatta congiurazione contro aʼ troiani, avendo per risponso avuto
non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare
di lui, con la sagacitá dʼUlisse fu trovato e menato a Troia: dove
andando, prese piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola
del sacerdote dʼApolline, la qual donò ad Agamennone, e unʼaltra, che
presa nʼavea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto,
per risponsi deglʼiddii, che Agamennone avesse la sua restituita al
padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille,
non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse
combattere contro aʼ troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente
malmenati daʼ troiani, avendo egli concedute le sue armi e il carro
a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato
sʼarmò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo
senza sepoltura dodici dí, e ultimamente rendutolo a Priamo, e poi
perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore,
suspicò Ecuba costui non doverle alcuno deʼ figliuoli lasciare, per
che con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua
figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú non prendere arme
contro aʼ troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché
neʼ tempi delle tregue veduta lʼavea, ed eragli oltre ad ogni altra
femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba,
secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel
tempio dʼApollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura dʼIlione,
credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso,
gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente
ammaestrato nellʼarte del saettare, aperto lʼarco, il ferí dʼuna saetta
nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser
ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde e fu
ucciso, e poi seppellito sopra lʼuno deʼ promontori di Troia, chiamato
Sigeo.
«Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro,
fu figliuolo di Priamo e di Ecuba, del quale Tullio _in libro De
divinatione_ scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della
quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una
facellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a
Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo,
il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea
di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo
comandò che il figliuolo che nascesse, ella il facesse gittar via.
Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un
bel fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento
di Priamo, gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori
del re, che lʼallevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella
selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto
grande, quivi primieramente usò la dimestichezza dʼuna ninfa del luogo
chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, deʼ quali chiamò lʼuno
Dafne e lʼaltro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva,
addivenne un grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque
persona con maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto
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