Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 04

Total number of words is 4655
Total number of unique words is 1554
35.3 of words are in the 2000 most common words
47.6 of words are in the 5000 most common words
54.9 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno
di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non
solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata:
della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io
estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie
(e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii,
le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata
splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in
piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai
manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per
cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano,
figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse
diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo,
edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio,
che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia,
parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in
Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere,
essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il
disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in
Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor
discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e
pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli;
e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di
quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato
Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver
data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí
infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.
Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di
cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito
il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché,
conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo dʼElettra,
cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano
fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo
questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di
cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano
fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto
Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e
Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi
turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi,
dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore
Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del
reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi
cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno
uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato
figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni
erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi
chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio
_in libro Temporum_, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in
Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí
adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di
Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come
detto è, puose in questo luogo primiera.
«Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ
quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini.
Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:
«Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di
Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza
corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare
nella _Iliada_ dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie
avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi
di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo,
suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e
Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da
Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual
cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise,
e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò
con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta
amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese
fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad
Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto
poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo,
che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro
suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e
quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura,
infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua
tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e,
portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di
tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.
«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise
troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente,
non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia,
splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie,
e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso
uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando
egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non
pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la
salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con
Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore
degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai
greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella
quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e
andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti
navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in
quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e
similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni
piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò
in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea,
nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come
Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi,
sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia
aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la
sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si
partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani.
Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le
navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui
fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol
poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in
Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato,
per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá
sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari
lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago
dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far
dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di
Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa
fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto
nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto
meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò
dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e
su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da
Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino
re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina,
la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re
deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte
battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno.
Ma alcuni altri sentono altrimenti.
Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio
che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro
Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso
Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che,
avendo Enea avuta vittoria deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume
chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né
mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca
Virgilio nel quarto dellʼ_Eneida_, dove pone le bestemmie mandategli da
Didone, dicendo:
_At bello audacis populi vexatus, et armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
auxilium imploret, videatque indigna suorum
funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
Hoc precor,_ ecc.
E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel
libro decimo dellʼ_Eneida_ finge che Giunone, sollecita di Turno, nel
mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da
Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata
seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene
che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso
cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della
contrada deificato e chiamato Giove indigete.
«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare,
disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa
della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice,
denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse
tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio
_in libro Duodecim Caesarum_ dice, quando egli uscí candidato di casa
sua, egli lasciò la madre, e dissele:—Io non tornerò a te se non
pontefice massimo;—e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice
massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi
passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e
da quel cotale cognominato Cesare _ab caesura_, cioè dalla tagliatura
stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero,
tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre
nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte
della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con
poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella
disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma
tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso
quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia
venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel
tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco
si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era,
avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da
pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si
crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò:
e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad
alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed
essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia,
ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ
popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con
loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo
piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando
il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu
negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito
sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue
in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli
fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie,
e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette
il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò
in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove
Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in
Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto
stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ
pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto,
di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua
fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò
deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse
Plinio, in libro _De naturali historia_, che egli personalmente fu in
cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne
dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto
dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in
Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente:
e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza
che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano
credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo
poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua
gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini:
né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né
nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci
furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».
Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque
suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e
leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri
metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu
grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente
a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza
addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu
delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto;
percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia
trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio,
Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo;
ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la
figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse.
Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella
della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di
Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon
questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando
egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato:—Cesare si
sottomise Gallia, e Nicomede Cesare;—ed altri dicevano:—Ecco Cesare,
che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si
sottomise Cesare.—Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu
detto da molti:—Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il
calvo adultero.—E nella persona di lui proprio furon gittate queste
parole:—Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso
in prestanza.—
Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la
republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo,
dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere
lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il
conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare
continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale
lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro
dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ
senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a
lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser
re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato
con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò
Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta
poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter
esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare
si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire.
E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno
questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra
sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo,
Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia,
sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere,
né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi
seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte
di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga
dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi
della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di
ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la
morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi,
accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o
di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a
casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante,
disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede
fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i
congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della
corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo
lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo
arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel
vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra
quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero
in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome
sia «Giulia».
[Nota: Lez. XV]
«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli
occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da
«grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia
aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a
significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli
ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore,
o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti
veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.
«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo
canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla
nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante
perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo
quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.
«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle
donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per
se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo
tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle
quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo,
scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia,
quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani
di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di
Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata
insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia,
allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati
i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e
per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno:
avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi
furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto
al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero
animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e
quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando
la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero.
Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero
giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé
ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano,
non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per
la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita:
e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa
rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli
uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo
cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta
pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero
questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini,
e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli
maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano
e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o
a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare
cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano.
E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro
nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose,
lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo
era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella
con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte
legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi,
venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa
privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi
chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto
«senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina
e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro
imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale
fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa
donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore,
figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e,
per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle
sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté
quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse,
Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la
salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che
alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella,
che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.
«Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino».
Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di
Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio
nellʼ_Eneida_ dice:
_...Rex arva Latinus et urbes
iam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
accepimus._
Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno,
cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando
Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada
di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento
nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato
figliuolo. Ma Servio _Sopra Virgilio_ dice che, secondo Esiodo, in
quello libro il quale egli compose chiamato _Aspidopia_, che Latino
fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e
però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino,
«_Solis avi specimen_», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice
il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché
Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe)
essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú
Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni
varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della
madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi,
allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:
_...et innantem Maricae_
_littoribus tenuisse Lirim;_
e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non
procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli
antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser
Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era
scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di
sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che
egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia
fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea
e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro
il quale egli scrive _De origine linguae latinae_, dice che Pallanzia,
figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono
alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da
quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile
succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá
promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella
quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima
battaglia.
«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola
di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e
temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso
vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un
pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente:
e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio
Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma
poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta
la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle
cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che
senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli
fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio _in libro Temporum_
dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe
nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato
Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.
«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile
uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il
suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino
Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire
contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo:
e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi
di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché
facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi
il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco
nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di
lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora
avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e
i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in
ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 05