Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 05

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in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi
la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case
con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole
esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra;
e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma,
trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non
ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di
quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane
chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia,
e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro
insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva
di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna
dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri.
Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il
quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli
nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di
voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire
alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da
lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione
della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che
tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente
nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto,
disse:—Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai
motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente.—Ma per questo non
tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir
non voleva, le disse:—Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò,
e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che
io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia
trovata.—Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in
tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere
stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però,
quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo
pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.
Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena
di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare
Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto:
li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la
domandò Collatino:—Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le
cose nostre?—A cui Lucrezia rispose:—Che salvezza può esser nella
donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo
che di te.—E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino
era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli
altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno
la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser
contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia,
ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello,
disse:—Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá
impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi
impudica.—E detto questo, e posto il petto sopra la punta del
coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata,
entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e
Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del
fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá
di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli.
Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando
che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello
del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi
nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo
a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli
andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione
dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono
incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e
il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel
campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto
Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e
ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al
re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il
ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli,
appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che
piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu
lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo,
Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere
il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un
palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi
in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque
mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino
invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una
parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al
quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ
due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ
figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata
la battaglia degli altri, gridò:—Questi è colui che mʼha del regno
cacciato;—e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli
sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui.
Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il
colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne
che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni
morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ
nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto,
lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore
della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia,
fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi,
onorevolmente fu seppellito.
«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.
«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune
storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di
lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e
venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia,
lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone
uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in
lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro
servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo
che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non
dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò
di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la
qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú
ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto
Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare
e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone,
e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per
moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro
che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di
questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di
Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione
ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse
servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per
suo marito.
«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia
figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata
Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei
moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che,
essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo,
suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono,
era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che
sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo
sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna
violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave
dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che
nel ventre avea, e quindi morirsi.
«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato
lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate,
la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia
deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello
Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di
Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente
moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro
fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie
di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non
solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le
guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere
essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli
affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano
manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto,
dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il
vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede
e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.
«E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di
Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú
addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in
fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di
vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor
costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini,
ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente
cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa
da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci
di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico,
e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore
e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli
non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si
nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.
«Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere
piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno,
Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo
appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica
famiglia».
Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re
di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la
madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide
vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti
dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu,
dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono
alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io
ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma
in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per
che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto
errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui
primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ
libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto,
fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero,
e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro
ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire
filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo
filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di
Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí
per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio
con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando
alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce
alcuna volta disse:—Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio.—Visse
appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali
parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di
quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non
conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione
di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né
meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico,
quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti
morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi:
_Etica, Politica_ ed _Iconomica_; né delle cose naturali alcuna ne
lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a
ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo
intendimento, sí come nella sua _Metafisica_ appare. E, brevemente,
egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i
quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si
sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone:
la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio
e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri.
Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte,
o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un
grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco
Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo
lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette
nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini
la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse
Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque,
se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta
la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che,
oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita.
Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré
anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di
stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel
luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri
dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e
maggior di tutti.
«Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».
Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima
condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio
Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica _De patientia_, il padre
suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe
nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e
quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia,
alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte
paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che
si legge nel libro _De vitis philosophorum_; ma santo Agostino, nel
libro ottavo _De civitate Dei_, scrive che egli fu uditore dʼArchelao,
il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto
tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto
deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli
ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio
nel libro secondo delle _Quistioni tusculane_: e in tanta sublimitá di
scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato
quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di
tenere Apulegio, e similmente Calcidio _Sopra il primo libro del Timeo
di Platone_, e come Agostino nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio
predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il
quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò.
Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente
dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro
errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo.
Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli
fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni
perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo _Noctium
Atticarum_, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino
al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col
corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel
principio della meditazione gli poneva.
Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque
in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo
parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua
trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia,
nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «_hoc
scio, quod nescio_». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile
filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò.
Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la
colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non
solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito,
e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di
Socrate e disse:—Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare
per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che
io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non
ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli
sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa.—Al quale
Socrate umilmente rispose:—Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che
alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa:
io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro
che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del
dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do;
e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu
abbi me per tuo.—Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo
portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non
essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente
mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due
mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il
dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei
stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui
piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da
Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio
_in libro undecimo Noctium Atticarum_, perché egli non la mandava via,
conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per
la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli
aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le
quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe
ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della
casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il
quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa
disse:—Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere.—
Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane
uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico;
il che detto a Socrate, disse:—Questi può esser savio uomo dʼaver
lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi
degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre.—Era,
oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli
per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e
massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il
naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá
dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli
volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse;
di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il
batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione
sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che
solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori
suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone
e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi
di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo
e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo
una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai
infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo
animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per
bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli
ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti
musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse:—Maestro, che
è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere
alle menome cose musicali?—Al quale egli dimostrò sé estimare esser
meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla
saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché,
secondo scrive Tullio nel libro _De senectute_, egli era giá dʼetá
di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli
appellò _Panaletico_.
Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu
grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere
indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi
adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile
animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli
ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali
erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle
mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti
trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e
servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta
cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse
li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia
servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di
novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da
un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi
a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio
avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da
Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire
la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale
sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo
Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la
riprese dicendo:—Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi
morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o
avvenga che io giustamente condannato sia.—E, bevuto la venenata
composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò
dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per
la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi
discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo
si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri,
disse:—Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone.—E poi disse:—Se,
poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia
ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che,
partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire.—Né guari stette che
egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi
gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro,
e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle
Istorie _scolastiche_ si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e
morí regnante il re Assuero.
[Nota: Lez. XVI]
«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu
figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie;
e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro
legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di
Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la
sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide,
stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo
libro della _Filosofia_ scrivono, finsero Perissione, madre di lui,
essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per
questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi
estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza,
la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni
altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta
soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che
umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che
a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo
egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono
trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti
che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa
offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che
Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina
lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere
un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da
esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí
seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea.
E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale
soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si
può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura
eloquenza.
Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla
ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate,
secondo che Agostino racconta nel quarto della _Cittá di Dio_, navicò
in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare.
E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in
Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai
agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu
fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ
tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi
uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte
cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a
ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla
concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto
domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai
eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta,
chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano
consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni
altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a
domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi,
visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a
Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e
scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ
suoi uditori solennissimi filosofi.
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