Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 02

Total number of words is 4660
Total number of unique words is 1577
36.1 of words are in the 2000 most common words
49.5 of words are in the 5000 most common words
56.2 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto
del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo
figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ
fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero
il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed
essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di
questa vita.
«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo
stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei
maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché
bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo
tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto
un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che
passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua
menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che
divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le
sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e,
fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi
dentro il picciol fanciullo che piangea, disse:—Questi dee essere
deʼ figliuoli delle ebree.—Allora la fanciulla, che il vasello
seguiva, disse:—Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che
il balisca?—A cui la donna disse:—Vaʼ.—Ed ella andò e menò la
madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna,
la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che
figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli
batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e
quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una
fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di
Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo
dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non
volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli
mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che
accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché
egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con
loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la
sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in
tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono
salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle
vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il
mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto,
e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero
loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra,
subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo
sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo,
esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio;
ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e
gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro
quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato
in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali
erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del
monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista».
Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá
di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab
di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua
sepoltura.
«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá
deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria.
Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne
in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima
dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come
annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre,
un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che
gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando
esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in
mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il
figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso
il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni
era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la
sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui
fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote,
primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re
e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ
suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale,
essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli
seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione
di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara,
sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da
«_pater_», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a
dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».
«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e
levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato
era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso
col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta
gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo,
il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale
ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli
meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per
moglie. Racquistò lʼarca _foederis_, la quale al popolo dʼIsrael era
stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga
persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio;
ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in
Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re.
E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli,
e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo
figliuolo.
«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo
prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi
a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la
quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso
di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito
sʼera, sí come nel _Genesi_ si legge, tutta una notte fece con un uomo
da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser
vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo:—Lasciami.—Al qual Giacob
rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui
domandò come era il nome suo, a cui esso rispose:—Io son chiamato
Iacob.—E quellʼuomo disse:—Non fia cosí: il tuo nome sará Israel,
percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai
contro agli altri uomini.—E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele
indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa
cagione i giudei non mangiano di nervo.
«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi
nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro
femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e
ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal
quale aveva origine tratta.
«E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li
consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac,
suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute
gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí
come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban,
fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole,
Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo
sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli
dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed
essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data,
la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte
preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di
che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada
non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú
etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo,
similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri
sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel.
E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui
tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.
Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu
costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea
e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso
per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto,
era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto,
giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo
con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la
morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e
nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne
portassero.
«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia,
Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a
questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è
vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi»,
cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran
salvati;»—e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora
non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo,
furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del
diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene
adoperare, la porta del paradiso.
[Nota: Lez. XII]
«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della
seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo
avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel
cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella
prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice
come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice
come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide
i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli
quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»;
la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta
compagnia».
Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei
dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»;
e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire,
dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad
intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono
dʼalberi.
«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati,
«Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli
fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee
intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il
destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra
dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per
alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io
vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte
dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun
lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía».
Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume,
vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo
ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due
maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon
tali, che per gran cose conosciuti fossero.
«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí»,
nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel
lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè
onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel
quale eravamo.
—«O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li
quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che
onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni
scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro,
commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove
è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼ_Etica_
dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono
in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine,
le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle
cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da
noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per
avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è
detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe
infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate
da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono
consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni
che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle
adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che
egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí
come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra
ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che
aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere
adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di
quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale
arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene
allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste
lode dallʼautore attribuite gli sono.]
«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual
vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per
«onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino
a qui abbiam veduti, «gli diparte?»—in quanto hanno alcuna luce, dove
quegli, che passati sono, non hanno.
«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me:—Lʼonrata», cioè lʼonorata,
«nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor
suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture
degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati
sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli
avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo.—[Intorno
alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina
giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né
alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda,
sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica
umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero
Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non
meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro
che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque
il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò
alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che
la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano
nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro
onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia
nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]
«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda
principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti
onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi
rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A
differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto
esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa
per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra
cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi,
secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè
da me, «udita», cosí fatta:—«Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa,
per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la
dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed
assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale
adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga
trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da
lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua»,
cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita»,—quando andò al soccorso
dellʼautore, come di sopra è dimostrato.
«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro
grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire»,
come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna:
«Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della
sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza
di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi
e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera
o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá
sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser
di leggiere animo e di volubile.
«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire:—Mira colui con quella
spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella
vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava,
cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in
mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di
guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto
nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl
seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.
«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi
dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo
greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle
scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché
in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in
publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice
dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come
che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si
sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per
la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia
insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando
ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato
suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon,
Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono
onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò
fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove
stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo
cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero
un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro
iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per
molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse
ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi
il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú
chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di
credere Lucano dove dice:
_Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,_
dicendo dʼOmero.
Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo
vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura
intervenne, nascendo egli, il quale disse:—Colui che al presente
nasce morrá cieco;—e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale
nome è composto _ab_ «_o_», che in latino viene a dire «io», e «_mi_»,
che in latino viene a dire «non», ed «_ero_», che in latino viene a
dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e,
come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi
dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli
studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo
udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in
quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i
famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí
poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo
chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto
perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e
quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere.
E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi
variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano
ancora alquanti, e massimamente la _Iliade_, distinta in ventiquattro
libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani
infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose
similmente lʼ_Odissea_, in ventiquattro libri partita, nella quale
tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo
il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude
deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora
un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero
guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa
e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion
deglʼiddii, e composene uno chiamato _Egam_, la materia del quale non
trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ
quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza
degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle
materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini.
E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua
_Iliade_ appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro
macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò
in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello
molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima
per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi
baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole
stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile
riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse
loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non
vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento
dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono,
cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea
che la _Iliada_ dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.
[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu
di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o
povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un
pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri
panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non
aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse
per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era
volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu
di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto
animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna
volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in
Atene ed avendo parte della sua _Iliade_ recitata, il vollero gli
ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva
scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo
gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che
per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo,
credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse
un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale
dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono
ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza
vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro
il cui titolo fu _De verbositate Atheniensium_, nel quale egli morse
fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla
altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da
Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che,
per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma
sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior
regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa,
turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo
in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo
vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il
fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]
[Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente
cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo
lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano,
forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se
preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero
che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non
aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo
i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole,
e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in
essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli
aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti
rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed
essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per
caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel
cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí.
Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ
pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della
quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito;
onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella
onorevolmente il seppellirono].
Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia,
né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in
tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato
maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue
_Quistioni tusculane_ scrive Tullio cosí di lui: «_Traditum est etiam
Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae
regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna
quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita
expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?_»,
ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le
sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui
il nostro autore il chiama «poeta sovrano».
[Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare
padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto
regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che
egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 03