Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 09

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per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti,
per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio
dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i
megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re
deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli
ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise
e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose
imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette
liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui
che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali in anniversario
dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli
ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro
a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del
Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che
Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza
averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed
ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta
ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e
di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e
mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria
della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo
ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del
laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non
fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di
mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva
nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza
dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro
cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna
di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno
ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti
andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire,
se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto
per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che
per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che
Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di
Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio
liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò
Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte
alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia,
e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano
incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che
Aristotile scrive nella _Politica_, fu dalle figliuole di Crocalo
ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ
cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti,
fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí
Virgilio:
_Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum conciliumque vocat,
vitasque et crimina discit,_ ecc.
Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá
dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di
quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú
della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime
nʼè parte mescolata.
Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire
gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente
persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della
eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina,
dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su
una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea
per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti,
li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun
segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti
figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella
in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza
avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi
re di Creti, secondo che scrive Eusebio _in libro Temporum_, la prese
per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto.
E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser
figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o
perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale
noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa,
che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente
giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute
non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo
se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò
che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori,
mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto
da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che
esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono
avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio
non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli
apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in
Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la
guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in
Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta.
Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno,
percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam
dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose
le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò
uficio di giudice.
Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore
delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi
«orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia».
Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo
albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú
caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo
Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo
esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare
delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il
luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare,
senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita
qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene
che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la
esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e,
dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato.
E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia
mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere
una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che
ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè
secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda
sua.
Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto
lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice:
«Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator
dannato («_quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille_»),
«Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta
sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa,
cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non
potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli
occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò
che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè
Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni
opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno,
cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá
di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede
qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia
conveniente alla sua colpa.
«Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia
messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace,
esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il
centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti
e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande
intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna
anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di
doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi,
esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e,
mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole
attende alla esaminazione.
«Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è,
la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di Dio è molta: e queste
cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra,
come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e
poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di
questo giudice.
—«O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie
di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che
vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno,—«Disse Minos a me, quando mi
vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto
offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime
deʼ dannati:—«Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra
in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»:
volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione
il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia
saputo salvare. Quasi voglia dire:—Virgilio non ha saputo salvar sé,
dunque come credi tu che egli salvi te?—Sentiva giá questo dimonio
per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso
fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor
non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso
dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza
dellʼentrare»,—la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro
entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo
dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole
esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna
volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non
sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a
salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede
loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma
cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto
miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed
inganno.
Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui:—Perché pur gride?» Non poté
sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione, conoscendo che
egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse
per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con
parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di
spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale
andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.
E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si
dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova
nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa
dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio _in libro De
consolatione_ ditermina, fato non è altro che disposizione della
divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo
par sentire santo Agostino nel quinto _De civitate Dei_; il quale, poi
che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «_Sententiam
tene, linguam comprime_»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma
schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione.
E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché
allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor
tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto
si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero
avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto
fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li
quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni
e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e
sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si
può traʼ savi ogni vocabolo usare.
«Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria
di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si
puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote
ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»;—quasi dica:—A te non
sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo.—
«Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
qual dissi si conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si
punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo
Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino
a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza
udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le
dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali
si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto
mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere
percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si
muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova,
delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.
«Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè
risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti,
il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che
noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice:
«come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto»,
cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá
deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»:
e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a
discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo
è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono
confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor
del mare.
«La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato
parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e
rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo
bene, chiama Aristotile nella _Meteora_ «_enephias_», il quale è
causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti
in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna
nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con
impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido
e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli
abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide
uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto;
anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e
quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a
tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che
lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá
della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo
luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato
perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa
quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua
rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»:
per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento
che detto è, cioè _enephias_; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in
questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio
dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon
pena.
Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso
e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla
ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida»,
comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri;
«Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra
la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che
questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi
bestemmiano Iddio.
«Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la
qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo
tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che
a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator
carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E,
come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun
peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá;
vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda
singularmente per li lussuriosi.
Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una
comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i
peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e
dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo
tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli
e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di
passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in
quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme:
«Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali»,
cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di
lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno
contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a
questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai»,
questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna
volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor
pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.
«E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una
brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella
parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento
menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor
lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per
parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma
di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé»,
medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale
essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno
lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li
quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo
guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera.
«Per chʼio dissi:—Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí
gastiga?»-cioè tormenta, impetuosamente portandole.
—«La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a
questa pena. Dice adunque:—«La prima di color», che cosí son portati,
e «di cui novelle Tu vuoʼ saper»—, cioè la condizione e la cagione
perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta—Fu
imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle
quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí
rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno
a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che
lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece
«in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché
questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via
«il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste
operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il
vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge»,
appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito,
dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino
visse.
Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali
fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua
istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione,
non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere
stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli
assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette
costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta
Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne
che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la
donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí
grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato,
pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere
i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi
e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in
alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso
ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e
similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del
figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E, per poter meglio
celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale
essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi
velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare
alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a
tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo
sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo
acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare,
e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato
da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo
debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí
India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era
stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in
molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi
esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle
predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot
edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella
tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile
grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e
posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia
carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere.
E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le
trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato
che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo
figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato
stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi
gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti,
con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai
dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto
la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta
non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí
animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua
grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati
avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia, la quale
nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile
operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e
disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá
testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli
giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che
quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere.
Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri,
i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che
affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo:
e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo
servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento,
il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e
di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo.
Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto
il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni,
lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse,
ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o
perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera
di lei il privasse del regno.
Appresso, pur di lei seguendo, dice lʼautore: «Tenne la terra, che ʼl
soldan corregge», la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia,
non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da
una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale dʼEgitto,
la quale edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella
assalí Egitto. Se ella lʼoccupò o no, non so.
«Lʼaltra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che
sʼancise amorosa», cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con
altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.
Vuole lʼautore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei
essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della
quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente
Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re deʼ
fenici. Il quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e
lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani deʼ suoi sudditi, li quali
in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era,
diêro per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba,
il quale era sacerdote dʼErcule, il quale sacerdozio era, dopo il
reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente
sʼamarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa
Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo lʼavarizia del cognato, ogni
suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto allʼorecchie
di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare,
e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo
Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo
di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni
feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata
Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini deʼ
fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi
navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del
luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli
fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi,
quegli che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle
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