Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 14

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li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo
alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E
dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del
sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare,
il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla
parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa
Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli
piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a
Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta
cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo
i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non
avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per
la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo,
il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di
Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a
Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti
i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato
il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono,
anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono
da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella
parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia
infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi
questa istoria vuole pienamente sapere, legga la _Cronica_ di Giovanni
Villani, percioché in essa distesamente si pone.]
Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale
sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé
piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra
di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che
avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi
e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata
igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace,
avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois:
ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla
parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose
da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per
questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer
Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra
appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed
elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel
1300, piaggiava.
«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti»,
il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra»,
parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua
in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti»,
cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della
parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi
ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come
coloro fanno alli quali pare ricever torto.
«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta
dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra
tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno,
sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde
che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor
medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima
setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio
creduto.
«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori
accesi».—Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dallʼautore
di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia
assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè
superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per
le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male
accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò
la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere
stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di
messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere,
ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri
ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose,
le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò,
vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro,
che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia,
stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni
e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia
sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice
essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si
conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna
altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra,
cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano
caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura
corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon
nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati
fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata
invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere
per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá;
il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro
avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi
i cuori a discordia e a male adoperare.
«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento;
e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e
cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor
medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo
esilio. [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí,
che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose
future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare
che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a
dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione
del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna
cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual
veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio
ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le
quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente
conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia
furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati
fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro
creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata
in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto
piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto
perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí
similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a
sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter
salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella
lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro
siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio,
sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero
arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste
cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo,
in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá,
la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente
delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere:
per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro
addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute,
pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi
nel principio del Genesi: «Dixit Deus:—Faciamus _hominem ad imaginem
et similitudinem nostram_».—E se fece egli questo, che il fece, dunque
abbiam noi le cose predette.]
[È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo,
percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio:
percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi
né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma
possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura
intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò
chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre
ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come
che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni
nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne
sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare
vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo,
rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina
mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e
ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra
_in libro De divinatione_, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne
dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna
viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra
navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel
sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il
quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli
parve, dormendo, vedere, e udire da lui:—Simonide, non salire sopra
la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con
quegli che su vi fieno in questo viaggio.—Per la qual cosa Simonide
sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato
quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due,
dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane,
sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia?
parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta
Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva
una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E
di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per
certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe
mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato
libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente
infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole,
piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per
lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar
lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá
vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo,
ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio,
famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver
nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé
morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli
altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato
Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di
Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea
fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa
facesse, gli rispose:—Io ti vedrò di qui a pochi dí;—e quindi, fatto
accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in
Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non
era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero
del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro
amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—vienne, tale e
tale,—deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto
dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per
la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e
quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno,
come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo
avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che
esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare,
quando del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú
la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore
aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle
cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio
moveano, volevan mostrare.]
[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua
divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá;
ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede
alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua
miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia
gli debbono aggiugnere.]
«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi:—«Ancor», oltre a ciò che detto
mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi
facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio»,
Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ
volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori
giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino;
«Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.
Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini
di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in
singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.
«E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e
onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè
ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove
sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli
conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se
non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale
seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere
Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli
attosca»,—cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.
«E quegli» (_supple_) rispose:—«Ei son», coloro deʼ quali tu domandi,
«tra lʼanime piú nere».
Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra
creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso;
e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non
pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che
noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá,
che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore
oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore
domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne
la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice
«diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia
Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá
di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel
decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo.
I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá,
che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo
dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai
vedere».
«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole
comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando
questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna,
altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla
mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste
parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la
quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno
non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio
lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di
qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti
dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo»,—alle cose
delle quali domandato mʼhai.
«Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea
lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e
dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di
coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di
vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con
essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima
pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto
hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di
Dio.
«E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto:—«Piú non si
desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che
i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna
cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa
levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di
qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con
altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá:—«_Surgite, mortui, et
venite ad iudicium_»;—«Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati,
«la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni
podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il
vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di
loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto
giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il
quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli
animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro
che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si
turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui
che meritamente gli riprende.]
E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la
trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba»,
cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di
ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua
carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza,
[sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma
accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le
colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e,
ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè
risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza
di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati:—«_Ite maledicti in ignem
aeternum_»,—ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente
loro.
«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion
di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo»,
lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la
quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza
ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a
passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che
molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco
la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra
fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e
sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.
«Perchʼio dissi:—Maestro», continuandomi a quello che della futura
vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste
anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio
nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente
sieno, «o saran sí cocenti»,—come sono al presente?
«Ed egli a me» (_supple_) rispose:—«Ritorna a tua scienza», alla
filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene,
e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché
noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose
piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno
perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente
un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura,
dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi
molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita,
dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno
riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.
«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati,
«In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in
bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta:
e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo
per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti,
dice lʼautore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque
non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto
riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli
riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento
di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá»,
cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia,
«essere aspetta»,—in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti,
molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i
corpi riprenderanno.
«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale
lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella
strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come
molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure
intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si
disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi
trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.
Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno
il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto,
come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali
in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono
il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo
Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare
in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le
quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo
che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in
Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza
scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato
vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè
allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze
male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono
in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse
impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si
possono grandissime nostre nemiche, ecc.]


II
SENSO ALLEGORICO

[Nota: Lez. XXV]
«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo
canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua
alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come
i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina
giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il
peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e
non _e converso_, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come
il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.
A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello
che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano
cominceremo.
Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e,
separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi
su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e
gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto
fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al
suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di
paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise
alli lor piedi, sí come dice il salmista: «_Omnia subiecisti sub
pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres
caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris_»; e, come
queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di
sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier
fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e
visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi
della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi
popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque
piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e
mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano
gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a
ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli
non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore,
delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne,
vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto
o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna
ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la
loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti,
i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime
genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri
arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan
via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi;
le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti
impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e
i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero
di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava;
ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata
lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra
loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano
intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali
alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine
salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e,
senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani
robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e
riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non
malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti
di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá
discrivono, «aurea» si potea chiamare.
Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò
tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e quinci il
disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale
appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il
ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare
il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con
appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le
cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e
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