Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 16

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cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non
sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e,
accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam
dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che
Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina
di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e
del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer
deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però _admirative_, e
dolendosi, chiama il prencipe suo.
«Cominciò Pluto», (_supple_) a dire o a gridare, «con la voce
chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i
quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò
Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori
si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché
per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto
alla sua buona intenzione.
[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che
i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano _Dispiter_, fu
figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con
Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e,
secondo dice Eusebio _in libro Temporum_, il nome suo fu Aidoneo. Fu
costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero
essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon
Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di
Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni
descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui
questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si
debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e
diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]
«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual
veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe:
percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e
naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro
uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era
in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi:—Non ti noccia La sua
paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di
sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò
esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale
si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia
della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura
di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter
chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia»,—cioè questo
balzo.
«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto,
«E disse:—Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché
sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual
vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto
fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia»,
la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti
sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al
cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli
vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ
la vendetta del superbo strupo»,—cioè del Lucifero, il quale, come
nellʼ_Apocalissi_ si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso,
insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col
suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era
stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua
superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli
strupatori.
«Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di
Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le
gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio,
«Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè
lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde
a terra la fiera crudele», cioè Plutone.
«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo
canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori,
li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e
dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella
quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare
alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente
ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo;
e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le
colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca»,
cioè in sé insaccato riceve.
Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove
travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere _interrogative_ e con
questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante
nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io
viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa»,
cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne
confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena,
o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole
mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.
Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo
i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa
lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina.
Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e
una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di
Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio,
è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo
oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da
«_pharos_», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò
è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di
Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse
il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è
in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono
deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e
la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente,
in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre
nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a
quelle che sono in Peloro, ed _e converso_. E, come di sopra è detto,
questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto:
e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano
[come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi
sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare
verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso
Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni
dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso
la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare
Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta
forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le
rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad
essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora
sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il
mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il
flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo
è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda..., Che si frange con
quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose,
delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si
chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e
questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero,
questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra
dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo
percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non
veggiono la cagione della elevazione.]
Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato,
le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere
di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende
in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto
cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori,
in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde
predette.
«Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e
di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli
che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a
qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte
e dʼaltra con grandʼurli», cioè a destra e a sinistra, miseramente
per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si
dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del
petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro»,
cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza
voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello
medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel
medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando»,
quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra:—«Perché tieni?»;—e incontro
a questa gridava lʼaltra:—«E perché burli?»—cioè getti via. «Cosi
tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio
tetro».
Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e
che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita,
scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che
essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro
le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e
veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora
con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e
quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza
riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio
tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano
«allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano,
«Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole,
«metro», cioè:—«Perché tieni?—E perché burli?».—Il quale lʼautore
chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il
piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non
misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «_metros_», _graece_,
che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi
poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna
misura, secondo la qualitá del verso.
«Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quandʼera
giunto», al punto del mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo
suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era
dalla divina giustizia stabilito, «allʼaltra giostra», cioè percossa: e
chiamala «giostra», percioché a similitudine deʼ giostratori sʼandavano
a ferire e a percuotere insieme.
«Ed io, chʼavea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale
portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale
nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione
per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di
questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra
nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla
lupa, cioè dallʼavarizia. E in questo è da comprendere invano esser da
noi conosciuti i vizi eʼ peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli
o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire:
come avea lʼautore compunzione dellʼessere avaro, che ancora, come
nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché
qui usa lʼautore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi:—Maestro
mio». Qui domanda lʼautore Virgilio che gente questa sia, e per qual
colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale
è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro
dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato tʼho, mi diʼ «e se
tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra».—«Chercuti»
gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora
comprendeva loro per quello dovere esser cherici.
«Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli,
che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e
poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dallʼautore, e
dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente
dicendo:—«Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra,
«fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li
quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini
poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora
per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte
delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno
avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra
a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte
fanno, stando loro sopra capo, glʼinducono a guatarsi indietro, e i
fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte
dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono
le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce,
o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon
guerci. Questa spezie dʼuomini, quantunque non sia del tutto reputata
giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali
guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati
uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti
avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]
E però dice:—«Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e
malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali,
«in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio
fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani,
lá dove esse eran da allargare, o essi lʼallargaron troppo, lá dove
eran da strignere; e cosí né nellʼuna parte né nellʼaltra servarono
alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in
cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro lʼabbaia», cioè il
manifesta quando dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»,—usando
questo vocabolo «abbaia» nellʼanime deʼ miseri in detestazion di
loro, il quale è proprio deʼ cani; «Quando vengono aʼ due punti del
cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono:—«Perché tieni?—E perché
burli?»—), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide,
facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon
contrari. Le quali colpe vuole lʼautore che sien queste, avarizia e
prodigalitá, delle quali lʼuna appresso egli apre, e lʼaltra per lʼaver
detto «contraria» vuol che sʼintenda, e dice:
«Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la
cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono
alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza
di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata
fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non
intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo
ferventemente predicare dinanzi aʼ prencipi e aʼ popoli, li quali
quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo
che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in
segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano,
sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona»,
percioché, rasa tutta lʼaltra parte del capo, un sol cerchio di capelli
vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda,
come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio
portano, «clerici» da «_cleros_», _graece_, che in latino suona quanto
«uomini la sorte deʼ quali sia Iddio».]
«E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal
quale, mediante san Piero, hanno lʼautoritá grandissima, la quale
santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in _Purgatorio_ e in
_Paradiso_, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la
materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo
nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime
nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la
chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali
si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né
in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi
per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella
chiesa di Dio il sacro collegio deʼ settantadue discepoli, li quali
per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il
cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al
papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro sʼappartiene, insieme
col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale deʼ
cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che
sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette,
son chiamati cardinali da questo nome «_cardo, cardinis_», il quale
ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si
volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e
cosí da «_cardo_» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono,
da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto lʼuscio.]
«In cui», cioè neʼ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia,
secondo Aristotile nel quarto della sua _Etica_, la inferiore estremitá
di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si
disidera lʼaltrui, o si tiene quello che lʼuom possiede: della quale
piú distesamente diremo, dove discriveremo lʼallegorico senso della
parte presente di questo canto. Questo vizio dice lʼautore usare «il
suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove
non si dee tenere, neʼ cherici, neʼ quali tutti intende per queste due
maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí
negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia
molte parole.
E, avendo qui lʼautore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in
questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che sʼintenda
per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»),
con questo vizio insieme punircisi lʼopposito dellʼavarizia, cioè la
prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come
lʼavarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si
dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando
e come non si conviene; benché poco appresso lʼautore alquanto piú
apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.
«Ed io:—Maestro, tra questi cotali», che tu mi diʼ che furon cherici,
e ancora tra gli altri, «Dovreʼio ben riconoscere alcuni», percioché
furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo
che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due
peccati peccano (o vogliam dire: percioché lʼautor peccò in avarizia,
e lʼun vizioso conosce lʼaltro); «Che fûro», vivendo «immondi»,
cioè brutti e macolati, «di cotesti mali»,—cioè dʼavarizia e di
prodigalitá.
«Ed egli a me:—Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli
altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo:
«La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i feʼ
sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad
ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non
degni dʼalcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè aʼ due
punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si
percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dallʼun
dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale,
«Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè
la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso sʼintende; «e questi», cioè
i prodighi, «coʼ crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente
testificheranno la loro prodigalitá.]
[E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa:
intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane,
e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore,
né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono
solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla
natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per
sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dellʼanime
nostre, ma prestano alcuno ornamento aʼ corpi; e perciò dirittamente
sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze.
Risurgeranno adunque i prodighi coʼ crin mozzi,] a dimostrare come
essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro
temporali ricchezze.
«Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno
gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza,
«Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e»
hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi
insieme coʼ pesi i quali volgono, e col rimproverarsi lʼuna parte
allʼaltra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole
non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi
voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.
«Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le
parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali
tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e
apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in
costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «Deʼ ben», cioè delle
ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo
il volgar parlare delle genti, e ancora secondo lʼopinion di molti;
«Per che», cioè per i quali beni, «lʼumana gente si rabbuffa». Il
significato di questo vocabolo «rabbuffa» par chʼimporti sempre alcuna
cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è lʼessersi lʼuno
uomo accapigliato con lʼaltro, per la qual capiglia, i capelli son
rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però
ne vuole lʼautore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati,
le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini
hanno insieme per li crediti, per lʼereditá, per le occupazioni e per
li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le
fatiche vane, che intorno allʼacquisto delle ricchezze si mettono. E
dice: «Ché tutto lʼoro, chʼè sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu
giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di
sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una»,—non che trarla
di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e
laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta
tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro
sollecitudine sʼè acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma
solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le
quali parole udite da Virgilio muovono lʼautore a fargli una domanda,
dicendo:—«Maestro—dissi lui,—or mi diʼ anche».
[Nota: Lez. XXVII]
Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto,
nella quale lʼautore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa
sia fortuna, e però dice:—«Maestro, or mi diʼ anche»; quasi dica: tu
mʼhai detto che tutto lʼoro del mondo non potrebbe fare riposare una di
queste anime, e per questo mʼhai mostrato quanto sia vana la fatica di
coloro li quali, posta la speranza loro in questi beni commessi alla
fortuna, intorno allʼacquistarne e allʼadunarne si faticano; ma dimmi
ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo deʼ beni che le
son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra
branche?»,—cioè tra le mani e in sua podestá.
«E quegli a me», rispose dicendo:—«O creature sciocche. Quanta
ignoranza è quella che vʼoffende!», credendo come voi non dovete
credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna
come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non
donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or voʼ che
tu mia sentenza ne ʼmbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento
io: e dice «ne ʼmbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale,
la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello
ʼntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li
sensi esteriori e poi per glʼinteriori concepe, quel sugo fruttuoso ne
trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.
E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della
fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio,
il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza è
stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e dieʼ lor chi
conduce». E in questo sente lʼautore con Aristotile, il quale tiene che
ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo
e perpetuo: e che lʼautore questo senta, non solamente qui, ma in una
delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, ʼntendendo, il
terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli
loro commessi da Dio, «Sí chʼogni parte», della lor potenzia, «ad ogni
parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde,
«Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá,
ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve;
[«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono
nelle creature la potenzia loro.]
E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere
i cieli e a distribuire i loro effetti neʼ corpi inferiori, cosí:
«Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati
e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che
permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè
le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani»,
percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá;
e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni
vani «Di gente in gente», cioè dʼuna nazione in unʼaltra, sí come noi
leggiamo essere infinite volte avvenuto neʼ tempi passati nelle gran
cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e lʼimperio degli
assiri esser trapassato neʼ medi, e deʼ medi neʼ persi, e deʼ persi
neʼ greci, e deʼ greci neʼ romani; e, lasciando stare gli antichi, deʼ
quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante,
noi abbiamo veduto neʼ nostri dí la gloria e lʼonore dellʼarmi e
della magnificenza, e della Magna e deʼ franceschi, esser trapassata
neglʼinghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma,
ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si
trasmuterá in altrui.
E segue: «e dʼuno in altro sangue». La sentenza delle quali parole,
quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno,
volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam
dire «dʼuna famiglia in unʼaltra», in quanto dʼun medesimo sangue si
tengono quegli che dʼuna medesima famiglia sono; sí come, accioché le
cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá
nostra piena di queste trasmutazioni. Furon deʼ nostri dí i Cerchi,
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