Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 08

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cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante
questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o
vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza
_facti_, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe
manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno
indovinare.]
[Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam
sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo
secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi
che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala,
e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare
e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il
debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando
non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi
dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per
dire e per giurare:—Io non fui mai in parte dove questa proibizion
si facesse;—percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento
dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli
con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta,
cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza
iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per
la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di
seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si
possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza _facti_, e
per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ
nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza _facti_, si può in
questa maniera comprendere.]
[Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura
cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale,
che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della
gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in
diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non
solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e
ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui
il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava
ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono.
Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni,
che piú di sentimento cominciarono a prendere «_a naturali_», una
brieve legge aggiunsero, cioè:—Non far quello ad altrui, che tu non
volessi che fosse fatto a te.—E da questa nacque un modo di vivere
piú universale, il quale essi chiamarono «_ius gentium_»: per lo quale
assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ
popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo
quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano
alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano
e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte
nazioni.]
[Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad
alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare
le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender
regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della
sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che
fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi
diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli
altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò
e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa
medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam.
Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in
grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il
rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli
re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi
delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e
menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se
non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava;
Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due
tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il
popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge,
che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo
Eusebio _in libro Temporum_, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno
del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno
quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo
tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in
Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi,
morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza
cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto,
e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo
la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue
guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime
avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome
acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si
dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati,
tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]
[Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali
sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si
dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le
leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge
data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di
vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che
Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o
con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo?
Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne
alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé
per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si
dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi
della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto
queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della
futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo
io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
Isaia: «_Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius
fuit_?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il
dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici
dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo,
come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non
fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la
loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza
facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso,
presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere
questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe
ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto
che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo
gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean
veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui
essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate
le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti
guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva,
e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan
però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non
facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della
quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro
dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e
magnificarono per loro Iddio?]
[Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro
annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita
che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non
chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire
i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire:—Iona
fu mandato da Dio a Ninive;—ma esso non andò ad ammaestrargli della
legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe.
E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono
reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser
sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in
quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si
debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non
fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí,
quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella
celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che
viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo
esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per
lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita
eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini
arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il
salmista; «_Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces
eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae
verba eorum_». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni,
e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni
e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le
nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede
alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per
quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia
intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma
speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto,
se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non
furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano
indovinare.]
[Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli
e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro
sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare,
eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello
che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio,
furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente
vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze,
lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni
altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno
di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben
fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo
con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si
dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di
Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di
ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne
dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]
[Se forse volessero alcuni dire:—Cosí come per forza dʼingegno essi
adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e
la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei,
gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per
conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli
che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli
ammaestrassero—potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto
gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan
tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo
ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli
affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo
pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí
essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in
cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá
rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e
desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla
loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione,
non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli
ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei
e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non
potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di
fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]
[Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che
Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data
manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la
loro ignoranza, sí come ignoranza _facti_, si debba potere scusare?
E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che
quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li
quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che
par che san Paolo voglia, quando scrive: «_Servus nesciens vel ignorans
voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis_»; e in altra
parte: «_Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci_».]
[_De ignorantia iuris_ non dico cosí; percioché, come di sopra
dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata
e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la
ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e
supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non
lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata
per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro
virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la
sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma
a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è
Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali
io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente
nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo:
«_A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur_», ecc. E
il salmista: «_Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non
exaudirent voces_», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola,
che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «_ignorans
ignorabitur_», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno,
che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto
alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]
[Nota: Lez. XVIII]
Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso
da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura
che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E,
secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono
della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo,
cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due
spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie
deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i
naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la
cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini
e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí
eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino
il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale
circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose,
dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non
si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo
bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze,
i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima
apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose
si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che
non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come
lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono
aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili
come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno;
oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in
quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor
questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad
intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a
rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò,
chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien
passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non
con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni
e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente
scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua,
cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella,
e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria
Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per
la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili:
li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e
disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche
degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello,
cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè
con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar
quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si
perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò
con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le
quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano
gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava,
al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ
liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle
rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse
intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i
predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ
quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la
dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano
le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si
solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno
da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol
divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne
alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la
grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la
rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a
ciascuno.
Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi
cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il
qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato
della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè
daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro
che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è
verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte
dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui
il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini,
e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ
quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere
deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque
facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito,
con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti
i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante
dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di
coloro che son degni di laude.
Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini
dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al
quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole,
che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa
è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare
ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare
le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose
opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o
dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla
battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare
è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia,
li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno
tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si
riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina
militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in
quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne,
le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici
discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non
gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre
nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi
filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e
delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo
stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre
ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito,
nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare;
trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di
servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori,
acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli,
dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune
dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei
nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella
iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno
adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ
filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece
lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose
donne in compagnia deʼ solenni filosafi.


CANTO QUINTO


I
SENSO LETTERALE

«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come
negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose:
e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli,
partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori
di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci
nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra
come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in
questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua
alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda
parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ
peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e
in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella
pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi
puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar
gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza
quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la
quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che
lʼuno spirto».
Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da
queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio
primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno;
e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio,
«che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion
perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e,
quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che
ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor»,
in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in
sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè
a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non
avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il
superiore, egli è molto maggior di pena.
«Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor
mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori;
e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di
trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare
del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui
trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i
peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte
quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando:—«Guai
a voi, anime prave», ecc.;—nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli
spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e
ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque:
«Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo
Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e
ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola
dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e
fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con
operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto,
fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle
pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli
avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e
bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si
mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine
piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo
per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal
disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente
portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare,
e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine,
paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto
piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando,
il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi,
ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di
tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos,
divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata
Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole,
intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza
oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per
invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos,
avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per
andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al
padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a
essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual
fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro
bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come
Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello
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