Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 01

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NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
mantenuto nel terzo volume.


SCRITTORI DʼITALIA
G. BOCCACCIO
OPERE VOLGARI
XIII

GIOVANNI BOCCACCIO


IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE

A CURA DI
DOMENICO GUERRI

VOLUME SECONDO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918
PROPRIETÁ LETTERARIA
GIUGNO MCMXVIII—49327
III
CONTINUAZIONE
DEL
COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"


CANTO QUARTO


I
SENSO LETTERALE
[Nota: Lez. XI]
«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente
canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del
precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un
vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento,
il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel
principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto.
E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto
gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda,
procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti,
pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E
questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».
Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona
violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si
fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione,
la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ
comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ
ministri della giustizia punito nellʼaltra.
«Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un
costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri
indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle
virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual,
volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:
_Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc._
E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, _in
tragedia Herculis furentis_, dove dice:
_.....tuque o domitor,_
_somne, malorum, requies animi,
pars humanae melior vitae,
volucer, matris genus Astreae,
frater durae languidae Mortis,
veris miscens falsa, futuri
certus et idem pessimus auctor:
pater o rerum, portus vitae,
lucis requies noctisque comes,
qui par regi famuloque venis,
placidus, fessum lenisque fovens:
pavidum Leti genus humanum
cogis longam discere mortem, ecc._
Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la
camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun
disiderasse.
«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso,
la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo;
e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora
il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per
lʼarterie al cerebro.
«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli,
quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni
della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come
Aristotile mostra nel terzo libro della sua _Meteora_; percioché,
essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate,
sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che,
per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per
quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá,
chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo.
Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della
esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual
cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che
era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano
tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo
«tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è
stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.
«Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste
parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti.
«E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si
faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non
fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché
non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé
divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore
il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le
parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè
«Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva
dove il sonno lʼavea preso.
«Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era,
e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai»,
cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come
esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente
canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore
tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza,
«profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre
allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè
agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè
verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna
cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza
delle tenebre e della nebbia.
—«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte
del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per
non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e
questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere
deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda
quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa
due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti
di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati
infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e
femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio
gli solve. E comincia questa seconda quivi:—«Dimmi maestro mio», ecc.
Dice adunque cosí:—«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre
infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo»,—cioè in
inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural
luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto»,
cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna
delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono
le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali
vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E
qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí
per compassione.—«Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai
secondo»,—cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare,
renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni
ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è
buono e valoroso duca.
«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto»,
riguardandolo nel viso, «Dissi:—Come verrò», io appresso, «se tu», che
vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi»,
cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come
nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel
secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi.—
«Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse:—«Lʼangoscia delle genti»,
onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio
dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè
compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi
che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia
questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore
che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per
compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.
«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché
la via lunga ne sospigne»—a dover andare. «Cosí si mise», procedendo,
«e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel
limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.
«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea
comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È
il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato,
il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se
cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi
e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí
lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i
sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual
cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura
eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura»
un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il
testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni
moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»),
«facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento
non maggiore che il tremare.
«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non
eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca
stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava
dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza
di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere
avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè
moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali
«infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che
perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di
genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di
femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto
dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto
è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali
una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula,
la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non
mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe
questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella
presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno,
al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento;
anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che
è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione
del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in
alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo,
è conceduto.]
«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per
ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da
doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare;
percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto
pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non
grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa
domandato non lʼavea) «a me» disse:—«Tu non dimandi, Che spiriti
son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso
fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che
meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col
farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ
che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che
tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun
bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo
bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione
è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo
Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «_Amen, amen, dico
tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest
intrare in regnum Dei_». È adunque il battesimo una regenerazion nuova,
per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti,
nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio,
dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento
valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza
esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte
della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che
è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ
quali dodici è il battesimo uno.
Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso
medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi
parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le
sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e
mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna;
perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto
non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di
Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a
prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti
dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di
coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e
fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto
deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E
di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io
medesmo»: percioché Virgilio, si come in _libro Temporum_ dʼEusebio
si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui
introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta
di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí
alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone _Della nativitá
di Cristo_, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi
scritti nella quarta egloga della sua _Buccolica_, dove dice:
_Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
iam nova progenies caelo delabitur alto._
Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere
santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per
avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso
quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al
popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che
uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non
adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti
al cristianesmo salvarsi.]
«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o
vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente
adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali
o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere
in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme
vivemo in disio»:—il quale disio non è altro che di vedere Iddio,
nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa
cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e
noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere
speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e
perciò, quantunque _prima facie_ paia non molto gravosa pena essere il
disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora
piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna
intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per
Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno
agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando
coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte
mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino
alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello
astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono
segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale
per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi
immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran
sospesi», dallʼardore del lor desiderio.
—«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella
della prima parte della seconda division principale, nella quale
lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice
adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore».—Assai lʼonora lʼautore
per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che
fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la
quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed
intende, in questa domanda, non di voler sapere deʼ santi padri che da
Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la
domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta
fu per la venuta di Cristo, alcun altro nʼuscí mai: quasi per questo
voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che,
se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli
sʼingegnerebbe dʼadoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a
salute.] «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che
vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la
nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene
i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio
ciò che nella divina Scrittura nʼè scritto, son nondimeno di quegli
che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non
credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla
fede debita alle Scritture; e però cosí le cose passate, come quelle
che venir debbono, senza cercarne testimonianza dʼalcuno, si vogliono
fermamente credere e semplicemente confessare].—«Uscicci mai», di
questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera
pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella
mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse
salute: «O per lʼaltrui», opera, [o fatta o che far si possa per
lʼavvenire,] «che poi fosse beato?»—uscendo di qui e sagliendo in vita
eterna.
«Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè
intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva
la domanda generale, «Rispose:—Io era nuovo in questo stato». Dice
«nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati,
dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni
erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo,
nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi
venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio
non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente»,
percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun
altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la
potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era,
questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda
dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al
limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto,
che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce:
donde si scrive che «_habitantibus in umbra mortis lux orta est eis_».
«Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo. [Adamo fu, sí come
noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto
di creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte
del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò
nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo lʼanima dotata di
libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era
immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e
secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale
tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni.
E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé
intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro,
dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né deʼ piedi,
ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di
perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:—Questa è osso
dellʼossa mie, e per costei lascerá lʼuomo il padre e la madre, ed
accosterassi alla moglie.—La qualʼè tratta dal suo costato, per darne
ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dellʼuomo,
lʼavea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e
guerra senza pace e senza triegua, come lʼodierne mogli odo che sono,
ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte
le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al
lor piacere, ma del frutto dʼuno albero solo, il qual vʼera, cioè di
quello «della scienza del bene e del male», sʼastenessero, percioché,
se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí
dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma lʼantico nostro
nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere
quelle sedie, le quali per la ruina sua e deʼ suoi compagni evacuate
erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, sʼella mangiasse
del frutto proibito, ella non morrebbe, ma sʼaprirebbero gli occhi
suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la
qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo,
incontanente sʼapersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano
ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si
nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di
paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú
figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, dʼetá di
novecentotrenta anni si morí.]
[Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno:—Tu hai detto
davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam
fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale?—A
questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che
Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle
creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono
semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li
quali tutti sono di semplice materia creati: ma lʼuomo non fu cosí;
anzi fu creato di materia composta, sí come è dʼanima e di corpo,
e perciò non è perpetuo come sono le predette creature.—Ma quinci
può sorgere unʼaltra obiezione, e dirsi: egli è vero che lʼuomo è
composto dʼanima e di corpo, e queste due cose amendue furon create
da Dio; perchʼè dunque lʼanima perpetua, e ʼl corpo mortale? Dirò
allora lʼanima essere stata da Dio composta di materia semplice, come
furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del
semplice elemento della terra, senza alcuna mistura dʼaltro elemento,
sí come dʼacqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta
fare la statura dellʼuomo, fu adunque fatta del limo della terra,
avente alcuna mistura dʼacqua. Non che io non creda che a Dio fosse
stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa
fece tutte le cose, ma la commistione deʼ corpi ne mostra quegli essere
stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva
lʼanima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di
quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa
corruzione e morte deʼ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo
Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire
alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che
peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai
risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson
morire, se non come lʼanima nostra, la quale, quantunque peccasse col
corpo dʼAdamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo,
al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata
minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno
che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio,
si vuole ricorrere, aʼ teologi ed aʼ sufficientissimi litterati, la
scienza deʼ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si
distende.]
«DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il
primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia.
Leggesi nel _Genesi_ Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam,
essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che
appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due
cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche
sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per
far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le
spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle
sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a
Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel
fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel
viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre
eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello
sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto
a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La
qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al
fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non
prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone
ed ucciselo.
«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini
sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio,
conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre
suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse
unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali
vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale
sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel
torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra
lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque
che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò
fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò
con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il
diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio.
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