Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 22

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te; «E, se lʼandar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam
lʼorme nostre insieme ratto»,—per la via tornandoci, per la quale
venuti siamo.
«E quel signor», Virgilio, «che lí mʼavea menato, Mi disse:—Non temer,
ché ʼl nostro passo», cioè lʼentrare nella cittá di Dite, «Non ci può
tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi
e dican parole assai, essi non posson però impedire lʼandar nostro; e
pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal nʼè dato», cioè da
Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma
qui mʼattendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta,
e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la
speranza buona, dicendo: «Chʼio non ti lascerò nel mondo basso»,—cioè
nello ʼnferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.
«Cosí sen va», verso queʼ demòni, «e quivi mʼabbandona Lo dolce padre»,
cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E ʼl sí e ʼl no», che
egli debba a me ritornare come promesso mʼha, o rimaner con coloro (sí
come essi il minacciavano, dicendo:—Tu qui rimarrai—), «nel capo mi
tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.
E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a queʼ demòni, «si
porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun
dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei
nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che
fuor rimase».
Puossi per questo atto, fatto daʼ demòni, comprendere che Virgilio
dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo ʼnferno a colui
il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché
egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.
«E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste
parole lʼautore lʼatto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano
e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come
glʼiracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò
che alcuno ha men che bene adoperato.
Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta
la turbazione del mansueto, dove in contrario lʼiracundo leva la
testa e fa romore; «e le ciglia avea rase Dʼogni baldanza»; in quanto
il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú lʼimpeto,
il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito,
cioè senza alcuno ardire, dove glʼiracundi col capo levato paiono
baldanzosi e arditi; «e dicea neʼ sospiri», cioè sospirando dicea
(nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del
mansueto):—«Chi mʼha negate le dolenti case?»—quasi dica: questi
demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono,
hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual
cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di
sospirare e di rammaricarsi.
«E a me disse», non ostante la sua perturbazione:—«Tu, perchʼio
mʼadiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non
te nʼentri alcuna paura, per ciò «chʼio vincerò la pruova», dellʼentrar
dentro alla cittá, «Qual, chʼalla difension», che io non vʼentri,
«dentro sʼaggiri», cioè si dea da fare perché io non vʼentri. «Questa
lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non mʼè nuova,
Ché giá lʼusâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro
al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men
segreta», in quanto quella è allʼentrata dellʼinferno, e questa è quasi
al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta e piú riposta
che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo
giá risuscitato scese allo ʼnferno a trarne lʼanime deʼ santi padri, li
quali per molte migliaia dʼanni lʼavevano aspettato; intorno al quale
il prencipe deʼ demòni coʼ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che
egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse
coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo
metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello ʼnferno, e
rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della
quale fa qui menzione lʼautore, cioè la men segreta, alla qual poi
non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual
senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere dʼalcuna altra,
percioché, secondo la discrizione dellʼautore, nello ʼnferno non ha che
due porte: delle quali è lʼuna quella di che di sopra è detto, e della
quale esso dice qui: «Sovrʼessa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per
me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta»,
percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna
morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale
Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello
ʼnferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.
E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la
qual senza serrame ancor si trova, «discende lʼerta». «Erta» è a chi
volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla
prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come
spesse volte fa lʼautore, usa un vocabolo per un altro. «Passando
per li cerchi», dello ʼnferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí
come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza,
alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra
aperta»;—di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice
lʼautore che, toccata la porta di quella solamente con una verga,
lʼaperse.


II
SENSO ALLEGORICO

«Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Nel presente canto
non è alcuna ordinaria allegoria come neʼ passati, percioché non
ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata
allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole
si spedirá.
Dicono adunque alcuni le due torri, le quali lʼautore scrive essere in
questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il
trascendimento della furia deglʼiracundi, il quale trasvá sopra ogni
debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte soprʼesse avere a
dimostrare le tre spezie deglʼiracundi discritte nel canto precedente.
Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme
semplicemente essere state discritte dallʼautore a continuazione del
suo poema; peroché qui parevʼessere di necessitá porre alcuna cosa, per
la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a
dovere li due venuti a riva passare allʼaltra riva, si come subitamente
venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.
Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben
si può comprendere lʼautore intendere il vizio dellʼiracundia, li
cui effetti, quanto piú possono, son conformi aʼ costumi del detto
Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non
sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo
detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio,
dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua
operazion rispetto, e non a quella per la quale lʼautore vuol qui che
egli significhi lʼiracundia; e, se contro a Virgilio sʼosasse dire, io
direi che in questa parte lʼautore avesse avuta assai piú conveniente
considerazione di lui.
Il navicar lʼautore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo
senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole
nel peccato dellʼira divenire, quanto piú leggiermente può, passare
superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite,
sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle
oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato
della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare
a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a
perdizione.
Della cittá di Dite, la qual dice lʼautore che avea le mura di ferro, e
deʼ demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono,
e, oltre a ciò, lʼavergli serrata la porta della detta cittá nel petto:
tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente
canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto
mi fia, ne scriverò.
FINE DEL SECONDO VOLUME.


INDICE
Canto quarto:
I. Senso letterale p. 3
II. Senso allegorico » 89
Canto quinto:
I. Senso letterale » 105
II. Senso allegorico » 147
Canto sesto:
I. Senso letterale » 165
II. Senso allegorico » 184
Canto settimo:
I. Senso letterale » 199
II. Senso allegorico » 227
Canto ottavo:
I. Senso letterale » 261
II. Senso allegorico » 283
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