Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 17

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i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che
essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il
piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia
trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E
cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá
in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension
deʼ senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono
inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai
può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a
potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in
parole..
E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera»,
signoreggiando, «e lʼaltra langue», servendo; e ciò avviene,
«Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa
ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», aʼ sensi umani, «come
in erba lʼangue». _Anguis_ è una spezie di serpenti, la quale ha la
pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita neʼ prati fra
lʼerbe; e percioché egli è con lʼerbe dʼun medesimo colore, rade volte
fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice lʼautore,
il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto aʼ sensi
umani, chʼegli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a
questo, roborando ancora lʼautore la predetta cagione, séguita:
«Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole
pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara
dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di
questa ministra sʼinchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno,
possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e
questo essere vero, sʼè giá per molte manifeste cose veduto. [Creso,
re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da
Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re deʼ medi, in due sogni, che il
figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola,
il dovea privare dello ʼmperio dʼAsia: né gli giovò il maritarla ad
uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il
figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio
di questa ministra fermato. Non poterono lʼavere cacciato del regno
dʼAlba in villa Numitore, dʼavere ucciso Lauso, suo figliuolo, dʼaver
fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non
fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono
gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci
tirare allʼattitudine dataci daʼ cieli: ma, se noi vorremo esser
prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero
arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice
Giovenale: «_Nullum numen_», ecc., percioché il seguir noi il desiderio
concupiscibile, ne fa rimaner vinti daʼ movimenti di questa ministra,
ecc.]
E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica
e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono
quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono,
sí come son queste terrene da ordinato movimento deʼ cieli produtte,
secondo la potenzia deʼ quali esse si permutano, non altramente che se
da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare
ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè
le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè
lʼintelligenze, delle quali di sopra è detto.
[E, in questa parte, lʼautore, quanto piú può, secondo il costume
poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate,
non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose
spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion
nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e
corporea fossero; il che qui lʼautore usa, mostrando la fortuna aver
sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi
accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui lʼautore
nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non sʼattribuiscono. Dalle
quali fizioni è venuto che alcuni in forma dʼuna donna dipingono questo
nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota,
sí come per Boezio, _De consolatione_, appare. Ma chi le fascia gli
occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá,
ogni permutazion dì costei va a diterminato e veduto fine; e, se
lʼeffetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della
permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il
quale avvedutamente quella ischifa.]
«Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali,
«non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che
guerreggiano hanno neʼ tempi delle triegue; e, percioché nelle sue
permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa
esser veloce». E in queste parole vuole intendere lʼautore i movimenti
di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non
bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio
si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra
pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí
spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce,
«che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare
vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo
uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte
nella vita sua.
«Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle
bestemmie e daʼ rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí
come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce»,
cioè neʼ loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove
sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella sʼè
beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie eʼ rammarichii:
«Con lʼaltre prime creature», cioè coʼ cieli e con le intelligenzie
separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si
discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e
beata si gode», non curando di queste cose.
[Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa
fortuna, della qual qui lʼautore domanda Virgilio; quantunque molte
cose in dimostrarlo nʼabbia dette lʼautore, e, conchiudendo, mostri
di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo
delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion
di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi
presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano,
io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non
lʼuniversale effetto deʼ vari movimenti deʼ cieli, li quali movimenti
si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di
quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará
lʼuniversale effetto deʼ movimenti deʼ cieli causato dalla divina mente
e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore deʼ beni
temporali, deʼ quali essi movimenti deʼ cieli sono causatori. E dicesi
dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo
nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun
ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion deʼ cieli. E
percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia
opinion deʼ filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile
al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo
al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che lʼuniversale
loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali,
similmente debba essere in continuo movimento: e se lʼuniversale
effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in
continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere
convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e
per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data
dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che glʼingegni
umani comprendano le particularitá infinite di questo universale
effetto deʼ cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue
fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque
lʼarte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non
paiono glʼingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan
comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né
ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti
deʼ corpi deʼ pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il
cielo dimostra dover producere, né quello che a dò seguire o fuggire,
per avere o per fuggire quello che sʼapparecchia, sia sofficiente né
bastevole: e però ottimamente dice lʼautore i consigli umani non poter
comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni
di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni
delle cose prodotte daʼ cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro
dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita;
e se i movimenti deʼ cieli son veloci, e le cose causate da loro
seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro
effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e
seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo,
cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e
delle minori.]
[Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere
alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí
come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono:
intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni deʼ cieli
adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni
deʼ cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però
non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini
ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano
i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno,
quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le
cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si
muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la
natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]
[Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a
beneplacito, come quasi a tutte lʼaltre è stato posto; e, secondo che
le cose secondo i nostri piaceri o contrarie nʼavvengono, le chiamiamo
«buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi
sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la
stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male,
secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e
ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la
veritá, la sentenza di questi versi:
_Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
si volet haec eadem, fies de consule rhetor,_ ecc.
E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero,
i romani piú che gli altri vi peccarono. Nondimeno, quantunque di
necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni
esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti
delle cose causate daʼ cieli, delle quali lʼanime nostre non sono,
percioché sopra i cieli son create da Dio e infuse neʼ corpi nostri,
dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna
necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non
potenti contro a nostro piacere. Il che in assai sʼè potuto vedere, in
Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il
che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:
_Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te,
nos facimus, Fortuna, deam, coeloque locamus._
E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con
lʼappetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio,
per lo quale nʼè conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni
sua potenza.]
[Adunque questo effetto universale deʼ movimenti deʼ cieli e delle
loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa
dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual
noi vogliamo esser ministra e duce deʼ beni temporali. E in questa
opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero queʼ poeti, li quali
sentirono che lʼuna delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che
vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione
e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte
attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono
che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne
riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte.
E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli
uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché,
come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni eʼ mutamenti di
ciascuno, assai appare ciò non essere altro che lʼuniversale effetto di
tutti i cieli, daʼ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati
in noi.]
[E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e
secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual
vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí
come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti,
li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore sentire per
questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam
credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli
effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto
intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa,
sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
[Nota: Lez. XXVIII]
«Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda
parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima
dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice
trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto
cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi;
nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La
seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí
girammo».
Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo
ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a
maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo
scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi
mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte,
e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la
quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire
in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il
dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al
cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano,
secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte
occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per
quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la
seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl
troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del
quale io vengo teco.
«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone
«allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero
«Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí
bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dellʼacqua
che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era
buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore
assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che
il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano
lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della
terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore;
«altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio
petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da
Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde
bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno
lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera
«bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma,
largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste
onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè
malvagia.
Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»;
e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè
rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del
luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige».
E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è
disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in
quel cerchio sono.
[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti,
la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata
figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che
dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice
degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono,
quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:
_...Stigiamque paludem,_
_dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc._
E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di
spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio,
avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo
tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare»
cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle
stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu
favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e
vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]
[Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna
al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile,
la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò
è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene
a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è
senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par
di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza
allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par
che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque
procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le
parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della
terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo
della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in
questa palude.]
[Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti
senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere
di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi
dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli
ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di
tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro
nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la
seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono
iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men
che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per
la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie
ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati,
nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani.
Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente
sentito nel sesto del suo _Eneida_, lá dove egli manda i perfidi e
ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama
Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali
hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi,
cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati.
O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono,
glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle,
le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di
verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del
zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico».
Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti,
esso fa quello che gli astrologhi chiamano «_zenit capitis_»; e in
questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige,
secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi
superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero;
e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e
albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto
la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli
scrisse _Delle cose sacre dʼEgitto_, dicendo che la palude di Stige è
appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che
non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí,
essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «_phile_», il quale è
tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima
padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole
e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali
essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di
tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]
[Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion
questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi
temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma
allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che
temere; e questi cotali sono glʼiddii, i quali i gentili dicevano
esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che
giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la
tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio,
credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato
son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che
bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin
beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]
[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre
non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare,
né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e
faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in
ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in
prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad
affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte
della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser
tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice
adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso»,
cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella
padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte
nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa
e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e
perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e
con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí
ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean,
non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi,
«Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun
contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi
deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano
a brano», cioè a pezzo a pezzo.
«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno
che cosí si troncano, e dice:—«Figlio, or vedi Lʼanime di color
cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che
tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente
che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular
questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle
gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere
che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra
vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e
cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori,
e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua
sospirava o si doleva.
«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole
lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene
scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa
maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in
questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali
«dicon:—Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè
si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso
fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí
intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli
si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce,
qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta
negra»,—in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di
sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera
altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la
quale ella sta e che la mena.
«Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi,
e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario,
il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ
suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non
lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude
propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi,
dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si
gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la
qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e
abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa,
non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le
nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello,
che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola
piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si
gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi
posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.
«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte
principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare,
e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori
che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda
pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun
arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze
dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti
(cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ
versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono,
«tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e
ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza»,
cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna
torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.


II
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