Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 03

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stato dopo lʼemigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di
Lacedemonia e Latino Silvio re dʼAlba. Altri voglion che fosse dopo
questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio
re dʼAlba. Filocoro dice che egli fu aʼ tempi di Archippo, il quale
era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni
dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la
ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento
di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano
Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni:
e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni,
regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del
quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta,
perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero,
quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non
per la sua preeminenza singulare].
[Nota: Lez. XIII]
«Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai
umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e
«libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun
servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e
chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia,
e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore
perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi
ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente
in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si
possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia
dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre,
il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò,
fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate,
nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò
similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e
fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il
quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti
da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei;
percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio _libri Temporum_
dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in
versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò
Orazio in un suo libro, il quale è nominato _Ode_. Compose, oltre a
ciò, un libro chiamato _Poetria_, nel quale egli ammaestra coloro,
li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir
debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente
comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle _Pistole_ e nei
_Sermoni_, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò
dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro
predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette
anni, secondo Eusebio dice _in libro Temporum_, lʼanno trentasei dello
ʼmperio dʼOttaviano Augusto.
«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di
Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si
chiama _De tristibus_, testimonia, dicendo:
_Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui decies distat ab Urbe novem._
E, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ dice, egli nacque nella
patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu
di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza
maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della
scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro,
il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva
un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua
natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse
studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in
soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per
la qual cosa esso dice nel detto libro:
_Quidquid conabar scribere, versus erat._
Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
_Saepe pater dixit:—Studium quid inutile temptas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes.—_
Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto
alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria,
se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente
meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu
ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa
comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e,
oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.
Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello
che chiamiamo lʼ_Epistole_. Appresso ne compose uno, partito in tre, il
quale alcuno chiama _Liber amorum_, altri il chiamano _Sine titulo_: e
può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla
che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata
da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine
titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa
intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra,
e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un
libro, il quale egli intitolò _De fastis et nefastis_, cioè deʼ dí neʼ
quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era,
narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in
che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari;
e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi:
e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o
che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale
è partito in tre, e chiamasi _De arte amandi_, dove egli insegna e
aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un
altro, il quale intitolò _De remedio_, dove egli sʼingegna dʼinsegnare
disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in
versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta.
Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo
distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel
libro _De tristibus_, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe
spazio dʼemendarlo.
Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione
dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa
lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata
Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla
morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore
nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama _Phasis_. E in
questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello _De
tristibus_, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli
intitolò _In Ibin_. Composevi quello che egli intitola _De Ponto_, e
tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come
egli scrive nel libro _De tristibus_, mostra fosse lʼuna delle due o
amendue; e questo mostra scrivendo:
_Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error._
La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian
Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta
avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:
_Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?_
Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo
convenirgliele tacere, quivi:
_Alterius facti culpa silenda mihi est._
La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro _De arte
amandi_, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi
deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol
molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver
meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono
lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella
la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli.
Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di
Tiberio Cesare, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ scrive, nella
predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato
rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo
mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta
la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far
motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il
costrinse a morire.
«E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio _in libro
Temporum_ scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba,
donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di
Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di
laudevole ingegno molto, sí come nel libro _Delle guerre cittadine_
tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso
in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché
si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito,
leggendo, del suo libro, dovette una volta dire:—Che dite? mancaci
cosa alcuna ad essere equale al Culice?—Culice fu un libretto metrico,
il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia
laudevole e bello, non è però da comparare allʼ_Eneida_: e quantunque
Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí
fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa
pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼ_Eneida_;
della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu
costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in
tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun
letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano
costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli
stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e
la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu
determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma
piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce
esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il
tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il
satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello
di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse,
maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane
uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta
contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti
altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che
Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere
tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ
congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non
accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti
né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era
colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere
accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual
cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio
commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le
vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori
divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi
di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per
perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò,
ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.
«Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene»,
cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè
quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce
«sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome
dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi
quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si
convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò,
non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto
Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse,
Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano
le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la
venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re
deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è
onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima
professione, come costoro erano con Virgilio.
«Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi
Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene
a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati
coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il
qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che
lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma
i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender
per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e
maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale
senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole
seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila
vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il
canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni
altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in
fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si
verificasse.
«E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per
lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno»,
che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi
fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando
lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano
coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini
infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi,
come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata
fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso
commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice,
«sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma
quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da
credere, percioché lʼautore non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il
dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno
deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza
alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente,
e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie
conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere
la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora
per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale
prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il
vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che
fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte
un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar
gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti
interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma
i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa
che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una
letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non
è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver
detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu.
Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa
scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir
«sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia
dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare
che ci piaccia quello che ci dispiace.
«E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo
contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu
questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra
loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali
conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella
sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui
sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti,
io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice,
percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno
redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno
non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual
cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta
sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun
suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per
Virgilio pel primo dellʼ_Eneida_, laddove esso discrive Enea essere
stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo
in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in
un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:
_Sum pius Aeneas, fama super aethera notus._
Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a
dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo
uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né
è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo?
Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá,
rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse
taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non
sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago,
della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che,
avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non
di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama
conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse
taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli,
mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo,
cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in
terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette
loro in ammaestramento, disse queste parole:—«Voi mi chiamate Maestro
e Signore, e fate bene, percioché io sono».—Direm noi in questo Cristo
aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo
no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che
era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò
le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti
ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato
lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi
aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro
maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le
parole seguenti dove dice:—«E se io, il quale voi chiamate Maestro e
Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete
voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho
fatto a voi, e cosí similmente fate voi»,—ecc. Adunque è talvolta di
necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto
peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.
[Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente
opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore
dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose
dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui
lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello
stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia
fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]
«Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della
seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti
entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di
quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque
poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di
sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio
di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello»,
cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose,
«colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano
dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il
che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse,
poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello»,
cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato dʼalte mura, Difeso
intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello,
«passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura
stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette
cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate
le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da
intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè,
né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere
puote intrare.
«Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor
primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender
si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina
una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi
tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá
dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio
soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non
corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti»,
in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso
riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan
rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora
nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci
soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta
piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo.
«Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel
luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto
dellʼ_Eneida_, ove dice:
_Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
adversos legere, et venientum discere vultus, ecc._
«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»;
percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si
potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.
«Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento.
Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di
fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa,
come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura;
il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati»,
da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro
li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle
loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti,
«in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser
maggiore.
[Nota: Lez. XIV]
«Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere
che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di
quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ
quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di
contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la
quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera
molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo.
Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere
stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in
autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono
lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se
non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá,
ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie,
chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come
detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ
poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in
cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato
Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo _De fastis_ cosí:
_Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
quae septem dici, sex tamen esse solent,_
_Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
nam Steropen Marti concubuisse ferunt,_
_Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
Maian et Electron Taygetenque lovi:_
_septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
Poenitet: et facti sola pudore latet._
_Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
non tulit, ante oculos opposuitque manum._
Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e
però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini
«virgiliane». Anselmo, _in libro De imagine mundi_, dice che queste
stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla
quantitá, percioché «_plion_» in greco viene a dire «moltitudine» in
latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i
virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata
di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione
alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette
stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle
stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome,
furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo.
Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole
è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con
la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí
sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano
nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende
per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non
fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse,
lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata:
adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa
sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di
Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui
denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere
quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione
forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n»
al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni
e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si
truovano.
Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí
tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver
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