Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 13

Total number of words is 4529
Total number of unique words is 1525
35.1 of words are in the 2000 most common words
47.2 of words are in the 5000 most common words
53.4 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte deʼ giovani
e amica delle femmine, madre di bugie, nemica dʼonestá, guastamento
di fede, conforto deʼ vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e
abominazione e vituperio deʼ vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere
Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando
piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di
volere che uno fosse contento dʼuna e una dʼuno; il che poi nella legge
data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento
vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e
ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé lʼonestá
publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole,
e similemente i padri eʼ figliuoli, e gli adultèri essendo stati
proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli
e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai,
cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai
propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con
queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le
femmine le quali aʼ divini servigi avessero sagrate le nostre leggi.
Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque
in questa colpa caggendo per incontenenza molto sʼoffenda Iddio,
secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave.
E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra
le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle
quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle
distintamente mostrare.]
[Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa
spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»;
il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente
commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata,
quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle deʼ
templi e deʼ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente
quelle le quali eran fatte a sostentamento deʼ gradi deʼ teatri; i
quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si
ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano,
prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare
opera al loro disonesto servigio con quegli aʼ quali piaceva: e cosí
da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè
«fornicazione».]
[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e
questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da
«stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si
commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono
sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente
appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta
presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è
questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo
medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte
si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con
questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata
la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo
peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può,
di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore,
tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]
[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra
obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa
spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè
«_adulterium, alterius ventrem terens_»: cioè lʼadulterio è il priemere
lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale
non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è
premuto, ma del marito di lei.]
[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o
tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra:
e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha
sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi
questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura
di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con
piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti,
che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata
«_ceston_», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «_Et a
pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia
ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia,
blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium_», ecc.
E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere
ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste
nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa
sua cintura detta «_ceston_», a dimostrazione che quegli, li quali
per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno
allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente
alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non
legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va
a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura,
chiamata «_ceston_»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono
«incesto», cioè fatta senza questo _ceston_: ma questa generalitá è
stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque
lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente
sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí
vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il
commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato
«stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché
questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio
risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non
si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove
nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]
[Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro
alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da
una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò
dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha
molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non
dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce
troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente
libro.]
[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio,
e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel
supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente
che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno
le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente
priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]
Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che
piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è
naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti
mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta
se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti
offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale
è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a
Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.
Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne
dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la
quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a
ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli
piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli
a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno,
se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero,
e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle
cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la
concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che
la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «_Sine Cerere et
Baccho friget Venus_».
Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito,
dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del
vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che
in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá
contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito.
E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò
che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa
la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e
perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e
le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la
qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da
lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore
impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per
molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e
per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna
volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta
né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata,
dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla,
se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne,
accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere
tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente
consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto
di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali,
ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la
divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna
allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e
molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser,
fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata
impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore
e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello
eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in
quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò
aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli
affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi,
che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta,
percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di
giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro
riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi
insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno
nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi
disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non
iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si
vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.


CANTO SESTO


I
SENSO LETTERALE

[Nota: Lez. XXIII]
«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti
ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli,
nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di
madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento,
nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo
cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella
prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che
Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse;
nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse
qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso
autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a
Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove
pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza
quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta
quivi: «Noi aggirammo».
Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la
qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale
per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è
mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca
e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta
della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel
secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto
a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri
che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi
muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in
quella, «e come che io mi guati».
«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non
vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia
per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e
per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere
coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova»,
sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa
piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che
queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo,
nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia
in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in
questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso
si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè
queste tre cose.
«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero
essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio
dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello
ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore
qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio
sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole»,
percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra
lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che
quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha
vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl
ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate
le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con
quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.
«Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino
spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso,
«come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti
dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli
offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato
ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun
mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia,
«i miseri profani».
«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu
sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo,
nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu
sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in
altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può
dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre
seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era
con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la
via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali
dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono
rimasi profani.
«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto,
nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore
dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ
cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo
voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion
fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi
ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero
verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci
scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore
questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra,
percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono
chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre
bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e
mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo».
Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.
«E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue
spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa
con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le
pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»;
«La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre,
come di sopra è mostrato.
E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al
comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual
è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è
propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno
altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom
vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li
quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza
piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è
da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer»,
cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran
tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel
cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol
potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel
sesto dellʼ_Eneida_ scrive:
_Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
personat, adverso recubans immanis in antro.
Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
melle soporatam et medicalis frugibus offam
obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
corripit obiectam, atque immania terga resolvit
fusus humi, totoque ingens extenditur antro,_ ecc.
«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato
in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose
addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio
ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave
pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e
ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».
Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli
occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore
essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼ_Eneida_
fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso
sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro
supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse,
se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in
apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá,
che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá
nel canto venticinquesimo del _Purgatorio_, dove questa materia si
tratta.
«Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna,
chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come
lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».
E disse cosí:—«O tu, che seʼ per questo inferno tratto»,—cioè menato,
«Mi disse,—riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire:—Guatami, e
vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere;—e la
ragione è questa, che—«Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato,
«chʼio disfatto»,—cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa
composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento
dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú
uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse,
e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.
«Ed io a lei», cioè a quella anima:—«Lʼangoscia, che tu hai», dal
tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor
della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non
par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi
chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí
fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia»,
cioè maggiore, «nulla è sí spiacente».—
«Ed egli a me», rispuose cosí:—«La tua cittá», cioè Firenze, della
qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá
trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella
non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si
versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia
procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in
Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e
massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la
ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ
Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi
disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come
vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei
tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi,
e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi,
avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta
che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con
dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino,
«in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama
«serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato
dimorava.
[Nota: Lez. XXIV]
«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non
del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come
egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore
di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e
massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e
beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente
se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo
vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo,
egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e
affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri
da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi
rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale,
agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia
«per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual
vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per
infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa
colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí
come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.
«Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta
perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu
credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte
queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena
stanno», che fo io, e «Per simil colpa»—cioè per lo vizio della gola:
«e», detto questo, «piú non feʼ parola».
«Io gli risposi», cioè gli dissi:—«Ciacco, il tuo affanno», il quale
tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto,
«chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di
lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò
che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar
mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo,
mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure
alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non
pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne
dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno
i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in
queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna
si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ
Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso
Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era
in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè
giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non
alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta
discordia assalita».—Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle
quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.
«Ed egli a me» (_supple_) rispose alla prima:—«Dopo lunga tencione»,
cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè
fedirannosi e ucciderannosi insieme.
Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni
delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e
cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi
in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani
dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero
a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a
sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente,
cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani
venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito
Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso,
di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il
malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili
riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.
«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia»,
percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo
della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati
uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli
erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non
erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per
avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá
lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la
parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in
esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali
del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la
parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento
dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta
offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute
daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú
gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché
poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.
«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte
selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá,
«Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole
circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto,
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 14