Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 21

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il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere
le colpe deʼ peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo
conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena
prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa
caduto fosse.
Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio:—«Flegias, Flegias»; era
questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio
quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto»,
cioè per niente,—«Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione
per la quale Flegias grida a voto, dicendo:—«A questa volta», che qui
seʼ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il
loto»,—cioè il padule pieno di loto.
E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole
udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta,
Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli
amici e con altrui; «Tal si feʼ Flegias nellʼira accolta», parendogli
essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e
che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli
era.
[E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive
Lattanzio _in libro Divinarum institutionum_, questo Flegias fu
figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro
aglʼiddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli,
Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima,
piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline
giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il
quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi
forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos,
e quivi mise fuoco nel tempio dʼApolline, il quale a queʼ tempi
dallʼerror deʼ gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di
tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne
sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias, secondo che scrive
Eusebio _in libro Temporum_, lʼanno 23 di Danao, re degli argivi, il
quale fu lʼanno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo,
scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché
vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la
creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran
tratti deʼ ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto
per beneficio della sua deitá, cioè dellʼarte della medicina, erano
in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo
turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e
mandonne lʼanima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli
stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora
gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui
scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_:
_Phlegyasque miserrimus omnes_
_admonet, et magna testatur voce per umbras:
discite iustitiam moniti, et non contemnere divos_, ecc.]
«Lo duca mio». Poi che lʼautore ha dimostrato Flegias essersi turbato
del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive
come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender
si può che altra via non vʼera da poter piú avanti procedere, senza
valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece
entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fuʼ dentro parve
carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non è dʼalcun
peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da
Virgilio, dove dice, nel sesto dellʼ_Eneida_, come Enea trapassò per
nave Acheronte, dicendo cosí:
_simul accipit alveo_
_ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba
subtilis, et multam accepit rimosa paludem,_ ecc.
Poi segue lʼautore: «Tosto che ʼl duca ed io nel legno fui», cioè
nella barca; e usa qui lʼautore il general nome delle navi per lo
speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare è chiamato
«legno», quantunque non sʼusi se non nelle gran navi. «Segando se ne
va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due
parti, cosí la nave, andando per lʼacqua sospinta daʼ remi o dal vento,
pare che seghi, cioè divida, lʼacqua. «Lʼantica prora»: «antica» la
chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora»
la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre
parti principali, delle quali lʼuna si chiama «prora», quantunque per
volgare sia chiamata «proda» daʼ navicanti; e questa è stretta e aguta,
percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender lʼacqua:
lʼaltra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di
dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo deʼ
timoni, li quali in quella parte, lʼuno dal lato destro e lʼaltro dal
sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va
verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama
«carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la
poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato
carico, sega «Dellʼacqua» del padule, «piú che non suol con altrui»,
cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da
Flegias.
«Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
nella quale lʼautor fa quattro cose: primieramente dimostra come un
pien di fango fuori dellʼacqua del padule gli si dimostra; appresso
scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in
dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel
fangoso fosse lacerato dallʼaltre anime deʼ dannati che quivi erano;
ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite.
La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed
io:—Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».
Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente
navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte dʼacqua tratta per
forza del vero corso dʼalcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro
servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta:
per lo qual nome lʼautore nomina qui, _licentia poëtica_, il padule per
lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento che di quello
dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno
corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dallʼacqua
del padule, «un pien di fango», unʼanima dʼun peccatore, «E disse:—Chi
seʼ tu, che vieni anzi ora?»,—cioè anzi che tu sia morto.
«Ed io a lui» risposi:—«Sʼio vengo, non rimango», percioché io non son
dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi seʼ,
che sí seʼ fatto brutto?»—dal fango il quale hai addosso.
«Rispose», quellʼanima:—«Vedi che son un che piango».—Risposta
veramente dʼuomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non
rispondere se non per rintronico.
«Ed io a lui:—Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere
diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto:
dicon primieramente che «_flere_», il quale per volgare noi diciam
«piagnere», fa lʼuomo quando piagne versando abbondantissimamente
lagrime; «_plorare_», il quale similmente per volgare viene a dir
«piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «_lugere_», il
quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con
miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «_lugere,
quasi luce egere_», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia
quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico,
percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto,
quasi allʼoscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per
cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della
ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá,
per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando
questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere
che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «_lugere_»
viene «lutto», il vocabolo che qui usa lʼautore. «_Eiulare_», che
per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace aʼ gramatici,
«piagnere con alte boci»: e dicesi _ab «hei», quod est interiectio
dolentis_; «_gemere_», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e
quel pianto che si fa singhiozzando; «_ululare_» in volgare vuol dir
«piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella
che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo lʼautore
a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna
inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie
del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.
Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento,
«Chʼio ti conosco, ancor sii lordo tutto».—Questo gli dice lʼautore,
percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non lʼavea voluto dire.
«Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee
credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza
di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse,
lʼautore, percioché ingiurioso si reputava lʼautore aver detto di
conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ʼl maestro
accorto», della intenzione di questʼanima adirata, «lo sospinse», cioè
il rimosse della barca, «Dicendo:—Via costá con gli altri cani!»,—deʼ
quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli coʼ denti,
come quivi dice si stracciavano glʼiracundi.
[Nota: Lez. XXXIV]
«Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte
principale, nella quale Virgilio fa festa allʼautore, percioché ha
avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella
lʼautore una spezie dʼira, la quale non solamente non è peccato ad
averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere
usare questa spezie dʼira, Aristotile nel quarto dellʼ_Etica_ chiama
«mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che
sʼadirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali
è convenevole dʼadirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e
quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili.
E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e
non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare
che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali sʼadira, tanto
tempo essere adirato, quanto la ragione richiederá. Questa cotale
spezie dʼira nʼè conceduta daʼ santi. Dice il salmista: «_Irascimini,
et nolite peccare_»; volendo per queste parole che ne sia licito il
commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre
quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al
discepolo, o lʼuno amico allʼaltro, accioché per quella commozione egli
lʼammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non
come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare
dʼalcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú
lʼira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non
si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi,
come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega
che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di
lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato
commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un
mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori eʼ compratori, dicendo:
«_Domus mea, domus orationis_», ecc. Questa spezie dʼira chiamano molti
«sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere lʼautore): il qual non
voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti
e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in
cui egli cade; percioché quanto piú è savio lʼuomo, tanto piú cognosce
le qualitá eʼ motivi deʼ difetti che si commettono, e per conseguente
piú si commuove. E però dice Salomone: «_Ubi multum sapientiae, ibi
multum indignationis_». E vuole lʼautore in questa particella mostrare
questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si
mostra per lo supplicio deʼ dannati in questo cerchio esser commosso,
come neʼ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta
festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo,
in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa
congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in
dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia lʼessere isdegnoso.
È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo,
cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte si pone: il che,
quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è daʼ discreti
da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non
debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie dʼira, le quali
di sopra son mostrate esser dannose.]
Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata
quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi;
«Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché
noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice
«il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo
primieramente lʼonestá del costume, percioché il baciar nel volto è
segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo
sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò,
il volto nostro è detto «volto» da «_volo vis_», percioché per quello
neʼ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il
voler del cuore dellʼautore era buono e onesto, Virgilio, approvando
quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del
corpo dellʼautore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.
«E disse:—Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in
quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando lʼira,
mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in
te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre
nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui lʼautor «benedetta», a
dimostrazion che, come lʼalbero, il qual porta buon frutto, si dice
«benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon
figliuolo. E in questa parte non si commenda poco lʼautore; ma egli è
in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar
sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di
necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni
ira esser peccato.
«Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita,
«persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che
sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí
il nome e la memoria dellʼuomo, nel quale state sono, come il fregio
adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «sʼè
lʼombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.
«Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e
sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio
a biasimare, sotto i nomi deʼ piú eminenti prencipi, i fastidi e le
stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma
eziandio di molti plebei, li quali, per apparere dʼesser quel che non
sono, si sforzano dʼesser ponderosi neʼ passi, gravi nel parlare,
e nellʼadoperare di sentimento sublime, dove nellʼeffetto di niuno
valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il
quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il
«re» è dinominato da «_rego regis_», il quale sta per «reggere» e per
«governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste
ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e
però dice lʼautore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi
non sono.
A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo
in quella tragedia la quale è nominata _Tieste_, dove dice: «Non fanno
le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona
della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate deʼ lor
palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male
del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente
ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la
buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di
cavalli né dʼarmi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non
temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi
quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re
questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.
E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché
posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in
brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano
i mali usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú
vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili
dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare,
state operate per loro.
«Ed io:—Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda
parte principale di questo canto, nella quale lʼautor discrive come,
secondo il suo desiderio, vide straziare allʼanime dannate quello pien
di fango che davanti gli sʼera parato. E primieramente apre il suo
desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, molto sarei vago Di
vederlo attuffare», costui, il qual tu mi diʼ che fu persona orgogliosa
(e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo,
di vedere glʼincorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio
significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo
della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma
qui lʼusa lʼautore largamente, prendendolo per lʼacqua di quella padule
mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché
cosí son grasse e unte come la broda.
«Anzi che noi uscissimo del lago»,—cioè di questa padule. È il «lago»
una ragunanza dʼacque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa,
per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto
il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento;
per le quai cose lʼacqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove
la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui
lʼautore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando
la licenza poetica, e largamente parlando.
«Ed egli a me:—Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa
padule. La quale lʼuomo, come deʼ fiumi, chiama «riva»; ma pone
lʼautore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di
quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili,
accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual
portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla
riva. «Ti si lasci veder, tu saráʼ sazio», di quel che disideri. E poi
ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu diʼ che hai,
«converrá che tu goda»,—cioè ti rallegri.
«Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello
strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti»,
cioè aglʼiracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne
lodo e ne ringrazio».
«Tutti gridavano», queʼ dannati, animando lʼun lʼaltro ad offender
questʼanima. E che gridavano?—«A Filippo Argenti!»—quasi voglian
dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.
Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese
Domenichi) deʼ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna
volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare dʼariento,
e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e
nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo,
eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che
queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo
molto essere iracundo scrive lʼautore lui essere a questa pena dannato.
«E ʼl fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo
vocabolo «bizzarro» sia solo deʼ fiorentini, e suona sempre in mala
parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per
ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna
dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire
o assalire dagli altri, «si volvea coʼ denti», per ira mordendosi.
«Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di
lui dopo questo si seguisse.
«Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello,
che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si
percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli
percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata.
E segue: «Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse,
«avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi
sbarro», cioè, quanto posso apro.
«Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda
parte principale del presente canto, nella quale lʼautore dimostra
come venissero neʼ fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon
maestro disse:—Omai, figliuolo, Sʼappressa la cittá che ha nome Dite,
Coʼ gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati,
«col grande stuolo»,—cioè con la gran quantitá.
«Ed io:—Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini
i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi
chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché
questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che
gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori
della cittá venga, che lʼaltre case; e perciò non fa lʼautor menzione
dellʼaltre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole
«meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.
«Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché
la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea
«Vermiglie, come se di foco uscite Fossero».—E questo dice a rimuovere
una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha
alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del
padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se
non fosse che esse medesime si facevan vedere per lʼessere affocate,
cioè rosse.
«E quei mi disse:—Il fuoco eterno, Chʼentro lʼaffuoca, le dimostra
rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno».—
Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual
fu necessaria dʼaprire, accioché egli non estimasse quelle essere
dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro allʼalte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio
significato, è quello palancato, il quale aʼ tempi di guerre si fa
dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente
chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual
fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.
«Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle
essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di
questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ cosí:
_Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae,_ ecc.
«Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale
del presente canto, nella quale lʼautor discrive la raccolta fatta
loro daʼ demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a
Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose:
primieramente discrive cui trovassero allʼentrare della porta di Dite,
e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra
come si sconfortasse per lʼandar Virgilio a loro. E comincia questa
particella quivi: «Pensa, lettor».
Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»;
nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi
di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta
di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove ʼl nocchier», cioè
Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al
quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di
comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogpo;
e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte—Uscite!—ci gridò».
Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il
costume deglʼiracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan
fare se non impetuosamente e con romore.—«Qui è lʼentrata»,—della
cittá di Dite.
«Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá
di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di
paradiso, in guisa di piova caddero nello ʼnferno, «che stizzosamente»,
cioè iracundamente, «Dicean», con seco medesimi:—«Chi è costui, che
senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta
gente?»,—cioè per lo ʼnferno, il qual veramente si può dir «regno
della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della
morte temporale, e morti nella morte eternale.
«E ʼl savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor
parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il
gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non
parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende
in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è,
alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser:—Vienʼ tu solo», qua a noi,
«e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò
per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è
venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle,
percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia,
ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per
essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa»,
tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai
scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada»,—cioè sí oscura.
E vuole in queste parole lʼautore quello dimostrare, che negli altri
cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun deʼ ministri
infernali sempre allʼentrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui,
dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della
cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché
del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover
conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in
inferno discendere.
«Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte
principale, nella quale lʼautore mostra come si sconfortasse. «Pensa,
lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle
parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne
la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Chʼio non credetti
ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin
quivi guidato mʼavea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un
passo.
E però, da questa paura sbigottito, dice:-«O caro duca mio, che piú
di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo ʼnfinito, «Volte
mʼhai sicurtá renduta, e tratto Dʼaltro periglio che incontro mi
stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali
impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti lʼira di Carone,
di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi
lasciar—dissʼio—cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza
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