Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - 18

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SENSO ALLEGORICO

[Nota: Lez. XXIX]
[«_Papé Satan, papé Satan aleppe_», ecc. Dimostrò lʼautore nel
precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa
della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ
gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose
precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei
dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello
della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che
in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti
fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti
questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate
altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il
loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise,
quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio;
e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che
cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la
pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al
peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello
dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli
iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]
[Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere
stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai
attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che
lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno,
il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e
con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale
avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ
tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe
nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá
stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella
comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il
diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i
campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale
per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne
mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato
era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e
di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa,
ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno
stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò
Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone
Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare
coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá;
e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone
intendere.]
[Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo
altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato
_Dispiter_, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu
_Opis_, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto
con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu
nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello
ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale
assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ quivi:
_Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, ecc._
E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel
suo _Thebaidos_, dicendo:
_Forte sedens media regni infelicis in arce
dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
saevaque multisonas exercet poena catenas:
fata ferunt animas,_ ecc.
E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma,
dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e
chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi
deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò,
accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in
cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze
ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto,
parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter
trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a
procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando
dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne
veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre
vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme
di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta
lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato
il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di
ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per
moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale
aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia
del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia
dʼ_Ercole furente_:
_Post haec avari Ditis apparet domus.
Hic saevus umbras territat Stygius canis,
qui terna vasto capita concutiens sono
regnum tuetur: sordidum tabo caput
lambunt colubrae: viperis horrent iubae
longusque torta sibilat cauda draco.
Par ira formae,_ ecc.]
[Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone
voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire
quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona
tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «_Dispiter_»,
quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano
in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «_Opis_»
è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non
solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché
le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in
parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale
primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente
chiamato padre di Plutone.]
[Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data
una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone;
accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le
ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro
intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice
Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:
_Nulli fas casto sceleratum insistere limen;_
accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza
ingiustizia non potersi fare.]
[Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono
intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e
ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le
ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati
coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per
lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo
mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro
li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e
lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo
significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose
future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e
cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne
di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per
arricchire par che sieno.]
[Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato
«oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione
dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza
riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato
Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per
questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali
spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e
in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto
vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che
per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la
speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e
cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]
[Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa
«abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui
che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo
ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché
esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo
i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in
contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame
e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si
genera che laudevole o degna di memoria sia.]
[Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e
perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá,
le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora,
ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli
prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane,
sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto
«guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano
intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú
dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e
cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre
teste discritte, a dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni
sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente
in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché
quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin
via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano,
nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di
coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni
parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino,
e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La
terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o
ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e
di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi,
non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano,
né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire
tristissimi e miseri guardiani di Dite.]
[I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da
intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali
intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]
[Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come
appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «_Ut alter Orcus venisse
Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur_»,
ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è
ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che
che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che
qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che
per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo,
sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí
significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il
quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]
[Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché
lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale,
cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella
esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui
significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare
tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda
ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili
cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e
quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova,
richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate,
mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella
mostrarvelo.]
[Leggesi nel _Genesi_ che il serpente venne ad Eva, e confortolla
che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella
non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico
della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa
sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼ_Apocalissi_ che
fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu
detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per
questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro
antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente
intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che,
essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte
del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano
e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano
dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual
cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di
rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso,
e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che
trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal
serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli
sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo
serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico
elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe
delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti,
cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le
mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione
e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati
e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu
questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame,
il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua
passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le
punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del
ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ
quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu
aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la
sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e
ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una
medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio:
Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]
[Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere
significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il
salmista: «_Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est
in caput anguli_»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi
Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ
maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre
che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a
porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente,
provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del
tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e
nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi
due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose
il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu
deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una
chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e
ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in
quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon
quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati
da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse
con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e
cosí potete veder qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a
questo, si legge nellʼApocalissi: «_Substulit angelus lapidem quasi
molarem et misit in mare_», per la qual pietra vogliono i dottori,
sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «_Auferam
eis cor lapideum_», per la quale intendono i dottori la durezza della
infedelitá. E il salmista dice: «_Descenderunt in profundum, quasi
lapides_», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del
peccato.]
[E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una
medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che,
come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente
addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa
e quando unʼaltra.]
[Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li
laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i
dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in
altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il
naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi
si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la
quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo:
ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e
lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son
fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par
loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi
è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre,
la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad
una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni
maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola,
e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]
[Nota: Lez. XXX]
Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che,
secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá
tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano,
graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto,
lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto
umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del
tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero,
essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato
alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio
facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo
alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno
armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di
niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata
da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra
cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito
di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per
questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta
lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare
nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura
delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ
primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno
[che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i
vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale,
non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta
simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
[essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi
due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò,
che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in
paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano
ad accrescere il loro numero in inferno.
Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler
ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini,
si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle
proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a
prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo,
entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le
servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con
onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente
desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la
vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E,
non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi
nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove
ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati
i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli
altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle
profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre
preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati,
col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della
lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual
potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che
Boezio nel secondo libro _Della consolazione_, fortemente dolendosi,
dice:
_Heu! primus qui fuit ille
auri qui pondera tecti
gemmasque latere volentes
pretiosa pericula fodit?_
Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e
la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad
averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque
sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo
inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di
secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i
temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito
acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune
fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del
tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni
astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio
di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare,
onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i campi e lʼumane sustanze
in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo
non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione
spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi
ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare;
e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla
divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra,
mandati siamo.
E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello
che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora
si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare:
piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
brievemente, consista questo vizio.
È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «_auri cupiditas_»,
cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (_Ad Ephæsios_, v): «_Avaritia
est idolorum servitus_». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel
quarto dellʼ_Etica_, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene,
e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia
cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá
appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza
dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a
Rustico monaco, dove dice: «_Æstimato malo pondere peccatorum, levius
alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat.
Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare
Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat:
ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana
thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur
idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre,
offert creaturæ_». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene,
e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente
trattato.
Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto
disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le
montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati
dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa;
avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche
scrive a Lucillo, dove dice: «_Magnae divitiae sunt, lege naturae,
composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis
statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque
depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium
grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria
tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et
appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae
nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad
manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est_».
E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine
pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con
onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale
appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma,
percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio
trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il
vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile,
quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.
Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá,
ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via
ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú
che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si
dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e
occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente
acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama
curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali
dice Tullio nel libro terzo _Degli offici_: «_Detrahere igitur alteri
aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est
contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera,
quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis_», ecc.
Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che _prima facie_ vogliano
e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede, li quali sono a
distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie
dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione
dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato
il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi
loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta
operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú
in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare.
Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro
arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna
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